Racconti nella Rete 2009 “Catwoman” di Massimo Ubertone
Categoria: Premio Racconti nella Rete 2009Per fortuna che già da ragazzo avevo il sonno leggero, altrimenti quest’avventura non mi sarebbe mai capitata. Allora abitavo ancora coi miei genitori; era estate e dormivo con la persiana alzata. A un certo punto sento come un fruscio nella stanza. Resto immobile facendo finta di dormire, e nella cornice della finestra vedo una figuretta esile vestita di nero. Forse c’era la luna piena, non ricordo, ma capisco subito dal modo elastico di muoversi che è una donna molto giovane. Sta armeggiando con una specie di rampone, ci arrotola attorno un cordino. Ha i capelli biondi e lisci, e mi sembra bellissima. Ricorda Catwoman. Un po’ per l’emozione, e un po’ per non far capire che sono sveglio, accentuo il mio respiro pesante, regolare. Come prevedevo, dopo poco lei si avvicina al comodino per prendere l’orologio, che è ben visibile perché emana una luce verdina fosforescente. Facevo kick boxing, a quei tempi, ero molto in forma, e rapido nei riflessi. Così appena tocca l’orologio, con una mossa fulminea allungo il braccio e la blocco per il polso. Nessuno dei due dice una parola. Lei si divincola, tira, ma io tiro più forte. Alla fine cede, e di colpo me la ritrovo addosso, sul letto, con la sua faccia ad un palmo dalla mia. La immobilizzo tenendola stretta con tutte e due le braccia. Ha gli occhi verdi, come i miei. E’ davvero bellissima; lei continua a divincolarsi, io continuo a stringerla. Sento bene la pressione dei suoi muscoli e anche lei è molto in forma; del resto, immagino che se fosse stata un’anziana flaccida non sarebbe riuscita ad arrampicarsi dalla finestra. Stiamo ansimando tutti e due, ma non credo che sia solo per lo sforzo che facciamo. Ne deduco che anche a lei piace divincolarsi mentre la stringo proprio come a me piace stringerla mentre lei si divincola. Con tutto questo movimento mi ritrovo quasi subito con un’erezione molto ingombrante che, lì in basso, in mezzo a quel trambusto faccio un po’ fatica a gestire. Dovete tener conto che avevo diciannove anni.
Insomma avete già capito come va a finire.
Scopro che è vergine. Non me l’aspettavo proprio.
Dopo un quarto d’ora, mentre la guardo nuda, coi capelli sparsi sul cuscino e quella pelle quasi trasparente le dico: “Sei bellissima, potresti fare l’attrice, la fotomodella. Perché vai in giro di notte a rubare nelle case?”
Sono le prime parole da quando è entrata dalla finestra.
Mi guarda seria, e finalmente sento la sua voce: un po’ maschile, sbrigativa, l’avrei immaginata diversa. Ha un leggero accento straniero, forse slavo:
“Sei matto, tu! Mio padre è uno all’antica, molto severo. E poi è geloso, lui mai mi lascerebbe fare un mestiere così, e farmi vedere da tutti. Lui ha sempre fatto il ladro di appartamenti, mi ha insegnato tutti i trucchi e adesso che non ha più l’età tocca a me lavorare. Ma controlla sempre tutto. Non posso uscire prima delle tre di notte, e alle quattro e mezza, cinque massimo devo essere a casa col lavoro finito”.
Insomma, quella notte le ho lasciato l’orologio, perché qualche cosa a casa doveva pure portare, e da allora, per tutto quel mese di luglio, ci siamo visti una o due volte a settimana. Io lasciavo la finestra aperta, e verso le tre e mezza arrivava.
Il difficile era trovare ogni volta un po’ di soldi o uno o due oggetti di qualche valore che lei potesse rubare. Non dovevano essere cose troppo importanti, o troppo in vista, come i candelieri d’argento dell’ingresso, altrimenti i miei genitori se ne sarebbero subito accorti. Ma neanche delle cose da niente, se no con suo padre erano problemi.
Dopo una ventina di giorni avevo raschiato il fondo del barile. Mia madre si era accorta che mancavano cose in casa, allora aveva fatto una scenata alla domestica che si era messa a piangere, e tutte le cose di valore erano state messe sotto chiave.
Una notte avevo messo insieme solo tremila lire, che erano l’ultimo avanzo della mia paghetta mensile. C’erano ancora le lire, allora. Lei le aveva prese e le aveva infilate nella scollatura, nello spazio tra i due seni, senza dire niente, ma la volta dopo mi ero poi accorto che aveva un livido ad uno zigomo.
Poi una mattina, alla fine di luglio, leggendo la cronaca locale del giornale che prendono i miei vedo un titolo su tre colonne: “Ladra di appartamenti colta con le mani nel sacco”. In breve, l’articolo riferiva che una giovane di nazionalità albanese, L.B. di diciotto anni, attorno alle quattro di lunedì mattina si era introdotta attraverso la finestra in un appartamento di Via Marconi (che è una traversa a un paio di isolati da casa mia) rompendo il vetro di una finestra del primo piano. Era suonato l’allarme, e in pochi minuti era intervenuta una volante. L. B. era stata giudicata per direttissima giovedì mattina, aveva patteggiato una pena di otto mesi, ed essendo clandestina ne era stata disposta l’espulsione.
Ho fatto mente locale. Quella notte, l’ultima notte in cui siamo stati insieme, lei era uscita dalla mia stanza alle tre e tre quarti. Aveva il terrore di fare tardi, e al momento di andare controllava sempre l’orologio che aveva al polso (il mio, tra parentesi) e mi chiedeva, in fretta, qualche cosa da portare a casa. Ma quella sera non avevo proprio niente.
Gliel’ho detto, che non avevo trovato niente; avevo paura che si arrabbiasse, ma lei ha fatto solo un mezzo sorrisetto storto come dire: “pazienza”, mi ha dato un ultimo bacio ed ha scavalcato il davanzale. Invece di buttare giù la corda, come faceva di solito, ha spiccato un gran salto, saranno stati quasi tre metri, ed è scappata via proprio come un gatto.
Evidentemente, per la paura di tornare a casa a mani vuote, e avendo solo pochi minuti a disposizione, aveva cercato di entrare nel primo appartamento che le sembrava accessibile, così, un po’ a casaccio e senza le dovute precauzioni.
Per la fretta era stata poco professionale e così l’avevano beccata.
In conclusione, era stata un po’ colpa mia. E adesso si era come dissolta lasciandomi solo due iniziali: L.B.
Ho pensato di telefonare al giornale per sapere qualcosa di più, ma poi mi sono detto che se il nome per esteso non lo avevano voluto scrivere non lo avrebbero detto neanche a me. E lei, tutte le volte che le avevo chiesto “come ti chiami” o “dove abiti” era restata zitta guardandomi con una faccetta da presa in giro. Si vede che non si era mai fidata fino in fondo.
Volete sapere come mi sono sentito?
Non bene, per un po’, ma adesso va molto meglio.
Tutte le volte che mi ritorna in mente mi ripeto che è così che doveva finire. Adesso che sono più maturo mi sforzo di pensare la stessa cosa che avrà certamente pensato mio padre leggendo l’articolo sul giornale. Che un crimine è stato punito e un clandestino è stato giustamente rimpatriato. E che la mia città è diventata un po’ più sicura. A casa dei miei, in particolare, non è più mancato niente.