Racconti nella Rete 2009 “Il gatto e il canarino” di Raffaele Giannetti
Categoria: Premio Racconti nella Rete 2009La serata era splendida. Una leggerissima brezza profumava l’aria.
– Che serata splendida, caro!
– Splendidissima! Ma Fuffi dov’è?
Il fatto è che gli scrittori, per quanto scrupolosi e serî, modificano sempre la realtà che hanno di fronte, dal punto di vista estetico, almeno. La lingua, per esempio: quella di uno scrittore non sarà mai così originale come quella di tutti i giorni; o così poco originale, come nel nostro caso. La realtà, lo sappiamo, supera sempre ogni nostra più ardita fantasia. Raramente la finzione è superlativa. E poi, nei momenti più felici della nostra vita, quando assaporiamo interamente la dolcezza di un pensiero che ci si libera dentro – è il caso del nostro Anthony Farrel –, è come se, tanto per dire, “ci lasciassimo” parlare. Cioè “ci lasciassimo parlare” dagli altri, o addirittura dalle parole stesse, senza alcuno sforzo, per non sciupare l’idillio.
– Che vista!
– Abbiamo fatto bene ad acquistarla, si vede un panorama…
La terrazza era molto ampia, un belvedere che si affacciava sul declivio del colle, sul laghetto circondato dai lecci e dai corbezzoli. Una fila di grandi cassette di terracotta, con fitte piante di alloro e viburni, la divideva in due.
I coniugi Farrel non erano i soli, quella sera, a cenare all’aperto; anche i loro vicini, gli Armstrong, stavano godendosi lo spettacolo della natura, a cui, tuttavia, è difficile abituarsi. Loro abitavano lì ormai da più di dieci anni. Più di dieci, forse anche dodici o tredici, o perfino quattordici. E perché non dirlo precisamente? Perché non dirlo… subito? Ma nemmeno gli Armstrong, in questo momento, a meno di non mettersi a fare dei calcoli un po’, come dire, ingombranti, fuori luogo, pedanti, se lo ricordavano e, dunque, nemmeno io che mi limito a trascrivere i loro pensieri. Comunque, sapevano dell’arrivo dei nuovi vicini, e la loro cena, per quanto al di là della barriera di alloro e viburni, sarebbe stata più compita del solito.
Quel limitare, quel confine di verzura, impediva che le due coppie si vedessero, ma non impediva che si sentissero. In due o tre punti, poi, quella siepe discreta permetteva il passaggio.
– Ma Fuffi dov’è?
– Chissà come sono i nostri vicini. Sembrano persone per bene.
– Che bello spettacolo! Ceneremo sempre fuori.
– Hai messo il mangime nella gabbietta?
– Micio, micio…
– D’inverno non sarà possibile.
– Non lo so.
– Non ho dubbi, persone serissime.
La brezza leggera profumava l’aria e scuoteva appena i ramoscelli facendo vibrare le foglioline più alte. A stare lì, presso quella verde barriera, sembrava che le due storie si confondessero e pian piano entrassero l’una dentro l’altra: – Fuffi! – Fuffi! – Sì, ce l’ho… – Guarda! – Ma nella… – …messo. – …bella stagione, sì!
C’era una tensione speciale quella sera, un’attrazione che si faceva davvero sentire, sulla pelle. E che, naturalmente, sento anch’io; io che sto qui a descrivere i sentimenti degli altri. Ma ci sono dei momenti in cui una particolare sensazione sembra anticipare, prevenire ciò che sarà, per cui, secondo alcuni, si può dire che è lo spirito a dar luogo alle azioni, a creare la realtà.
Con un balzo felino Fuffi (Fuffi Farrel, per intendersi) – del resto i gatti sono sensibilissimi interpreti dei segni più arcani – passò attraverso l’alloro. Il primo ad accorgersene fu certamente il canarino (il canarino Sweet Armstrong).
– Ah!
– Attento, un gatto!
– Fuffi?
– Oh! oh!
Confusione indescrivibile. Ma la gabbietta pendeva sicura a un metro e mezzo dal suolo.
Fu così che Armstrong e Farrel fecero conoscenza. Non era successo nulla, in fondo, e tutto finì in una grande risata. Il canarino imparò ad apprezzare, crediamo, la sua gabbia. Fuffi fu sorvegliato a vista, ma in compenso fu più abbondantemente nutrito.
Qualche giorno dopo, l’amicizia era scontata, come quelle di vecchia data. L’idillio tra vicini durava.
…
Un giorno la signora Armstrong – Lucy Armstrong se non ricordo male – pensò di sfruttare la gentilezza dei vicini e la discrezione di quella siepe. Ecco come fece, con quella titubanza gentile che chiede un favore. Dovendo partire e star fuori per alcuni giorni pregò la vicina – a dire il vero non mi ricordo proprio come si chiamasse – di accenderle la luce, durante la loro assenza, a sera, per non far insospettire i ladri, come se la casa fosse abitata, anche se loro non c’erano. Così, proprio per accrescere questa impressione, lei avrebbe lasciato anche la tapparella a metà, sollevata da terra, in modo tale che, volendo, avrebbe potuto – dico la signora Farrel – sgattaiolare dentro (si fa per dire) per accendere o spegnere la luce, controllare il frigo, dar acqua alle piante…
– Arrivederci.
– Arrivederci e buon viaggio.
– A presto, a presto.
La serata era splendida. Una leggerissima brezza profumava, come al solito, l’aria.
– Che serata!
– Davvero bella!
– Stasera ce la godiamo tutta noi.
– Ho una fame…
– Davvero bella! Ma Fuffi dov’è?
– Fuffi!
– Ma… la porta…
– Fuffi! Fuffi!
Con un balzo quasi felino i coniugi Farrel passarono fra le piante di alloro mentre Fuffi usciva dalla mal chiusa tapparella di casa Armstrong, con un canarino in bocca. Con il canarino in bocca!
I tentativi di rianimare il povero uccellino furono vani: era già morto, i segni dei denti appena appena visibili. Creature troppo delicate e indifese! Dopo una rapida consultazione, fatta di singulti, borbottii e altre inaudite articolazioni più che di espressioni sensate, Anthony rimise il canarino nella gabbietta, che era lì in terra, con la porticina aperta, vicino alla portafinestra che dava sull’ampia terrazza. Lui, però, volle richiuderla. Non si sa mai! Ma non si lascia una gabbia in terra, soprattutto se ha la porta difettosa! Quantomeno imprevidenti!
Furono giorni terribili, come si può immaginare, lunghi soprattutto. Finalmente – per così dire –, gli Armstrong tornarono. I soliti rumori di chi rientra, si sistema, rimette a posto le valigie e le borse, si toglie le scarpe, si rilassa. Ma ad un tratto, si odono delle urla. Poi un vociare e un chiasso nevrastenico. Infine, dopo qualche minuto di silenzio, il trillo del campanello, che scuote i Farrel.
Va alla porta ed apre. È la signora, come immaginava. La faccia cupa… no, non cupa. Non proprio. Ha un’espressione… come dire? Un’espressione… C’è qualcosa…
– Sa che è successo al mio canarino? Lo sa?
– Ecco, ci siamo, pensò Anthony, è finita. Almeno con i vicini.
– Lo sa che è successo? Ma, certo, come può saperlo?
– (Devo stare calmo e non peggiorare la situazione). E gentile.
– Che dice?
– No, niente.
– Ah, ma lo sa, lo sa?
– Che cosa… è forse…? o per caso sta male? o forse… morto?
– Morto? Sì, cioè no!
– (Oh, questa poi!) Sì o no?
– Sì e no! Lei non ci crederà, ma il canarino era già morto da tre giorni. L’avevamo seppellito nel vaso della terrazza, vede, quello sotto l’alloro, il più vicino alla ringhiera, giovedì sera. Ma oggi… oggi lo abbiamo ritrovato nella sua gabbia!! Con la porticina chiusa! Come se non volesse andarsene, volesse rimanere lì, per sempre, con noi! In questa casa ci sono i fantasmi!!
Ma perché mi guarda così? Con un’aria… un’espressione… come dire?
* L’autore dichiara di aver sentito la storia dal suo amico Henry, a cui l’aveva raccontata il fratello John Charles, professore all’Università in quel di Stirling, in Scozia (paese notoriamente infestato da spettri). John Charles, a sua volta, dice di averla raccolta direttamente dalla viva voce del protagonista, suo fidatissimo amico e collega. Storia vera, dunque, che l’autore ha solo messo sulla carta, non prima, tuttavia, di aver preso una sofferta decisione: quella di non scrivere mai più una riga.
Il traduttore ha cambiato Lou in Fuffi, per dar modo al lettore italiano di immaginarlo subito gatto, senz’altra spiegazione.