Premio Racconti nella Rete 2013 “Odori” di Gabriele di Ciriaco
Categoria: Premio Racconti nella Rete 2013Quella notte non gli riuscì a chiudere occhio, girandosi e rigirandosi per scacciare gli eventi, nefasti, accumulatisi negli ultimi mesi. Tutte le volte che provava a riaddormentarsi ansie, lo attanagliavano facendogli compiere irrazionali gesti, movimenti come a voler allontanare impellenti minacce. Per questo quando la flebile luce di un pallido mattino, lentamente iniziava ad evidenziare le simmetrie del mobilio, poco in verità, della stanza che abitava; una stanza grande, con letti come una camerata di collegio (io gli ero vicino di branda) fredda, impersonale. Senza parvenza di stile da poterlo descrivere. Ne fu sollevato, quasi felice di non doversi più confrontare con quei fantasmi che lo avevano sadicamente tormentato durante la notte, lasciandolo adesso in un torpore indifferente. Decise quindi di alzarsi ed andare a lavarsi con quella saponetta alla lavanda che aveva comperato il giorno avanti in un negozio specializzato, solo perché gli ricordava il profumo intenso che emanavano i fiori, in quell’angolo, intimo, di giardino che i suoi genitori avevano dietro la casa; quante volte vi si sedeva in mezzo trasportato da quelle magiche esalazioni a perdersi in mondi di sogni e avventure.
Aveva avuto, sin da piccolo, una predisposizione speciale per gli odori, associandoli, con il passare degli anni a momenti della sua esistenza. Ogni avventura un odore, ce ne furono di profumati e felici, di neutrali ed indifferenti, ma anche maleodoranti e tristi, se li ricordava tutti, accomunandoli a nomi e situazioni. Il profumo della macchia in primavera così fresca a pulita, come un’ingenua bambina: gli ricordava in particolare il sapore dei baci sinceri e romantici di Margherita, la figlia di un impiegato di banca, che veniva, ogni anno a passare le ferie nel suo paese, a ridosso degli Appennini. L’odore delle mele zuccherate, così rosse e splendenti che sembravano fatte di porcellana, gli rammentava invece sua zia Nuna, che gli e le comprava ogni anno per la fiera dei morti; il Pino, quelle allegre scampagnate, con la famiglia, in cerca di funghi, per boschi. Quello dei Tigli, invece, il viale del suo villaggio, quando vi si arrampicava su uno di essi per osservare la finestra dove abitava Mavi, una ragazza (la sua prima cotta) che aveva popolato gli adolescenti sogni e mai conosciuta. … e tanti altri ancora. Il dopobarba, che usava sempre e solo quello: un miscuglio di soavi profumi, gli e lo donò, con tutto il suo corpo, tempo addietro, Angela, l’unica donna che aveva veramente amato nella sua vita; ma quello che soprattutto lo entusiasmava, era l’odore del vento al tramonto, rivedendovi nitida l’immagine di lei che gli si stringeva un po’ complice, facendolo sentire in quel turbine di passioni, virile, un vero uomo, nell’offrirgli le sue labbra dal sapore di fragola, che lui vi si abbandonava con voluttà.
Il profumo del Mughetto, invece, gli fu fatale; lo riconobbe subito, mitigare quegli altri, di sudore e terrore. Non aveva mai avuto simpatia per quelle liliacee dai fiorellini bianchi, così devoti; gli rammentavano, non seppe perché, i lunghi e miseri corridoi del collegio, da adolescente, nelle tediose ore di ricreazione. Da allora, quando ne vedeva alcuni, li sbirciava con indifferenza, più con avversione, al contrario di sua sorella, che li amava con passione, perché appunto: immacolati e indifesi; ne coglieva sovente mazzetti, che distribuiva, dentro piccoli vasetti, per tutta la casa.
°°°
Era una giornata come tante altre quel venerdì, le persone sembravano fare le stese cose di sempre, perché poi no: svegliarsi, andare al lavoro, chiacchierare, confidarsi, litigare, mangiare, fare all’amore, dormire. Per loro invece no; loro non erano gente come tutte le oltre, speculare sulla loro diversità, significa aprire un capitolo che svia dalla trama del racconto, quindi diversi.
Da settimane la stavano preparando, senza tralasciare nulla, nei minimi particolari: appostamenti, controlli degli orari di punta e quelli di calma, profili delle persone che vi lavoravano, che vi entravano e uscivano, sistemi di sicurezza, una valutazione sommaria di quanto vi avrebbero trovato; ma soprattutto provare e riprovare mentalmente e fisicamente, con acribicità, i ruoli da interpretare, perché non vi erano repliche per potersi migliorare. Un’unica rappresentazione che doveva condurre esclusivamente al successo.
Entrarono quasi allo scadere dell’orario d’apertura, prima ancora che il furgone della centrale ritirasse, come di consueto, la somma da trasportare. Lui si catapultò dentro con la pistola in mano, coperto da un passamontagna; poi divenne tutto così veloce: tra comandi dalla brutalità imperativa, urla di paura, suppliche, pianti, isterie. Mentre gli altri due tenevano a bada le persone e l’agente di sicurezza, sfondò gli ostacoli di vetro, avvicinandosi alla cassiera, e lo annusò quel maledetto profumo di mughetto. La donna implorava di non fargli del male porgendogli con mani tremanti alcune banconote, lui la scalzò con violenza scaraventandola a terra, più che altro per allontanare quell’odioso olezzo, seguitando a fare razzia.
Aveva appena finito di riempire una borsa di plastica, quando s’udì il secco rumore di uno sparo echeggiare assordante nella stanza, seguito da incontrollate grida e imprecazioni, solo allora sentì quell’odore di bruciato e quello acre del sangue che fuoriusciva portandosi via gli ultimi aliti di una vita, e capì d’essere per sempre dannato.
Dopo quel tragico episodio, la vita divenne pericolosa e senza speranza, i ricordi più amari, gli odori sempre più sgradevoli e brevi, come l’odore della terra bagnata dalla pioggia, che gli ricordava le notti all’addiaccio, o quello stantio, inspirato tante volte dentro androni o grotte, dove, anche gli innocui rumori si amplificavano divenendo impellenti minacce, che lo esortavano a fuggire ancora, e ancora. Sempre. Ci si può allontanare da tutto e tutti, rifugiarsi nell’angolo più remoto della terra, rifarsi una nuova vita, ma non si possono prescindere le responsabilità delle azioni che si sono compiute, esse si traducono in nitide immagini: una miriade di volti, corpi, ricordi, che con il passare del tempo, acquisiscono abitudini, ripetizioni, cercando di esorcizzare i demoni di quel tragico venerdì a Milano. Simulacri ripetuti, all’infinito, vivergli accanto come entità apodittiche; se qualche volta, per un attimo, se ne voleva allontanare, o si abbandonavano ad altre meno tristi rimembranze, ossessive gli strattonavano lembi d’oblio per ritornargli reali a guardarlo negli occhi. Il tragico ideale fra i ricordi e l’inquietudine, è quello che passa tra l’illusione e il sogno: entrambi opprimono, lasciandoti una velata malinconia. In quell’attimo che indugiò nell’osservare l’individuo in divisa, che colpito allo stomaco, si accasciava a terra tentando, con il palmo della mano, di arrestare i ricordi , i volti, e anche gli odori che, trasportati da quel sanguinolento fluido, abbandonavano senza remore la sua vita; prima di fuggire da quell’incubo; un esistenza espressa dal dolore che lo sguardo ne risaltava le espressioni. Occhi sbarrati, ossessionarlo, che si domandavano perplessi il perché così brutalmente, prima di rimanere immobili come quelli di un giocattolo dimenticato da qualche parte. Gli venne in mente Olga, una donna avanti con gli anni, corpulenta e affetta da diabete, che viveva in una vecchia spelonca, dove la penombra vi regnava incontrastata, in compagnia dei gatti e le sue bambole, ne aveva collezionate tante, nell’arco della vita, che sistemava con composta eleganza negli angoli più remoti dell’abitazione. Si guadagnava da vivere come chiromante, preparando, per chi ne richiedeva, arcaici influssi dalla ieratica segretezza per guarire il mal d’amore. La prima volta che varcò la soglia di quello spero, accompagnò sua zia, un infermiera ambulante, che assisteva in loco i malati. Sin dall’inizio, lo colpirono quell’esalazione di rinchiuso, dove gli odori tramutarsi in olezzi non definiti; e la sensazione di sentirsi osservato, centinaia di occhi che scrutavano ogni suo movimento. La vecchia donna, accortasi di quell’inquietudine, lo rassicurò dicendogli che erano solo bambole, ne tolse una da sopra il letto porgendogliela per dargliene conferma; nel prenderla gli scivolò di mano cadendo a terra con macabro rumore. Atterrito, guardò il giocattolo che sembrava fissarlo, come una bambina vera, supplicandolo, con quei falsi occhi di vetro, di soccorrerla. Fuggì via singhiozzando terrorizzato.
La polizia, qualche giorno dopo riuscì a catturare gli altri complici, lesse l’articolo sul giornale, al bar della stazione di Firenze, mentre mangiava un sandwich. Sapeva, adesso, di non avere più scampo, era solo questione di tempo. Pagò senza fretta le consumazioni, come un cliente qualsiasi. Uscì dal Terminal con lo spirito indifferente di un’altra persona, avviandosi in direzione di piazza del Duomo: quello che fanno migliaia di turisti che arrivavano in questa città, senza una meta precisa, perdersi nel mezzo di quell’incontrollata marea di gente, di voci dal caotico sonoro, passare da un viso all’altro per scrutarne gli sguardi nostalgici, senza dovercisi riflettere, esaurirsi, non pensare a nulla, solo camminare e camminare, donandosi, alla fine, inerte, consapevole, a quell’ineluttabile spossatezza, attendendo che gli eventi avrebbero percorso il loro ciclo.
Entrò per caso in quell’Androne di via Cavour, forse per ripararsi dal vento freddo che spirava, (uno scherzo del destino) oppure perché lo sentiva, ultimamente, sempre più suo quell’odore di putrido che lo perseguiva, fatto sta che salì rassegnato quegli interminabili gradini, fin su in pensione, (il luogo dove attendere non è poi così importante) lo vidi che contattava con il proprietario il prezzo del letto e della camera che lo avrebbe alloggiato.
°°°
Dopo essersi lavato, sbarbato, e profumato, indossò un vestito sul blu “firmato” che aveva comprato il giorno avanti, calzò un paio di scarpe nere laccate, la camicia di seta scura e una cravatta di color rosso sgargiante, che risaltava prepotente su quelle tinte macabre. Sembrava dovesse andare a qualche manifestazione culturale, tanto era agghindato; invece, dopo essersi accesa una sigaretta, sistemò una seggiola accanto alla finestra, sedette con tutta calma cercando di non sgualcire l’abito e attese. Quell’odore rassicurante di pulito, che i vestiti emanavano, vaporizzati alla lavanda, lo catapultò ad attimi d’infanzia, quando, tutte le domeniche, sua madre lo vestiva a festa, per andare alla messa. Un cerimoniale cui si abituò con adolescente lascivia, gli piaceva quando la genitrice, nel vestirlo, gli sfiorava con le sue belle mani, che emanavano un effluvio particolare, il corpo; ma soprattutto quando gli accarezzava il volto baciandolo sulla fronte, poi, mano nella mano se ne andavano insieme in chiesa ad assistere alla sacra funzione cantata di mezzogiorno. A messa finita, si fermavano sempre in una pasticceria poco distante a mangiare cannoli alla crema, e sua madre gli raccomandava di non sporcarsi. Nel ritornare a casa osservava volentieri, con occhi di pubescente malizia, quel corpo vibrante che gli camminava accanto. Lei pareva sempre intuire quegli innocenti peccatucci e per distoglierlo, iniziava a correre sfidandolo di raggiungerla, come due innamorati, fin dentro quell’attuale misera stanza, animandola di voci, che lontane e flebili, si avvicinavano felici e armoniose; di delicate immagini multicolori, e un soave profumo alternare volti, nomi, ed attimi, come in un sogno, e lui aggirarsi con allegria in mezzo a quella miriade di svolazzanti ectoplasmi, come un elfo che libra nello spirito d’un passato dalle bizzarre visioni.
Quel volto segnato dalla tribolata notte cosparsa d’incubi, a poco a poco, ritornò ad assumere sembianze più umane, come se in quegli attimi d’attesa, avesse abbandonato da qualche parte il suo miserabile destino, vivendo, libero, la vita di un altro, nella città che aveva, per un attimo, amato quando ebbe una relazione con una studentessa di Filosofia. Un fuoco di paglia che si accese, divampò e si spense in così breve tempo da non rimanere nemmeno l’odore che potesse testimoniarla.
Si nutrono sentimenti ambivalenti, nei confronti di una città come Firenze, contraddittori, si possono elencare molti dei suoi lati negativi, ma è difficile spiegare il perché la si desidera, la si ama. Quello che manca qui, non sono i musei, famosi in tutto il mondo, le chiese con affreschi agiografici, monumenti per ogni occasione, quartieri illustri dove insigni artisti di tutto il mondo vi hanno fatto sosta, il caffè “Le giubbe rosse”, le rappresentazioni culturali che parlano del suo glorioso passato, la grandezza della sua storia, che poi non sono altro che la base economica del suo futuro. Il centro storico che appare come un gioiello, visto con gli occhi di concupiscenti turisti, perché Firenze è come un museo che non chiude mai, e come ogni museo, tutto deve essere ordinato e trasparente, oppure a detta di Montesquieu: “… ho visto là quasi tutte le signore di Firenze, hanno un’enorme quantità di gioielli, perché a Firenze non manca tutto ciò che non si consuma con l’uso, come i gioielli, vasellame, quadri, statue…” Ecco: una madonna dal sentore patrizio, con gioielli e benessere che riescono a nascondere le rughe profonde di un noioso vivere se stessa.
… Improvvisamente esplose tutto, un boato di voci e comandi, rimbombarono nella stanza; il primo che varcò la soglia, dopo aver aperto violentemente la porta, calzava gli indumenti antiterrorismo: passamontagna, giubbotto antiproiettile ed armato di tutto punto, lo seguirono altre quattro figure, simili a quei soldatini di piombo dall’odore di vernice fresca, che suo zio Arduino gli regalava per il compleanno, con la speranza di invogliarlo ad intraprendere la carriera militare…
Non volle approfondirne i ricordi, allontanando, quasi con noia, quelle incongruenti congetture. Si allargarono a ventaglio, come in assetto di guerra. L’uomo che li aspettava, se ne rimase impassibile a osservare quel gioco dagli assurdi risvolti, con disinteresse. I militi ebbero un momento di smarrimento, avevano ipotizzato una violenta reazione dalla parte contraria, invece si trovarono di fronte un elegante individuo che con rassegnato tono spiegava loro che non era sua intenzione fare resistenza. Quando s’inizia un’azione di Polizia, la si porta a termine, costi quel che costi, s’insegna in ogni Accademia Militare, e così fecero, gettandolo violentemente faccia a terra. Mentre uno gli puntava contro l’arma, un altro gli ammanettava i polsi dietro la schiena, riconobbe il mal odore del mitra, da poco oleato, lo faceva sovente lo zio Cesare, dopo una partita di caccia, smontava pezzo per pezzo il fucile e… ma non ebbe più voglia, ne piacere di pensare, si sentì improvvisamente stanco, svuotato d’ogni emozione.
Lo alzarono come un oggetto senza peso, trasportandolo come un oggetto senza peso in direzione del suo miserabile destino.
La lettura di questo racconto riporta a quei sentieri battuti, con il percorso ben delineato, ma purtroppo funestati da rovi in mezzo ai quali doversi fare strada con fatica. L’indicazione tra parentesi “io gli ero vicino di branda” è fuorviante, a mio giudizio il racconto ha dettagli troppo intimi perché sia reso da un conoscente. Anche senza quella nota (che da la sensazione di essere una aggiunta postuma) regge benissimo. Si procede tra sconnessioni sintattiche, qualche stortura grammaticale e svolazzi di penna sopprimibili, ma la storia c’è, è originale e plausibile ed alcune immagini sono davvero belle: Occhi sbarrati, ossessionarlo, che si domandavano perplessi il perché così brutalmente, prima di rimanere immobili come quelli di un giocattolo dimenticato da qualche parte / L’uomo che li aspettava (…) impassibile (…) un elegante individuo che con rassegnato tono spiegava loro che non era sua intenzione fare resistenza. Il finale è più di quello che sembra: l’uomo che perde con sollievo il peso della propria coscienza nel momento stesso in cui viene catturato, ma l’uomo senza la coscienza diventa un oggetto, un oggetto senza peso, appunto. Complimenti e auguri. Donatella
Racconto scritto bene, molto preciso. Forse un po’ troppo “pedante” in alcuni passaggi, che io vedrei meglio più snelli.
Mi ha ricordato per alcune cose un famosissimo “Profumo”.
Sembra il racconto di un cieco, poiché il protagonista ha uno sviluppato senso olfattivo che predomina sugli altri suoi sensi e ricorda tutti i profumi che gli segnano la vita. Un animo sensibile, dunque. Strano allora che il giovanotto finisca per diventare un rapinatore. Anche se poi è attanagliato dal rimorso. L’idea dei profumi, come filo conduttore, riscatta comunque gli errori di forma e le numerose descrizioni, dense di cose e persone. Ogni tanto appare l’io narrativo, come fosse un testimone degli eventi, e non si capisce come.