Racconti nella Rete 2009 “Se mi guardassi ora” di Fulvia Giannunzio
Categoria: Premio Racconti nella Rete 2009Appoggio la fronte sul vetro.
E’ freddo.
Guardo fuori. Il cielo è tutto grigio.
Il cortile è sporco. Le piante sono bagnate di pioggia. Ogni cosa sembra coperta da una colata di petrolio.
Anche la giacca di Pietro è sporca di petrolio. Ma forse è la luce che la tinge così.
Pietro tiene le spalle curve e la testa piegata in avanti. Tra il cappotto e i capelli gli vedo il collo. Una striscia bianca, che mi fa impressione.
A guardarlo così mentre esce dal portone mi sembra un estraneo.
Una cosa. Sembra una cosa che si sposta nello spazio.
Una cosa che tiene per mano mio figlio.
E’ per salutare Davide che mi sono avvicinata alla finestra, ma lui non si volta. Tiene la mano di suo padre e indica un gatto che dorme.
Vorrei aprire i vetri e chiamarlo, ma ho freddo. Sollevo una mano, appoggio le dita sul vetro.
Resto a guardare finché non spariscono al di là della strada.
E’ allora che la vedo. Nel cortile color petrolio. Sta seduta su una panca. La schiena dritta, le braccia incrociate e strette sul petto. Ferma. Guarda davanti a sé.
Vederla mi turba. Sento nella pancia una stretta sottile.
Giro gli occhi, poi la testa. Mentre mi allontano dalla finestra mi sembra di vederla muoversi, ma forse è solo il vento che fa ondeggiare le piante.
Piego le magliette di Davide, le ripongo nell’armadio.
Pietro e Davide. Sono maschi, mi dico. Se ci penso mi sembra di amare mio figlio di meno. E’ come Pietro, non come me. Se penso a questo mi sento sola, e allora vorrei che non esistessero.
Quando escono senza di me e io resto in casa lo spazio si allarga. Il mio corpo si allarga, mi sembra di avere due mani e due piedi di troppo. Anche il silenzio si espande. E’ come quando una cantilena si interrompe. In quel silenzio c’è spazio per le urla che mi salgono da dentro.
Non voglio che salgano. Non voglio sentirle.
Scorro le dita sui libri della libreria. Sono quasi tutti di Pietro. Leggo i titoli uno di seguito all’altro finché non vedo più interruzioni tra dorso e dorso, tra parola e parola. Diventa un’unica parola densa, lunghissima, impronunciabile.
Vado in cucina, accendo il timer e mi siedo. Appoggio le braccia sul tavolo bianco, lo sguardo sui pensili bianchi e sul muro bianco. Resto ad ascoltare il ticchettio dell’orologio e ad aspettare lo squillo. Poi mi alzo, ricarico il timer e ricomincio ad aspettare.
Mi affaccio di nuovo alla finestra. Lei è ancora lì. Seduta nella stessa posizione, lo sguardo rivolto verso le stesso punto. Sembra che non si sia mossa neanche un momento.
Le pareti della camera di Davide sono color giallo chiaro, i mobili arancio. Ferma sulla porta, guardo la stanza e penso alla casa di marzapane. Alla vecchia strega che ingrassa i bambini per poi mangiarli.
Mio figlio è grasso. E’ un bambino grasso e felice. Va tutto bene, dice Pietro. Per lui va sempre tutto bene. Non c’è niente che non possa essere messo a posto. Ma se la strega vedrà quanto è grasso lo mangerà. Ci mangerà tutti. Che siamo grassi o no, se si accorgerà di noi ci mangerà tutti e non avremo scampo.
Tocco i mobili. Mi sembra di non sentire nulla, come se fossi diventata di plastica. Da quanto tempo sono così? Ricordo me stessa in un altro modo. Guardo la mia mano e non la riconosco. E’ bianca. Le vene in rilievo sembrano lividi. Giro i palmi verso l’alto. Sopra il tendine del polso le vene disegnano due Y posate una sopra l’altra. Esiste un cromosoma YY? Non ne sono sicura. Una volta sapevo queste cose.
Una volta sapevo queste cose e non altre, e la vita era solo una passeggiata lungo il mare.
Guardo ancora fuori dalla finestra. E’ sempre lì, non si è mossa. Una ciocca di capelli le è caduta su un occhio e non la scosta. Tiene i piedi uniti. Porta un paio di scarpe con i tacchi bassi, le calze chiare. Il cappotto abbottonato al collo è aperto dal seno in giù.
Comincia a piovere. Il cielo sembra d’alluminio. Le gocce si stampano sui lastroni del cortile e lei ancora non si muove.
Non sopporto di vederla immobile sotto la pioggia.
Grido, addossandomi al vetro.
Non sento la mia voce. Sono un pesce in un acquario.
Ma lei si accorge di me. I nostri sguardi si incrociano. Nei suoi occhi chiari c’è una macchia bianca, un riflesso di luce. Hanno acceso i lampioni.
Sono nella mia casa, lei è là fuori, seduta su una lastra di marmo.
Siamo uguali, penso.
Le faccio cenno di salire.
Lei si alza in piedi e rimane ferma, sotto il lampione.
Le si è aperto il cappotto. Vedo il gonfiore del suo vestito, l’orlo che si solleva più su delle sue ginocchia.
E’ incinta.
Penso che cosa mi direbbe Pietro. “C’è una donna seduta in cortile. La faccio venire a casa”.
“Va bene”, direbbe.
“E’ incinta”.
“Va bene”, risponderebbe lui.
Mi infilo la giacca. I capelli mi restano dentro, non riesco a tirarli su dal collo. Afferro le chiavi di casa ed esco.
Mi fermo sulle scale.
Se la faccio entrare, niente sarà più lo stesso. Io non potrò più essere la stessa.
Esito ancora davanti al portone, poi lo spingo e l’aria gelata mi investe.
Nel cortile lei non c’è più. Mi guardo intorno, giro su me stessa. Vado fuori, in strada. Sta piovendo, non c’è nessuno. Ferma sul marciapiedi, le lacrime mi scorrono sulle guance e mi scendono nel collo. I miei capelli sono fradici.
I palazzi sono enormi. Crescono davanti ai miei occhi. Si chiudono sopra la mia testa e non vedo più il cielo.
Un’unica colata di fango nero sommerge tutto.
Mi guardo i piedi. Il fango comincia a salire.
“Mamma!”
Non li ho visti arrivare. Davide lascia la mano di Pietro, fugge da sotto l’ombrello e corre a stringermi le ginocchia. Abbasso gli occhi sulla sua testa scura che mi arriva alle cosce e mi sembra di guardarlo da lontano. Quanto in alto posso salire e riconoscere ancora mio figlio? Lo riconoscerei dall’ultimo piano del palazzo? Da un grattacielo? Da un elicottero? C’è una linea di confine attraversata la quale so che non lo riconoscerei. Quello che non so è se arrivando a quel confine saprei poi tornare indietro.
“Sei fradicia”, mi dice Pietro mentre arriva a coprirmi con l’ombrello. “Vieni”.
Gli occhi mi fanno male per il pianto, sono gonfi, la bocca mi trema.
“Se ne è andata”, penso.
“Vieni, andiamo a casa”. Mi prende sotto braccio. Davide mi ha preso l’altra mano e la stringe. Forte. Non mi lascia. Mi tirano entrambi, verso casa. Sembrano due frecce, due indicazioni di percorso. Là c’è casa, dicono.
I miei piedi non si muovono.
Lei era venuta per portarmi via.
Le loro mani che mi stringono, saprei riconoscerle nel buio? Riuscirei a non confonderle tra mille?
Voi due vi riconoscete. Vi specchiate l’uno nell’altro. Essere simili vi basta.
Voi siete solo persone, Pietro.
Se ora mi guardassi negli occhi, Pietro, mi sapresti riconoscere?
“Andiamo, vieni”. Pietro mi afferra il polso, chiude le dita sulle mie doppie Y blu.
Mi guarda in viso. Sento il suo sguardo sugli angoli rossi e gonfi degli occhi. Anch’io alzo gli occhi verso di lui. La sua bocca che si schiude. Il ciuffo di barba che si solleva sul mento. Conosco gli spazi tra i suoi denti. Per un attimo i nostri sguardi si incrociano. Vedo in fondo ai suoi occhi una porta che si apre. Sento le mie pupille che si dilatano, sento che gli sto facendo un varco.
Distolgo lo sguardo.
Il freddo aumenta.
“Su, andiamo a casa”. Pietro muove un passo in avanti. Anche Davide si muove. Hanno spostato in avanti lo stesso piede.
Forse resterà uguale a Pietro ed anche per lui andrà sempre tutto bene.
Come Pietro, saprà ignorare i fantasmi che gli si affollano dietro le spalle.
Racconto molto intenso. Immagini meravigliose. Complimenti davvero all’autrice.
Magnifico racconto: ben scritto, inteso e seducente. Piacerà senz’altro al pubblico. Va diffuso e pubblicato e l’autrice dovrebbe essere valorizzata.
ciao! è un racconto che regala un piacevole coinvolgimento. sono felice di averlo letto! complimenti!
Non mi sono sbagliato, finalmente una scrittrice. Aspetto un tuo romanzo.