Premio Racconti per Corti 2012 “The sleepwalker” di Nikki Simonetti
Categoria: Premio Racconti per Corti 2012Abbigliata del capo più sobrio che possedeva – un tailleur Chanel con giacca lunga e gonna dritta, bianco con bordi blu che avrebbe regalato un’aura da missionaria a una squillo – i capelli biondo cenere (per il processo, era tornata al suo colore naturale, meno appariscente del rosso fiamma che portava di solito) raccolti sulla testa in un’elegante banana che la faceva tanto Audrey Hepburn con un gran paio di tette, Melissa gettò uno sguardo distratto al quotidiano.
‘Criminale fugge da manicomio’ – prima, seconda e terza pagina. Con un gesto seccato, si sbarazzò del Sun gettandolo di lato, poi prese a sfogliare velocemente le pagine del Bulletin.
‘Jesse Felicidad evade dal carcere’. Giunta al terzo quotidiano senza trovare alcun riferimento alla vicenda che la riguardava nelle prime pagine – la sentenza del processo che la vedeva imputata per omicidio sarebbe stata emessa quel giorno – perse le staffe.
Melissa Davidson non era nata bella.La sua era stata una conquista lenta e, per certi versi, dolorosa. Quando si era sposata, pensava che l’insignificante compagno d’università, i capelli precocemente diradati e la pancetta incipiente, fosse il massimo cui avrebbe mai potuto aspirare.
Del resto, era una racchia anche lei. Il giorno del matrimonio, quando aveva calcato il tappeto avorio bordato di rose, tutti le dicevano che era bellissima: invece, era consapevole di essere un cesso.Aveva un naso che definire importante era un eufemismo, un deretano grande quanto il Delaware e il seno piatto come una tavola da surf. Per fortuna, il suo marito senza attrattive aveva fatto i soldi – quelli veri, a palate, che ti fanno diventare l’invidia della nazione e apparire sulle riviste patinate – con la progettazione di un software innovativo. A quel punto, Melissa aveva intrapreso la propria crociata personale contro Madre Natura – per rendersi presentabile, sosteneva lei; per trasformarsi in una vacca rifatta, commentava Parker – sottoponendosi a innumerevoli interventi di chirurgia plastica.
Aveva iniziato con liposuzione a cosce, fianchi e didietro che le avevano fatto perdere istantaneamente e senza alcuna fatica – se non si contava il fatto che aveva dovuto sedersi su di una ciambella per mesi – i chili di troppo. Una volta che aveva trasformato il culone in un già apprezzabile culetto, aveva deciso di fare un lifting alle chiappe – perché il sederino le piaceva
alto, alla brasiliana. Era stata poi la volta del nasone ingombrante, cui il chirurgo aveva appianato la gobba, rimodellandolo con una vezzosa punta all’insù. Infine, si era concessa un bel paio di tette – una quarta abbondante: non aveva voluto esagerare.
Sicura di sé nel nuovo corpo da Miss, Melissa Davidson non sfigurava più sulle riviste cui appariva, appesa al braccio del marito, sfoggiando un sorriso smagliante – nuovo anche quello; le ‘faccine’ in ceramica erano il suo ultimo investimento. Gli amanti che si prendeva, quando aveva voglia di un buon orgasmo, erano accidentali; non avrebbe mai lasciato il suo ometto pelato che l’aveva fatta diventare una signora. Un brutto giorno, però, l’impensabile era accaduto.
Aveva scoperto che suo marito aveva un’amante. La troietta era una delle sue segretarie. Tipico. Quello che l’aveva davvero stupita era stato scoprire come Diandra fosse una cosetta meditabonda e insignificante, ancor più brutta di com’era lei, prima. Ricordava Olivia, quella di Braccio di ferro. Eppure, suo marito lo infilava in quel buco, aveva pensato. Da non credersi. Non che gliene importasse molto del tradimento: che quell’ometto insulso preferisse quella sgradevole donnetta quando poteva servirsi dal piatto dell’invidiata e ricercatissima Melissa Davidson, era quello che davvero le bruciava. Una sera calda e afosa dell’estate precedente, infine, aveva sentito i due scambiarsi tenerezze al telefono. Parker progettava di lasciarla e di fuggire a Londra con quella cosa inguardabile. Impossibile.
Inconcepibile, inimmaginabile che Melissa Davidson potesse essere lascata per uno sgorbio. Era stata assalita dall’insopportabile visione delle sue carte di credito rifiutate e poi fatte a pezzi dalle commesse dei negozi del centro. Anche se aveva agito due settimane dopo, aveva deciso di commettere il crimine in quel preciso istante. La notte del primo agosto, mentre suo marito dormiva, aveva fracassato sulla testa del bastardo uno dei suoi legni da golf.
Il sangue le repelleva, ma il suo piano prevedeva che l’omicidio apparisse il più efferato possibile. Quindi aveva colpito, colpito e colpito fino a che non le era mancato il fiato in gola e la testa di Parker si era ridotta a una poltiglia informe e sanguinolenta. La mattina dopo aveva confessato il crimine alla polizia con la voce rotta dai singhiozzi.
Era accaduto la mattina seguente alla telefonata in cui li aveva ascoltati progettare la fuga.
Aveva ricordato la trasmissione televisiva in cui si sosteneva che gli individui affetti da sonnambulismo non possano venire accusati per i crimini compiuti in preda a un attacco. Le ricerche che aveva compiuto in tal senso confortavano la sua tesi. A quel punto, non le era rimasto che costruire il suo alibi. Da piccola, le era accaduto più volte di risvegliarsi di soprassalto: era in salotto, in cucina, e non ricordava come vi fosse arrivata. Nelle due settimane intercorse tra la conversazione telefonica del marito con l’amante e l’assassinio si era recata per sei volte da un luminare dei disturbi del sonno, cui aveva raccontato di andare soggetta a violente crisi di sonnambulismo – omettendo deliberatamente il particolare che la sua ultima crisi risaliva all’età di quindici anni.
Infine, dopo avere sfogato la sua rabbia e la sua frustrazione sul cranio del marito, si era seduta ad aspettare che facesse mattino prima di chiamare la polizia. Gli agenti l’avevano trovata ricoperta di sangue da capo a piedi, il corpo di Parker stretto tra le braccia. Con la sua carta di credito preferita, poi – quella di un bel nero opaco, dal credito illimitato – aveva ingaggiato il penalista di grido in compagnia del quale, a dodici mesi esatti di distanza, si stava recando all’udienza finale del processo – quella che, come risultava chiaro dall’andamento del dibattimento, avrebbe sancito la sua innocenza per temporanea inabilità di intendere e di volere.
“Fottiti!” sbraitò, scaraventando i quotidiani sul sedile di fianco. “Fottetevi tutti!”
L’attraente avvocato cui aveva infine concesso di infilarsi, oltre che nelle sue vicende, anche nelle sue mutandine, rise di gusto, gettando all’indietro la testa carica di capelli – scelta precisa, la sua: non si sarebbe presa un uomo pelato, non di nuovo.
“Qual è il problema?” domandò Langford, gli occhi grigi accesi dal divertimento. Melissa sbatté le lunghe ciglia e alzò gli occhi al cielo. L’arrogante stronzetto sapeva benissimo quale fosse il problema: quando faceva così, lo odiava. Che ne sapeva, lui?… Lui che era nato bello e ricco, cui non importava un fico di apparire sui quotidiani – ma che, di fatto, ci stava tutti i giorni?…
Melissa sollevò il mento a punta. “Tutti parlano di questo Felicidad del cavolo: nessuno parla più di me”, bofonchiò, mettendo il broncio. Langford scoppiò in una sonora risata. “Jesse Felicidad è un pazzo sociopatico affetto da sdoppiamento della personalità che ha torturato e ucciso dodici donne”. Le depose una mano sulla coscia con fare confidenziale. “Tu, tesoro, per quanto ne so, hai ucciso solo tuo marito,” dileggiò, mentre con le dita si avventurava sotto la sua gonna, disegnandole ghirigori su per la coscia.
“Fanculo,” ribatté, allontanando la mano dell’uomo con un gesto brusco. “’Fanculo tu, e ’sto Felicidad del cavolo,” brontolò, accigliata.
“Per me, tu sei l’assassina più seducente del mondo.” Langford le cinse il collo con la mano destra, avvicinò la bocca alla sua mentre con la sinistra le abbassava le mutandine.
In tribunale, mentre si congratulava con lei depositandole un casto bacio sulla guancia, Melissa riconobbe l’aroma della propria intimità sulle labbra dell’uomo. In qualunque altro momento, la cosa l’avrebbe eccitata da morire, ma quella mattina servì solo a infastidirla. Non le importava di essere stata assolta. Del resto, non aveva mai lontanamente preso in considerazione la possibilità che potesse finire in maniera diversa.
“Andiamo a casa, tesoro.” Premuroso, Langford le appoggiò una mano dietro la schiena, guidandola verso l’uscita. Pur dopo non avere letto una sola riga che la riguardasse sui quotidiani del mattino, Melissa non era preparata allo squallore della scena che li attendeva. All’inizio del dibattimento, Langford era stato costretto ad assoldare dei corpulenti bodyguard per tenere a bada la folla di curiosi attraverso cui doveva farle strada. Quella mattina, fuori dal tribunale, ad attenderli un misero fotografo e l’inviato di una scalcinata tv locale. Melissa diede uno strattone, liberandosi dal tocco di Langford che la infastidiva sempre più. L’avvocato finse di non notare il suo gesto, e fece cenno all’autista della limousine di avvicinarsi, poi si piegò ad aprirle la portiera. “Si accomodi, mia signora. L’accompagno a casa a festeggiare”.
Melissa sospirò. Non era una stupida: sapeva che lo splendido uomo la degnava delle sue attenzioni solo perché gli pagava una parcella esorbitante, e che prima o dopo le avrebbe dato il benservito. Fingeva un interesse che non provava davvero: in realtà, non gliene importava affatto di lei, dei suoi pensieri e dei suoi malumori. Non sembrava neanche interessato a sapere se fosse davvero un’assassina- non le aveva mai domandato se avesse davvero ucciso Parker preda di un attacco di sonnambulismo. Melissa fu assalita da un acuto quanto imprevedibile fiotto di nostalgia per l’ometto pelato con la pancetta cui aveva sfondato il cranio.
Voltò quindi le spalle alla limousine e si apprestò ad attraversare la strada sbattendo il bel culetto brasiliano in faccia a Langford Forrester. “Sai una cosa, principe del foro dei miei stivali? Festeggia da solo!” gridò, sventolando in aria la mano in un gesto osceno, a chiarire il concetto nel caso le parole non fossero sufficienti mentre si allontanava, sculettando, sui tacchi vertiginosi.
Acciuffò al volo il primo taxi che passava. Era furiosa – furibonda, addirittura, al pensiero che l’opinione pubblica si fosse dimenticata di lei tanto in fretta. Tanto che non degnò il conducente di un’occhiata. “Quindicesima”, disse, sfilando i guanti, un dito per volta. “Angolo con la diciottesima”. Melissa sbuffò.
Quel gran figlio di buona donna di un avvocato, ma chi si credeva di essere?… Fu allora che il risolino convulso attirò la sua attenzione. Il conducente, il cui volto vedeva riflesso nello specchietto retrovisore, aveva un sorriso storto e una bocca sdentata la cui igiene lasciava parecchio a desiderare, capelli lunghi e grassi e un naso adunco la cui punta ricadeva all’uomo quasi in bocca. Come la strega di Biancaneve, un bitorzolo da cui spuntavano tre peli gli campeggianava in fronte. Soprattutto, erano gli occhi dello sconosciuto che impressionavano: immensi e acquosi – di un colore indefinibile tra il grigio mattone e il verde muschio, sgranati e arrossati; esaltati e assieme allucinati. Occhi da squilibrato, avrebbe detto.
Melissa si sentì assalire dall’inquietudine. Aveva visto quel volto prima di allora, ma non ricordava dove. Strizzò gli occhi, nel tentativo di ricordare. Chi diavolo sei?, si domandò.
“Benebenebenebene…” L’uomo si raschiò la gola con un suono disgustoso, poi espettorò uno sputo giallastro sul sedile del passeggero.
“Signore?…” Melissa ticchettò educatamente sul divisorio. “Signore, mi faccia scendere, per cortesia.”
“Benebenebenebenebenebenebenebenebene”. Il conducente scoppiò una seconda volta in quella risatina inquietante, dai toni altissimi. “Che ne dici, Adam?” domandò, rivolto verso la propria immagine riflessa nello specchietto.
“Cosadirelapollastraèbenfornita… Assai-assai-assai-assai-assai…”
L’uomo scosse la testa carica di capelli lerci. “Non pensarci nemmeno, Adam”, bisbigliò l’uomo sghignazzando, lo sguardo incollato alla propria immagine. “Sei appena uscito”.
“Con chi sta parlando? Signore?…” Melissa cominciava a sentirsi pericolosamente a disagio. Tentò di aprire la portiera; prima una, poi l’altra, ma non ci riuscì. Erano entrambe bloccate. A quel punto, fu assalita dalla paura.
Il conducente le indirizzò uno sguardo lascivo. “Sìinvece-sìinvece-sìinvece-sìsìsìsìsì-ssssssììììììì-checipenso!”
“No, Adam. Non si può”. Il conducente si leccò il palmo della mano. “Lo sai che non si può”. Poi riprese la sua tiritera sconclusionata con quella sua vocina acuta.
“Sipuò-sideve-sipuò-sideve-sipuò-sideve-sipuò-sideve-sipuò-sideve”.
Finalmente, Melissa ricordò dove avesse già visto quella faccia scombinata. Come aveva potuto dimenticarlo?… Quella mattina, troneggiava su tutte le prime pagine dei quotidiani: Jessus, detto Jesse Felicidad, il pazzo maniaco affetto da personalità multipla che aveva torturato e ucciso dodici donne.
Una mano gelida le strizzò le viscere, e Melissa urlò con tutto il fiato che aveva in gola; strinse le gambe, ma non riuscì a evitare di bagnarsi le mutandine. Preda della disperazione, prese a dibattersi e a battere convulsamente le mani sul vetro posteriore dell’auto, nel tentativo di attirare l’attenzione di qualcuno. Era la sua ultima speranza, pensò, mentre lacrime calde le bagnavano le guance, prima che il suo desiderio – quello che la sua immagine tappezzasse le pagine dei giornali – venisse esaudito nella maniera più orribile.
“Bruttavocelagallina-bruttavocelagallina-bruttavocelagallina” canticchiava il pazzo, la bocca senza denti incoerentemente incollata su un sorriso instupidito mentre procedeva a passo di lumaca, pazientemente, attraverso il traffico. Trecento metri più indietro, l’avvocato Langford Forrester, ancora impegnato a salutare la sua cliente, abbassò il braccio.Il sorriso gli morì sulle labbra, virando in un ghigno sdegnato.
Alla fine, la troia si era degnata di voltarsi. Al diavolo l’educazione. Col naso appiccicato al cristallo del lunotto posteriore del taxi lercio, Melissa si dava un gran daffare a inviargli baci e cenni di saluto.
Era ora che quella puttanella da quattro soldi gli dimostrasse la sua gratitudine: lo doveva solo a lui, se era ancora a piede libero.
Non che gliene importasse granché di quella donna; a dirla tutta, era certo che avesse inventato la storia del sonnambulismo per cavarsela. Avevano dormito insieme parecchie volte, e non aveva potuto fare a meno di notare che Melissa dormiva come un sasso, e russava come uno scaricatore di porto. Non si era svegliata, mai, neanche una volta.
Comunque, quelli non erano fatti che lo riguardassero; l’etica professionale gli imponeva di difendere tutti, omicidi compresi. Tra poco, non appena gli avesse saldato la parcella a sei cifre, avrebbe mandato quella donna al diavolo. E dire che, all’inizio, era davvero pazzo di lei: Melissa era una donna intelligente e bellissima. A letto, poi, era una belva assatanata. Tuttavia, col tempo, si era rivelata per quello che era: una donna maleducata, isterica, viziata ed egocentrica – anche più di lui. Non sopportava più le sue ossessioni, specie quella di apparire sulle riviste tipica delle galline rifatte, come quelli del suo ambiente definivano le morte di fame che avevano fatto fortuna.
Da dietro il parabrezza, Melissa continuava a sbracciarsi. Quella deficiente decerebrata doveva essersi davvero pentita di averlo abbandonato sul marciapiede come una puttana da quattro soldi.
“Cazzi tuoi, bimba” – disse. “Troppo tardi”.
Langford infilò le mani in tasca e si voltò, dando a Melissa Davidson le spalle per l’ultima volta.
FINE
Ehi sei brava/o Nikki Simonetti. I miei complimenti!
Vero! Brava. Anche questo tuo racconto mi piace.
Trama irrealistica e stile volgare. Brutta copia di un Harmony
Silvia, grazie di nuovo – come sai, la stima è reciproca.
Peppino, grazie per i complimenti – nel caso tu sia il Peppino Crea del ‘corto’, anche il tuo è molto godibile e ben scritto. A differenza del mio, è scritto a mò di sceneggiatura, ricco di particolari e ambientazioni: ben fatto!… In bocca … e quanto segue!!!
Per Bianca: non ho trovato un tuo racconto da commentare – colpa mia, magari (ho trovato una Laura Miliani, ma non credo sia tu).
Nel caso, segnalami dove ti trovo, così, magari, mi fornisci qualche elemento in più per giudicarti.
Ti dirò che ho riflettuto a lungo sull’opportunità di risponderti o meno, poi alla fine mi sono decisa.
Inizio col dire che accetto, e rispetto, persino, la tua opinione in quanto espressione della tua personale scala di gradimento.
La scrittura è una forma artistica, e proprio in quanto tale, soggetta a personale giudizio – in quanto tale, opinabile e assolutamente soggettivo.
Io stessa compro un bel numero di libri che poi lascio a metà, perché una volta iniziati, mi accorgo che non mi piacciono.
Con ciò, mai mi sognerei di fare della mia visione soggettiva un valore oggettivo – il che, invece, è proprio la sensazione che il tuo commento trasmette.
Allora mi costringi a risponderti un paio di cose: la prima, a proposito della presunta ‘irrrealisticità’ della trama.
Di episodi ed eventi che definiresti ‘irrealistici’, Bianca, è piena la cronaca – sempre per chi voglia vedere e sentire – per tacere della maggior parte di letteratura e filmografia.
La mia opinione – anch’essa personalissima, ci mancherebbe – è che il confine tra serio e faceto, tra realtà e immaginazione, tra fantasia e illusione, sia costituito da una linea sottilissima, impossibile da tracciare. Ancor più, come sostiene Michael O’Brien, che ‘la fiction sia spesso più verosimile di quanto non sia la realtà da cui essa trae ispirazione’.
Ti avrei lasciato passare tutto, compreso la ‘brutta copia di un Harmony’ – non fosse che, al di là del gusto personale del tutto soggettivo e opinabile di cui dicevo sopra, ritengo TUTTA la letteratura che presupponga il serio impegno di uno scrittore degna di nota e di rispetto, ivi incluso romanzi tipo Harmony (per la cronaca, lo sai che ‘Harmony’ vanta milioni di lettori nel mondo?…).
E’ l’accenno allo ‘stile volgare’ che mi ha davvero adombrato.
E’ chiaro che, a differenza degli altri lettori, tu non abbia colto il senso della storia.
Questo ‘corto’ tratteggia, nei limiti della lunghezza consentita, tre personaggi principali: tre mostri, a loro modo, ognuno diverso dall’altro.
Da una parte, lo psicopatico vero e proprio alla fine suscita addirittura un minimo di simpatia (quella del poveruomo, del resto, è una patologia mentale vera e propria).
Dall’altra, i due sui quali intendo davvero puntare il dito, l’avvocato e l’assassina arrivista, sono i mostri generati dalla società odierna – ‘mostri’ di superficialità e vanagloria, cinismo, arrivismo, arroganza e prepotenza, tanto ricchi di mezzi quanto poveri ‘dentro’. Nei loro confronti non intendevo suscitare nel lettore alcun senso di indulgenza.
Anzi.
Ti sembra che i personaggi che tratteggio siano davvero tanto ‘irrealistici’?…
E, qualora – non fosse mai – ti trovassi a scrivere di persone del genere, ti sei mai domandata quale gestualità gli forniresti, di quali verbalità li doteresti?…
Certo non ci si aspetterebbe che dei personaggi come loro pensino, si muovano e parlino come creature celestiali. Questo sì, che sarebbe irrealistico.
Ora, dalla sottoscritta, che proprio una sprovveduta non è (non per nulla, qualora la cosa ti fosse sfuggita, sono uno dei vincitori del concorso dello scorso anno), e di seminari teatrali e di scrittura sul metodo Stanislavskij ne ha seguiti in Italia e anche in America, lasciati dire questo: la lezione Stanislavskij (in breve, il realismo trasportato in tutte le forme dell’arte, che si tratti di recitazione, scrittura o quant’altro) è troppo lunga e complessa per essere riassunta in poche righe – tuttavia, ti voglio dare un prezioso suggerimento.
In letteratura, entrare nel personaggio è essenziale – ogni gesto, ogni sguardo, ogni frase, ogni silenzio devono portare con sé il vissuto del protagonista della narrazione.
Verità, non verosimiglianza.
Verità, non imitazione del vero.
In letteratura NON C’E’ RIPARO: CI SONO VETRI ROTTI OVUNQUE, FERITE DA ALLARGARE , STRADE ACCIDENTATE DA RIPERCORRERE, DA RIVIVERE CON AMORE, ALLE VOLTE. CON PIETA’, ALTRE. CON SDEGNO E VERGOGNA, ALTRE ANCORA.
Soprattutto, CON UMILTA’.
In Letteratura, la verità è un’esigenza, non una scelta.
In letteratura LA VERITA’ E’ VITA. L’estetica fine a se stessa è la morte.
In quest’ottica, capirai, credo, che non sarebbe stato verosimile – non sarebbe stato REALISTICO, come dici tu – descrivere una vicenda tale e personaggi del gemere in maniera edulcorata.
Se ciò renda il mio stile ‘volgare’, non so.
Di certo, ‘volgari’ – oltre che spietati e crudeli – sono i personaggi che intendevo raccontare – prodotto della società odierna, e molto meno ‘irrealistici, credi, di quanto tu pensi.
In questo senso, nel senso della tua lettura della rappresentazione che ho dato della vicenda, alla fine, può essere che quella che tu intendevi un’offesa mi arrivi in realtà come un complimento.
Grazie, quindi.
E molti auguri per il tuo futuro di autore – qualora tu lo sia, o intenda diventarlo.
Nikki
PS: La letteratura è, prima di ogni altra cosa, dedizione.
Studio, ricerca, esperienza, introspezione, curiosità.
Se uno scritto non tocca il lettore, non ne infiamma le passioni, non ne fulmina la coscienza, non ne riempie la pancia, non lo sporca con la terra bagnata da un acquazzone, se non lo trasporta FISICAMENTE dentro il narrato, allora non è letteratura.
A presto.
Trovo questo racconto intrigante e alla fine divertente. Concordo con Nikki sulla necessità di utilizzare un linguaggio diretto per rendere lo squallore dei personaggi e del contesto, certamente volgari. Concedetemi infine di apprezzare il fatto che con un’unica risposta si sia rivolta a tre persone contemporaneamente, senza approfittare per aumentare il numero dei commenti, come purtroppo ho visto fare in altri casi. E si sa che più i commenti risultano numerosi, più i racconti vengono letti…
Donatella,
ti ringrazio per l’apprezzamento.
Mi fa oltremodo piacere che qualcuno condivida la mia visione di caratterizzazione di storia e personaggi – di conseguenza, dello stile (un narratore eclettico, dovrebbe asservirsi alla vicenda, e non viceversa).
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La preziosa lezione del realismo ci insegna che la scrittura, per un narratore, sia semplicemente un mezzo: bellissimo e potente, ricco di possibilità e sperimentazioni, capace di dare come nessun altro intensità ad una storia, ma pur sempre UN MEZZO.
La scrittura, così come lo scrittore, deve sapersi fare da parte, farsi dimenticare in modo da far concentrare il lettore sulla storia, per riuscire a trasportarlo DENTRO l’atmosfera della storia e dentro l’essenza dei personaggi. Nel caso questi abbiano un’anima sporca – volgare; squallida, come giustamente fai notare tu – non credo che un narratore potrebbe dare loro vita con la narrazione a prescindere dallo squallore che li contraddistingue.
Per finire: dico il vero, non mi sono mai soffermata, prima d’ora, sulla considerazione che la moltiplicazione dei commenti aumenti il numero di letture – di fatto incrementando le possibilità dell’autore dii ricevere ulteriori commenti.
La tua frase mi ha strappato un gran sorriso – soprattutto, perché credo – temo – che risponda a verità. 🙂
Per quanto mi riguarda, continuerò in questo modo: che le letture che mi riguardano – e i relativi commenti – siano dieci, cento, o mille, alla fine non è importante.
Piuttosto, l’auspicio è che le vicende che narro lascino una traccia – che, fosse anche per un solo istante, siano capaci di trascinare il lettore DENTRO la storia, comunicandogli qualcosa (il messaggio di questo ‘corto’ sia chiaro… o no?…).
In questo senso, arrivassi anche ad un – uno solo – lettore, avrei raggiunto lo scopo che mi sono prefissa.
A tale proposito, comunque, a tutti gli autori che partecipano al concorso mi sento di poter garantire che il numero di letture – e di commenti – ottenute non garantisce (né aumenta, credo, in alcuna maniera) la vittoria.
Non credo proprio che la giuria – altamente qualificata – tenga conto di certe piccolezze.
Parlo per esperienza personale: il mio racconto dello scorso anno non ha ricevuto un numero elevato di letture e commenti.
Tuttavia, è risultato uno dei prescelti. Al contrario, ve sono stati altri – molti – pluri-letti e pluri-commentati che non sono stati selezionati.
Ciò per ribadire quanto sopra ancora una volta: ragazzi, non occorrono mezzucci.
E’ la storia che rimane, e la scrittura rimane solo se ha saputo servire la storia.
Buona scrittura a tutti,
Nikki
PS: Approfitto per informare – poiché sembra che il mio nome crei dei dubbi a riguardo – che sono una femminuccia, e non un ometto.
Mi trovi concorde in tutto.
Già che ci sono però approfitto per azzardare un’altra considerazione fatta a proposito dell’irrealisticità della trama di questo racconto. In realtà se si inverte la prospettiva di lettura e si assume il finale come fulcro della vicenda si conviene che una qualsiasi donna potrebbe essere salita su quel taxi. Immaginiamo che trattandosi di uno psicopatico seriale, come spesso avviene in questi casi, Melissa abbia corrisposto dal punto di vista estetico con un qualche standard e per ciò sia stata preferita tra altre vittime. A questo punto il precedente vissuto di lei potrebbe essere una qualunque storia, comunque ammissibile. Averla resa però cinica, arrivista, volgare e vederla finire da manipolatrice a manipolata genera nel lettore un’inammissibile soddisfazione. Non avrebbe fatto lo stesso effetto con la casalinga frustrata, o sbaglio?
Il tuo racconto, Nikki, mi ricorda in molti punti tanti film di Dario Argento, il mio regista ex preferito, in particolare Giallo. Uno può dire: Argento è diventato incoerente. Sì, sono d’accordo. E ribatto: la vita è fatta solo di coerenza? Non credo. In più, la paura è spesso irrazionale e non sempre coerente.
I tre “protagonisti” sono tutti e tre lerci e marci? E allora? Mica tutti al mondo sono dei John Doe (Mario Rossi) qualunque senza pelo sullo stomaco e le rotelle a posto.
Forse questo non è un film che vedrei (col tempo sono diventato più mammoletta), forse è troppo adulto per i giovanissimi, però i personaggi sono ben delineati e definiti, a mio parere.
Se proprio devo fare l’avvocato del diavolo riguardo al testo indico due indizi:
1) il nome di Jesse, Jessus, mi pare più un refuso. Intendevi Jesus, come il mitico regista Jesus Franco?
2) due incisi nell’incipit mi sembrano pesanti da leggere anche se necessari a delineare il personaggio.
Detto ciò, Nikki, chapeau.
P.S: è pur vero che non si tratta di un racconto ma della sceneggiatura di un corto. Alla luce di ciò il mio secondo appunto dovrebbe svanire automagicamente.
Donatella,
hai colto il punto.
Qualora lo psicopatico avesse rinchiuso nel suo taxi una ‘casalinga disperata’, per dirne una, in luogo di quel mostro di superficialità e cinismo di Melissa, la protagonista del mio ‘corto’, certo l’impatto emotivo del finale non sarebbe stato lo stesso.
In primis, sarebbe venuto a mancare quel senso di grottesco che intendevo trasmettere; come giustamente rilevi, un finale diverso non avrebbe scatenato nel lettore quell’impeto di simpatia, quasi, nei confronti del pazzo maniaco che rapisce la donnaccia e gli fa dire… la volevi, la notorietà?… Adesso l’avrai!… (con una certa perversa soddisfazione, ammetto).
Credo sia chiaro come quello che mi ha più intrigato, nel buttar giù questa trama, è l’incrocio – improbabile, sono d’accordo, tuttavia non impossibile: chi può dire il contrario?… – delle esistenze dei tre mostri.
Al di là della presunta ‘irrealisticità’ della trama (per l’ennesima volta: solo a leggere le cronache se ne trovano a bizzeffe, di notizie a prima vista assai ‘irrealistiche’!…), tema a proposito del quale preferirei non dilungarmi oltre, sarei piuttosto curiosa di conoscere l’opinione dei lettori su quale riteniate il peggiore di tutti i mostri: lo psicopatico seriale che, come detto nel brano, tortura e uccide dodici donne (più, presumibilmente, la ‘povera’ Melissa), il cinico avvocato che difende la donna e si infila nel suo letto pur sospettando che sia un’assassina, oppure Melissa, che una volta raggiunta la bellezza in virtù di una serie infinita di interventi estetici, per non perdere lo status sociale faticosamente raggiunto è disposta a uccidere?…
Grazie ancora per l’attenzione,
a presto.
Nikki
Gianluca,
moltissime grazie per i tuoi commenti.
D’accordo con te: a parere di molti (non la sottoscritta, chiaramente) Dario Argento – fantastico regista, le cui trame trovo magistrali, seppure un filo troppo ‘splatter’, per i miei gusti – sarebbe uno che fa del paradosso la propria realtà. Ebbene?…
Non che sia l’unico, del resto.
Potrei fare decine, centinaia, addirittura, di nomi: ne menzionerò pochissimi – un paio di esempi di cinematografia: pensate ai pluripremiati soggetti dei fratelli Cohen, a torto o ragione considerati i geni di Hollywood; a Quentin Tarantino – la sua fantastica trilogia ‘Kill Bill’, ma anche ‘Pulp Fiction’.
Qualcuno, a voler mettere dei paletti (ma perché farlo?…) tra realtà e paradosso, troverebbe i loro lavori ‘irrealistici’.
Bene.
Cosa dire della letteratura e della filmografia cosiddetta ‘d’azione’, allora?…
Salgari e Sandokan?… Jules Verne e le sue ‘Ventimila leghe sotto i mari?…
Dan Brown, il suo ‘Codice Da Vinci’ e la letteratura del genere?…
Tematiche irrealistiche?… Probabile.
Impossibili?… Chi può dirlo?
Volendo allargare il concetto potremmo disquisire di Dante Alighieri e della Divina Commedia: qualcuno avrebbe mai il coraggio di sostenere che il fantastico affresco lasciatoci da Dante della società del suo tempo non abbia valore in quanto è ‘irrealistico’ il presupposto che l’autore sia effettivamente sceso all’Inferno, o salito in Paradiso?… Spero di no.
Talvolta, è vero, talvolta prendo lo spunto per le mie trame da accadimenti al limite del grottesco – anche se di fatti ‘improbabili’ ma non impossibili è piena la cronaca (e a chi sostiene il contrario, suggerisco di leggere, leggere e ancora leggere – di tutto, dalle riviste alla cronaca alle recensioni alle biografie).
Tuttavia, il mio non è un esercizio fine a se stesso: il sarcasmo e l’ironia – il grottesco, talvolta – mi aiutano a far esplodere i contrasti e i conflitti interiori dei personaggi (che si reciti Pirandello o si stia costruendo un personaggio letterario come Don Chisciotte – realistico anch’esso, vi pare?… ).:-)
In ogni caso è necessario scavare – scavare con coraggio dentro se stessi, senza pietà, sino a tirare fuori quella luce nera capace di aprire aperture insperate, quella che utilizza il dolore, tutto ciò che di brutto c’è in noi – per riconoscere la propria pochezza, la propria precarietà – per arricchirci, per far emergere il poveruomo che sta in tutti noi.
Scusa per la digressione.
Tornando al tu commento, ti ringrazio molto per la critica – avercene, di costruttive, di questi tempi!!…
Ammetto che ‘Jesse’ non fosse ‘Jesse’ in principio, ma – c’hai preso anche in questo caso – JESUS con la singola, non Jessus, con la doppia.
Tuttavia, non si tratta di un refuso: che tu ci creda o no, ho cambiato il nome dello psicopatico da Jesus in Jesse dopo che una mia amica, dopo aver letto il brano, mi ha detto di avere letto il nome ‘Jesus’ con un certo fastidio, facendomi notare che quel fatto avrebbe potuto urtare la suscettibilità di qualcuno.
Premetto che sul principio non avevo prestato assolutamente caso alla cosa: semplicemente, scrivendo, mi era venuto giù quel nome, così, di getto (che tra l’altro è piuttosto comune negli States, che ho frequentato parecchio). Tuttavia, mi sono resa conto che la mia amica aveva ragione.
Avrei potuto cambiarlo, dirai tu: è vero, avrei potuto dare al personaggio il nome Mario, Juan, o qualunque altro.
Invece ho preferito lasciare il nome che mi era venuto all’inizio aggiungendo una ‘s’, e abbreviandolo in Jesse.
Mi sembrava che così potesse andare, e che ‘Jesse’ non avrebbe urtato la suscettibilità di nessuno.
Non so davvero perché, mi è venuto così.
Comunque hai ragione, potevo fare di meglio. Magari lo correggo – anche se temo che in redazione mi manderebbero a quel paese se chiamassi per cambiare un nome.
Vabbe’, vedremo.
Per quanto riguarda la seconda critica, hai ragione anche in questo caso.
Sarò sincera: ciò accade perché ‘The Sleepwalker’ nasce come racconto – ne esiste una versione più lunga – il cui incipit è:
‘Melissa non era nata bella. La sua era stata una conquista lenta, e per certi versi dolorosa’.
Trovandomi a dover accorciare la lunghezza del racconto mentre ne stravolgevo la costruzione per renderlo più verosimilmente una quasi-sceneggiatura, mi sono ritrovata, dici bene, con due incipit – il primo, che descrive il percorso in macchina di Melissa e dell’avvocato verso il tribunale (di fatto, introducendo i personaggi nel contesto del tempo reale); il secondo (che nella versione lunga è invece il primo) che introduce la digressione nel vissuto di Melissa.
Hai ragione: anche in questo caso avrei forse potuto fare di meglio.
Ammetto di non essere poi tanto esperta di sceneggiature: solitamente scrivo romanzi e racconti.
Farò tesoro del tuo suggerimento per la prossima.
Ti ringrazio comunque davvero molto per l’attenzione e per la tua disponibilità.
A presto,
Nikki
PS: Anche tu hai postato un brano per il concorso?… Se sì, quale?…
Una considerazione di stile: di fronte a una critica, legittima come tutte le critiche, di trama non realistica non puoi rispondere stizzita che qualora non ce ne fossimo accorti non sei una sprovveduta perche’ hai vinto Racconti nella rete l’anno scorso. Chi decide di sottoporre il proprio lavoro al giudizio del pubblico deve non solo gioire per i consensi ma anche accettare le critiche con una certa tranquillita’ altrimenti si deve fare un altro mestiere.
Detto questo, i caratteri sono delineati con una certa maestria e la trama e’ accattivante. In realta’ questo non e’ un corto, sia per la lunghezza che per la complessita’ degli intrecci, ma il soggetto di un vero e proprio lungometraggio. Secondo me dovresti scriverci sopra una sceneggiatura in piena regola perche’ penso possa venirne fuori qualcosa di realmente eccellente.
Lo psicopatico lo giustifico, gli altri no.
Ho letto il tuo racconto per curiosità, visto che, recentemente, è il più gettonato e i commenti sono quelli di maggior appeal. L’ho immaginato sullo schermo e l’ho trovato ben strutturato, diretto. I personaggi, a parer mio, sono molto realistici perchè siamo circondati da questi folli. Maniaci, psicopatici, killers riempiono le cronache quotidiane e ahimè! spesso sulla loro strada capitano degli innocenti. Tu sei stata brava a farli “incontrare e scontrare” tra loro senza coinvolgere gente “normale”. In qualche passaggio mi ha ricordato un pò Faletti. Complimenti Nikki, non è facile trasportare in immagini quello che intendi esprimere, tu l’hai fatto benissimo da vera professionista.
Ti auguro di bissare il successo dello scorso anno
Rita Gallo
Jacopo,
grazie per l’attenzione.
Credi, era mia intenzione rispondere al commento cui ti riferisci ‘con stile ed eleganza’ – il contrario, a dire il vero, della stizza.
Mi sono morsa le labbra una, due, tre, cento volte prima di cimentarmi in una qualche reazione: sarà che mi misuro col mio metro… io non commento mai brani che non mi piacciono – per educazione, se una cosa non mi piace, preferisco glissare e passare oltre. Sbaglio?… Può darsi.
Fatto sta che quando lascio un commento, ln genere è sempre in positivo.
Spesso, mi lancio in suggerimenti e consigli (a volte non richiesti, ma che ritengo comunque utili al destinatario).
In quest’ottica, credi, quel commento mi ha davvero spiazzato. Non scrivo da un giorno, e una cosa così, dico davvero, non mi era mai capitata prima.
Non che sia una scusante. Hai ben ragione: sottoponendo i propri lavori al pubblico, è ovvio che un narratore si esponga, per così dire, al pubblico ludibrio.
Altrettanto ovvio che si debba essere pronti ad accettarne le conseguenze.
Non si può piacere a tutti, di questo sono conscia. Tuttavia, vedi, credo anche che vi sia modo e modo di esprimere le proprie opinioni e anche modi appropriati di criticare.
Pur avendo risposto alla signora che ‘accetto, e rispetto, persino, la sua opinione in quanto espressione della sua personale scala di gradimento’, può anche essere che io mi sbagli, ma la critica di cui sopra mi è arrivata come la determinazione di un valore personale per niente soggettivo, ma assoluto, in cui non ho colto alcunché di costruttivo – specie laddove mi si taccia di essere una ‘brutta copia’, oltretutto ‘volgare’.
Può anche essere, quindi, che trasportata dalla foga, alla fine non mi sia forse riuscito mantenere quel sano distacco che mi ero prefissata.
Di una sola cosa mi spiaccio, adesso: mentre sostenevo di non essere una sprovveduta, credi, non intendevo (mai inteso farlo: non sarei io…) far pesare la mia vittoria dello scorso anno. In realtà, mi riferivo alla tecnica del realismo applicato alla narrativa del metodo Stanislavskij, che conosco piuttosto bene per avere studiato il metodo a lungo e per essere un’appassionata.
In un certo qual modo, intendevo far arrivare alla signora che mi criticava di volgarità le motivazioni che mi portano a scrivere in un certo qual modo, quando scrivo di taluni personaggi.
Solo in quest’ottica, credi, intendevo riferirmi allo scorso anno (senza dirlo, lo ammetto, anche per suscitare un po’ di curiosità nella signora: per spingerla, magari, a leggere il mio scritto dello scorso anno, che si collocava su di una falsariga diametralmente opposta a questo).
Con tutto ciò, faccio pubblica ammenda: seppure con le attenuanti del caso, mi confesso colpevole e confido nella clemenza della corte.
Sul serio: perdonatemi se avete trovato irriguardoso il riferimento alla vittoria dello scorso anno – credi, essere indelicata non era assolutamente nelle mie intenzioni.
Anzi, contavo di essere stata brava… alla fine l’ho persino ringraziata, la signora in questione.
E invece… vedi com’è curiosa, la vita?…
Per difendermi da un’accusa di volgarità, mi ritrovo a cadere… proprio sullo stile, cui tengo tanto.
Vabbe’, che ci vuoi fare… farò meglio alla prossima (spero, promitto, iuro 🙂
Per quanto riguarda la seconda parte del tuo commento ti ringrazio molto per l’apprezzamento e la stima che mi dimostri.
In realtà hai ragione, il ‘corto’ è più lungo del dovuto – pur rientrando in un ottica ‘corta’, per quanto riguarda il mio modo di scrivere.
Fare una sceneggiatura di ‘The SleepWalker’ sarebbe un’idea: solo che temo di non esserne proprio in grado.
Solitamente mi cimento in romanzi e racconti, ma chissà… magari potrei provare, un giorno,,, chissà.
A presto,
Nikki
Donatella,
🙂
assolutamente d’accordo.
Non sono mai stato negli States (pur avendo lì degli amici) ma so che Jesus è un nome molto diffuso, così come molti nomi spagnoli/messicani. Prima di scrivere la “critica” ho “gugolato” Jessus e non ne ho trovato traccia, per questo ho pensato a un refuso. Certo, l’accostamento di Gesù a uno psicopatico potrebbe far storcere il naso, ma che ne sapevano i genitori di aver dato alla luce un sadico assassino, anche se non per sua volontà? E poi quel nome mi ha fatto venire in mente una vecchia recensione in video di Enrico Ghezzi a proposito del regista iberico e faceva notare lo stridore dell’accostamento del nome Jesus, Gesù appunto, e cognome, Franco, uguale al caudillo Francisco, noto ai più per non essere stato un benefattore dell’umanità.
Sarei curioso di leggere La sonnambula nella versione originale: sono convinto che è molto bella. Anni fa lessi un manuale sulla scrittura di sceneggiature e non ricordo un accidente di niente. Ma ricordo i testi teatrali in cui ho recitato da amatore e non hanno certamente la forma del tuo testo, decisamente simile a un racconto, e sicuramente da lungometraggio come fa notare Jacopo.
Per rispondere alla tua domanda, pur essendo io una specie di giornalista tecnico/scientifico, ho avuto la faccia tosta di presentare un mio racconto al quale penso da anni e che ho scritto solo a fine maggio. Si intitola Passiflora. Mi farà piacere avere un tuo commento, visto che hai citato capisaldi del cinema e della letteratura solo a ragion veduta. Magari riconosci tutte le fonti tangenti alla vicenda narrata.
Infine, permettimi un’ultima “sparata”: una critica, perché sia tale, dev’essere sempre accompagnata dalle ragioni. Una cosa del tipo “mi piace/non mi piace” non è una critica, è un giudizio. Entrambi possono essere condivisi o no, ma solo la critica ci fa riflettere, migliorare o eventualmente controbattere.
Rita,
grazie per avermi letta – e … Faletti?…
Ossignur, mo’ me cado dalla sedia!…
Scherzi a parte, mi tocchi un mito – credo Faletti sia uno degli scrittori Italiani più dotati degli ultimi anni (parlando del genere, ovviamente).
Sono assolutamente con te: personaggi come quelli che descrivo esistono, e come: ci circondano; ci vivono accanto, magari.
Sono il vicino che ti guarda di traverso quando gli calpesti l’aiuola, il benzinaio che non ti toglie gli occhi dallo scollo quando ti fa il pieno, il maestro di scuola di tua figlia che ti chiude in classe quando vai al colloquio, il medico che ti lascia le mani sul seno un po’ troppo a lungo quando ti visita.
La cronaca – l’avevo già detto io, lo ripeti giustamente anche tu – ne è piena.
Poi ci sono gli altri mostri: quelli creati dal consumismo e dalla società moderna – mostri di arrivismo, di cinismo, di superficialità.
Anche di questi è piena la cronaca.
Trovavo intrigante l’idea di farli incontrare – come sostieni tu, un ‘incontro-scontro’ in cui non vi fossero né vincitori, né vinti.
Tu sei una di quelle cui il senso del mio messaggio è arrivato forte e chiaro: me ne compiaccio – come dicevo sopra, Stanislavskij docet, ‘è la storia che rimane; la scrittura serve SOLO se, e quando, ha saputo servire la storia’.
Un abbraccio,
Nikki
PS: Non credo proprio che ‘bisserò’: difficile. Di più, difficilissimo. Tuttavia, grazie per gli auguri.
PS-2: Se hai tempo, leggi anche gli altri con cui partecipo nella sezione Racconti: TRUE LIES (genere completamente diverso, direi quasi comico) e THE FAKE – DUE PASSI NEL DELIRIO (genere simile a ‘The SleepWalker’). Mi farebbe piacere conoscere una tua opinione. A presto.
Porc… ho “lisciato un congiuntivo. La versione corretta della frase è: “Sarei curioso di leggere La sonnambula nella versione originale: sono convinto che sia molto bella.”
Perdonate anche me già che ci siete.
Nikki, ho visto che è ritornata in discorso la volgarità dello stile. Neanche a me piace criticare in negativo tuttavia a questo punto mi permetto di spendere due parole anche su questo aspetto. Credo che Bianca, scrivendo che lo stile del racconto è volgare, abbia generalizzato per brevità e immagino si riferisca al “culone”, al “culetto”, alle “tette”, al “buco”. Ci ho pensato su e mi sono sforzata di fare un confronto con le “Melisse” che ho conosciuto io per esperienza personale: nessuna di queste “parvenues” si sognerebbe mai di parlare di “culone” o di “tette” e assistendo ad una conversazione con questi toni assumerebbe un’espressione di scandalizzata meraviglia. Perché? Perché nulla le deve ricollegare al loro status precedente, a quella condizione che considerano di imbarazzante inferiorità davanti all’umanità intera e per impedire che ciò avvenga sono disposte anche a rinnegare la madre o, ed è avvenuto, lo giuro, il padre e a vivere una vita di bugie raccontate con sfrontatezza, al limite dell’insolenza, ma sempre, si badi bene, in tailleur e tacchi a spillo. Si tratta di un genere di persone che sa bene che per mantenere la facciata occorre restare in un contesto adatto, in un habitat di connivenza indispensabile a tutti per tenere su l’impalcatura generale di questi che non considero luoghi di vita vera bensì teatrini di posa. In questi contesti ho udito sbagliare congiuntivi o parlare solo di trucco e borse all’ultima moda o emettere gridolini di giubilo per la scatoletta griffata di mentine, ma mai pronunciata una volgare parolaccia. Allora forse, in quanto non attribuibili a Melissa, questi termini danno la sensazione non di essere eccessivi quanto superflui. Questo è l’effetto che hanno fatto a me pur non inficiando a mio giudizio la resa generale del testo.
p.s.: ammazza ‘sto racconto quanto sta facendo chiacchierare… a questo punto, un salutone!
Gianluca,
hai ragione – Jesus è pur sempre un nome molto comune, peraltro, negli Stati Uniti e nell’America del Sud che i genitori mettono ai figli senza avere modo di prevedere se nel futuro la propria progenie farà onore a un nome tanto importante o meno.
In quest’ottica, avrei anche potuto lasciarlo, come dici tu.
Tuttavia, mi sono domandata che cosa mi sarebbe costato cambiarlo, visto che avrebbe potuto urtare la suscettibilità di qualcuno.
La risposta è stata: non un granché.
Un nome è un nome: dice qualcosa di te, lascia intravvedere un barlume della persona che sei, dell’ambiente in cui sei cresciuto.
In quest’ottica, ‘Jesus’ diceva forse qualcosa in più che Juan o Mario, per dire – alla fine, però, del ‘non detto’, in questo caso, si può fare anche a meno.
Specie perché, a differenza degli altri termini utilizzati nella stesura del brano, quello del nome dello psicopatico non è riferimento affatto voluto – specie, non nel modo che qualcuno potrebbe intendere.
Bravo tu a notare comunque il particolare, anche dopo i miei – ovviamente insufficienti . tentativi di ‘mimetizzazione’.
‘The Sleepwalker’ in versione lunga è in realtà molto simile all’originale: non ti perdi granché.
La storia si colora di qualche dettaglio e qualche particolare in più, qua e là.
Tuttavia, supponi bene, si tratta di un racconto, non di una sceneggiatura.
Anch’io, come te, ho letto parecchio di sceneggiature ma non mi sono mai buttata a scriverne una… magari un giorno, chissà che non mi cimenti.
Uhm… PASSIFLORA… uguale Belladonna.
Fiore dall’aspetto bellissimo, e dalla fragranza ipnotica.
Letale.
Già il titolo mi piace.
Mi fa venire in mente un donna tanto affascinante quanto pericolosa.
Me lo vado a leggere e ti commenterò di sicuro (solo un po’ di pazienza: non ho ancora capito come selezionare i racconti dal nome dell’autore o dal titolo – sempre che ciò sia possibile – quindi, quando cerco un racconto in particolare, mi devo sfogliare l’elenco per intero … Arrrrrggggghhhh!!!!).
Venendo alla tua ultima ‘sparata’, mi trovi in piena sintonia.
Chiunque può esprimere un giudizio – libero, liberissimo.
Tute le opinioni, per l’amor del cielo, sono assolutamente degne di rispetto.
Si può dire ‘non mi piace’.
Benissimo.
Come detto, sono assolutamente consapevole che non sia possibile piacere a tutti (anche a me tanti autori magari celebratissimi non piacciono).
Tuttavia, quando qualcuno ti dice che sei una ‘copia’ di qualcosa (Harmony, poi?!?????… Ma via… Harmony è una collana di romanzi rosa e avventura epico/sentimentale – apprezzabilissimi, per quelli che li leggono, qualcosa come milioni di persone – tuttavia, niente di più lontano e diverso dall’atmosfera del mio ‘corto’, non ti sembra?…), oltretutto una ‘brutta’, poi non spiega il motivo delle proprie affermazioni, allora, per me, quella non è una critica ma un attacco gratuito.
Dimmi che trovi la mia trama irrealistica: allora ti rispondo che, a dirla PROPRIO, ma PROPRIO PROPRIO tutta, lo spunto lo traggo da una vicenda realmente accaduta negli States. Non ho risposto in maniera tanto brusca, me ne darai atto, rispondendo invece che spesso – lo credo veramente – la realtà superi di gran lunga la fantasia.
Dimmi che trovi il racconto ‘volgare’ – bene, ti risponderò, cosa che ho del resto fatto, che il realismo letterario insegna che la scrittura serva la storia, e non viceversa, e che lo stile è tale in quanto deve ‘far venir fuori’ i personaggi in tutta la loro pochezza.
Come caratterizzi un personaggio, se non facendo uso del mezzo che hai, cioè la scrittura?…
In breve: avrei preferito – molto di più – sentirmi criticare da un punto di vista tecnico, con delle motivazioni: dimmi che non ti piace il mio modo di scrivere – che il brano è più un mini-racconto che una sceneggiatura; che non ti piace come ho costruito il pezzo, che trovi deficitaria la descrizioni e dei personaggi; che ti fa schifo (tecnicamente parando) l’uso che faccio dell’inciso in luogo della virgola, del corsivo a enfatizzare il pensato diretto, ma talvolta anche quello indiretto – un ‘errore’ che i miei insegnanti di scrittura (perché lo ammetto, io ho studiato – e anche un bel po) hanno definito ‘licenza’ che mi caratterizza e mi contraddistingue, ma che può comunque non piacere.
Bene: mi avrebbe fatto piacere ricevere critiche da ‘critico’, per intenderci.
Quelle le avrei accettate e metabolizzate con piacere.
Quelle buttate lì a mero scopo distruttivo senza argomentazione a sostegno delle proprie tesi – quelle sì, che sono ‘sparate’, non le tue… – be’… ammetto che quelle abbiano invece ottenuto il risultato di farmi adombrare.
Colpa mia.
A presto,
Nikki
PS: Giusto per verificare che il mio stile non è sempre così ‘volgare’ e che quello che sostengo a proposito dell’ecletticità dello stile e della scrittura al servizio della storia, se hai dieci minuti magari leggi gli altri due con cui concorro quest’anno alla sezione racconti (TRUE LIES, Sbatti il Mostro in prima pagina, genere comico; THE FAKE – Due Passi nel delirio, genere ‘noir’), e magari ‘Then Came the Day – E arriva il giorno’, il racconto dello scorso anno.
Mi farebbe piacere conoscere la tua opinione da ‘tecnico’.
.
Gianluca,
dimenticavo: non mi preoccuperei per il congiuntivo – OOpppsss!!!
Si capiva perfettamente che era un refuso! 🙂
Ciao
Donatella,
è vero – vorrei non parlarne più, ma ricaschiamo sempre su questo argomento.
Suppongo anch’io che Bianca abbia generalizzato, e che le sue affermazioni si riferissero per brevità ai termini che menzioni (fuori dal loro ambito, non piace neanche a me ripeterli, immagina un po’ come sono fatta). Così facendo, tuttavia, ha generalizzato nei miei confronti, cosa che non trovo affatto giusta.
Sta di fatto che Bianca non si è domandata se vi fosse un motivo preciso per l’utilizzo di un certo stile.
Ne è prova il fatto che io non scriva sempre così (per riferimento, leggere i racconti con cui partecipo al concorso: quello dello scorso anno, magari, ma anche gli altri brani con cui partecipo quest’anno – TRUE LIES, Sbatti il Mostro in Prima Pagina e THE FAKE, Due Passi Nel delirio).
Detesto la volgarità fine a se stessa.
Tuttavia, sono un narratore che sceglie la via del realismo e della scrittura come ‘mezzo’ finalizzato alla caratterizzazione di storia e personaggi.
In quest’ottica non credo proprio sia possibile tratteggiare atmosfere sgradevoli e personaggi squallidi in maniera edulcorata.
Venendo a te, sono certa che le ‘parvenues’ di tua conoscenza non si sognerebbero mai di usare certi termini. Perché sono donnette di un altro tipo.
Forse egoisti, meschine, grette e superficiali come Melissa.
Il fatto è che Melissa va ben oltre. Melissa appartiene ad un’altra categoria.
Melissa è una che sposa un marito privo di attrattive ‘perché pensa sia il meglio (leggi, il ‘meno peggio’, n.d.a.)’ cui potrà mai aspirare.
Nascendo dotata di poche attrattive, seppure di un certo intelletto, aspira a migliorare il proprio aspetto perché ritiene che l’esteriorità sia la chiave – l’unica – che potrà elevarla a rango di ‘creatura superiore’, aprendole le porte del mondo dell’alta società.
Melissa è nata povera, e diventa ricca.
Ma è rimane povera dentro.
Melissa è bacata.
Melissa è marcia.
Non è mai stata una signora, né aspira a diventarlo.
E’ bella, bellissima, anzi – lo è diventata a seguito di tanti sforzi – e ritiene che ciò sia sufficiente per garantirle un mondo ai suoi piedi.
Melissa è una donna deprecabile. E’ un mostro – disposto a uccidere per mantenere il suo status sociale.
E difatti, finisce col farlo.
A Melissa non importa di vivere, come le tue conoscenze, ‘ in un contesto adatto, in un habitat di connivenza indispensabile per tenere su l’impalcatura generale di certi teatrini di posa’, perché ‘contesti adatti’ e ‘teatrini’ , per lei, non esistono: non li prende neanche in considerazione.
Melissa si ritiene superiore a tutto e a tutti.
Capisco e apprezzo che tu possa avere ritenuto l’utilizzo di certi termini eccessivo e magari ‘superfluo’.
Ciò che vorrei ti arrivasse, proprio perché poi mi dici che il testo ti piace, è il motivo per cui li ho utilizzati.
In un mondo perfetto, una donna che si sia dotata di natiche di forma gradevole e di un davanzale imponente per mezzo di svariati interventi di chirurgia estetica si definirebbe ‘una con un bel sedere e un seno prosperoso’. Nel mondo assai imperfetto, tuttavia, di Melissa, dell’avvocato e dello psicopatico ‘una così’ si definisce ‘culona’ e ‘tettona’, nella migliore delle ipotesi (dì, ma nella cerchia delle tue conoscenze non hai mai, dico mai, sentito qualcuno definire una donna ‘culona e tettona’?… Perché a me capita, devo dire, con una certa frequenza – e non è che mi riferisca a frequentazioni propriamente da bassifondi).
Pensi che avessi utilizzato nel racconto i termini di cui sopra – ‘natiche di forma gradevole e davanzale imponente’, ‘un bel sedere e seno prosperoso’, avrei suscitato nel lettore la stessa sensazione spiacevole – di disgusto, a dirla tutta – che si prova nei confronti di Melissa?…
Ti faccio un altro esempio.
Ancora oggi, rileggendo Melissa che, riferendosi alla tresca che il marito intrattiene con una donna ancora più brutta di com’era lei, prima degli interventi, dice, scuotendo la testa: ‘mio marito lo infila in quel buco. Da non credersi’, mi prende una cosa qui, allo stomaco – un senso di nausea pungente che mi trafigge come una stilettata e poi cresce, e sale, sale fino in gola per esplodere alla fine in un impeto di profonda, perversa soddisfazione nel momento in cui Melissa viene prelevata dal maniaco omicida nel taxi.
Melissa è un personaggio disgustoso – uno dei peggiori, forse, mai uscito dalla mia penna.
Allora mi dico che sì, sono riuscita nel mio scopo.
Ogni frase, ogni singolo aggettivo che ho usato, nel brano, contribuisce a un crescendo che trova il suo culmine nel finale.
Frasi come quella ‘incriminata’ di volgarità, nella mia intenzione, erano necessarie a far crescere il personaggio (il senso di repulsione nei confronti di Melissa, il personaggio principale) che conducessero poco per volta sino all’epilogo finale.
Pensi che avrei ottenuto lo stesso impatto sul lettore qualora mi fossi espressa in quella stessa frase con termini, per esempio, quali ‘Mio marito se la porta a letto’?…
Prova a rileggere il brano sostituendo i termini che ti ho suggerito qui e più sopra a quelli che ho invece utilizzato, e forse arriverai a comprendere il mio punto di vista.
Tornando al discorso che tanto mi è caro del realismo nella letteratura, capirai che se vuoi far vivere i personaggi, devi farli vedere per quello che sono – e quando non si tratta di eroi, ma di mostri, si deve avere il coraggio di andare a fondo, scavare ed essere rudi e crudi, quando serve.
Oh, e se poi restassi della tua opinione… fa lo stesso.
Il racconto ti piace, per me è già tanto.
A presto,
Nikki
p.s.: ammazza ‘sto racconto quanto sta facendo chiacchierare davvero troppo… speriamo che mo’ si cambi argomento. Un salutone anche a te!
Gianluca,
Donatella,
Rita,
Jacopo,
Silvia,
Peppino
…
grazie per l’attenzione.
Se vi fa piacere, d’ora in avanti, piuttosto che tornare sui temi già discussi in precedenza, mi piacerebbe conoscere la vostra opinione su un argomento che, invece, non è ancora stato toccato, ed invece quello che mi preme maggiormente.
Al di là del povero psicopatico oggetto di un’oggettivo problema di salute mentale, gli altri due mostri che descrivo sono frutto della nostra società.
Nessuno di noi sarebbe ciò che è se fosse nato, cresciuto ed educato da altra umanità, in altri luoghi, soggetto ad altre culture.
E’ anche vero che nessuno di noi, pur essendo nato, cresciuto ed essendo stato educato allo stesso modo, sarà mai perfettamente identico ad un altro essere umano, fosse anche suo fratello. Innatismo e condizionamento ambientale, quindi.
I miei personaggi sono ‘bacati’, ma non sono affatto irrealistici.
Pensateci. Di mostri governati dal cinismo e dall’esteriorità, guidati dal mero materialismo ve ne sono a migliaia nella nostra società dove pare siano sopravvissuti solo i valori (???) etici (???) più sballati.
Come la pensate?…
Ciao a tutti,
Nikki
Ok Nikki. L’ho riletto. Melissa in effetti appare più una coatta rifatta che una snob e, per esempio, l’avvocato o il marito si, potrebbero definirla una vacca rifatta anche a voce alta. Sono personaggi ripugnanti e poiché sono ben delineati la loro volgarità ti urta addosso in modo fastidioso. Ecco, probabilmente si tratta di questo e convengo con te che sono mostri che si incontrano ormai, purtroppo, nel quotidiano.
Quanto zucchero?
Donatella,
il caffè mi piace amaro.
Non ti preoccupare di addolcire niente – non ce n’è alcun bisogno.
Hai ragione: di fatto Melissa è più una coatta che una snob, con l’aggravante (molto, ma molto aggravante) di essere ‘na coatta marcia dentro.
Ma marcia fino in fondo (che per le è proprio giù, in fondo, ma profondo assai).
Sì, i personaggi sono ripugnanti, e il mio intento era quello di descriverli in maniera tale che la loro volgarità, a un certo punto, ti ‘urtasse addosso’, proprio come dici tu.
E’ probabile che quel senso di ‘fastidio’ che provi, a tratti, fosse proprio il sentimento che intendevo suscitare – lo stesso che provo io quando rileggo i personaggi, per come li ho tratteggiati, prendendoli per mano e conducendoli attraverso un crescendo che portasse al culmine del finale.
Quando ‘il mostro più mostro di tutti’ trova, alla fine, pane per i suoi denti.
E sì, di mostri del genere se ne incontrano un sacco, nel quotidiano… in questo caso sì, che c’avrei bisogno di un paio di tonnellate di zucchero (facciamo dolcificante, và, che sennò, perché al mondo ‘nun c’è giustizia, se sa… il ‘sedere abbondante’ ce viene a noi, ce viè!… 🙂
A presto,
Nikki
Dopo aver risposto alla tua critica sul mio racconto (la casellina “cerca” in alto a destra serve appunto per cercare un titolo o un autore senza scorrere l’intero elenco) passo alle risposte dei nuovi commenti. Permettimi prima un chiarimento: sono un tecnico nel senso che mi occupo piuttosto pesantemente di tipografia digitale, ma quanto a critico letterario… ce ne corre (e adoro il corsivo per esprimere pensieri diretti e indiretti. Possiamo disquisire quando e quanto vuoi sugli aspetti meramente tipografici dei testi).
Il povero psicopatico è povero perché è malato, non ne ha colpa. L’avvocato e la vacca rifatta sono colpevoli fino al midollo e senza redenzione perché sono altrettanto malati ma con piena colpa. Il mondo è pieno di avvocati senza scrupoli né coscienza (non avrei mai, per esempio e a costo di giocarmi la carriera, difeso i mostri del Circeo. Cito questo caso per vicinanza geografica) e di donne (e uomini) arrivisti che pur di ottenere ciò che vogliono venderebbero le proprie madri e nonne al miglior offerente. Il miglior termine per questi è “incoscienti” nell’accezione di “senza coscienza”, senza rispetto e senza la comprensione del fatto che la miglior forma di egoismo è l’altruismo (controesempio: un amico che aiutai in un brutto momento ha pressoché smesso di chiamarmi 😀 Spero di non aver mai bisogno del suo aiuto :D).
Perdonami se torno per un attimo al nome: gli uffici anagrafe sono pieni di gente che non sa scrivere più di due parole in croce e conosco personalmente gente coi nomi storpiati proprio dagli ufficiali dell’anagrafe. Pure i genitori però non scherzano: conosco un “Maico”. Non credo che il padre l’abbia chiamato così per pubblicizzare gli apparecchi acustici omonimi; sarei piuttosto propenso a ritenere non sapesse come compitare Michael 😀
Torno al mio titolo: la belladonna è una pianta velenosa senz’altro diversa dalla passiflora, che invece produce frutti commestibili. Non so che profumo abbia la belladonna ma ti assicuro che la passiflora non profuma, o almeno non profumava quella che ha perforato il mio sguardo quell’ultima domenica di maggio del 20xx che ha ispirato l’incipit del mio racconto (sono andato apposta ad annusarla).
Ora vado a leggere gli altri tuoi racconti e ti saprò dire.
scrivi davvero molto bene!!! complimenti 🙂 m i è piaciuto molto!! solo credo che non sia adatto ad un corto. c’è troppo materiale da far rientrare in 10 minuti (è nella sezione “racconti per corti o ho visto male io??) comunque ancora complimenti per la scrittura.
Valentina,
mille grazie per i complimenti! 🙂
Per quanto riguarda la lunghezza, ho presentato il soggetto nella sezione ‘corti’ perché mi pareva si prestasse, obiettivamente parlando, ad una trasposizione di tipo cinematografico. Tuttavia, temo tu abbia ragione: effettivamente, mi sono lasciata un pol prendere la mano, e come risultato, la lunghezza è un po’… strabordante. 🙂
Vabbe’, non importa… sono comunque contenta che sia piaciuto, a prescindere dall’esito finale.
Grazie ancora per la stima,
A presto,
Nikki
Tenendo presente che la realtà è un costante divenire, non è poi tanto importante verificare che una storia appartenga alla realtà o meno.
L’importante è che il lettore si senta profondamente coinvolto e proiettato al suo interno, da percepirla come tale.
Chi legge ha bisogno di sentirsi coinvolto, di “essere catturato” e provare tensione emotiva nella lettura.
E’ questa l’unica linea di demarcazione che conta ed è tracciata dal coinvolgimento del lettore e dal suo livello di tensione emotiva.
Questo spiega il successo di alcuni degli esempi da te citati. Prodotti di fantasia, ma pulsanti a tal punto da diventare autentici esempi di realismo.
Salgari che descrive la Malesia senza nemmeno averla vista e la mette pure negli occhi del lettore.
Dante, sferzante verso i personaggi della sua contemporaneità, che viene letto ancora oggi a secoli di distanza.
Lo stesso discorso vale, ancora di più, per la letteratura gialla, noir e thriller.
La quotidianità è fatta da episodi di cronaca, ma molti di questi, trasposti in narrativa, sarebbero di una noia mortale.
Allo stesso modo, storie di fantasia, magari non realmente accadute, ma credibili e verosimili, possono invece esercitare un appeal fortissimo e venire percepite dal lettore più intriganti e convincenti di altre che sono realmente accadute.
In questo senso, penso proprio che l’obiettivo più ambizioso per uno scrittore, in particolare di gialli e noir, sia quello di creare con la fantasia storie non ancora accadute, ma che possono accadere da un momento all’altro.
Ovvero una fantasia talmente fervida, da creare storie verosimili che anticipino la realtà.
E devo dire che la tua fantasia, in questo senso, non sbaglia un colpo.
Quanto alla necessità di immedesimarsi nei personaggi, a mio parere uno scrittore deve essere come un attore.
Certamente anche un attore ci metterà qualcosa di sé nell’ interpretazione dei suoi personaggi, ma questo non significa che sia identificabile in qualcuno di loro.
Anzi, a mio parere è tanto più bravo quanto più riesce a interpretare personaggi differenti tra loro e distanti da sé.
Cito Robert De Niro ed Anthony Hopkins che sono, a mio parere, gli esempi più nitidi di questa versatilità.
Per uno scrittore sussiste la stessa esigenza di immedesimarsi, per descrivere un personaggio dal suo interno.
In questo racconto, tu hai dato una dimostrazione molto limpida di possedere questa capacità.
Nikki ti auguro di vincere, lo meriteresti, anche se credo che la vittoria più significativa tu l’abbia già ottenuta.
Ma, soprattutto, spero che presto qualche editore importante si accorga del talento e della prorompente forza narrativa che ti porti dentro.
ciao
Giò
Giò,
mi mancavano i tuoi commenti profondi, mai banali e – per quanto mi riguarda – sempre a fuoco.
Ora, magari, qualcuno ci sospetterà di ‘biscotto’ di Trapattoniana memoria – perfettamente in argomento con la giornata odiera.
Quei due hanno scritto assieme, penseranno – si complimentano a vicenda. Invece noi sappiamo che non è così.
La stima reciproca quella sì, c’è – e tanta: altrimenti non avremmo mai collaborato (e non solo ad uno, ma a più lavori).
Tuttavia la verità, che solo noi due conosciamo, è che la nostra collaborazione è sempre stata aperta alla sincerità più assoluta, e che quindi non ci siamo fatti mancare nulla, io e te – discussioni e critiche comprese.
Ecco perché mi fa ancora più piacere leggerti a questo riguardo: ricordo che anche tu avevi letto la ‘Sonnambula’ nella versione più lunga – e anche in una più breve, se non erro – e che il tuo commento di allora non si discostava di molto da quello di adesso.
Noto che hai glissato sul tema della presunta ‘volgarità’ del brano: tu che mi conosci, sai che non gradisco le crudezze eccessive, specie quando fini a se stesse.
Tuttavia, ci siamo detti più volte scrivendo, io e te, che se un personaggio è squallido e volgare non possiamo descriverlo – non si può entrare in lui – a prescindere da come lui parla, pensa, si muove.
Citi – giustamente – miti come De Niro e Hopkins: pensa a Marlon Brando, ad Al Pacino e chi più ne ha…
Ti ringrazio per la stima che mi dimostri in ogni occasione – tuttavia, a questo punto, io mi augurerei che vincessi tu.
Intanto, anche se qualche ideuzza ce l’ho anch’io, la mia visione della trasposizione cinematografica de ‘La Sonnambula’ è ben lontana dalla nitidezza che hai del tuo ‘corto’.
Inoltre devo ammettere che, seppure abbreviato, il mio soggetto è forse ancora troppo lungo per un corto di dieci minuti.
Per finire, i personaggi del mio racconto sono deprecabili, a dire poco, e quello che invio non è certo un messaggio positivo.
I tuoi, invece, sono perfetti. Il tuo racconto mi piace davvero molto, te lo dissi anche a suo tempo, dopo averlo letto nella versione lunga per la prima volta.
Una vittoria ‘significativa’, come dici tu, l’ho ottenuta – ma assieme a te.
Da sola, chissà come sarebbe andata – potrei anche non avercela fatta. Ricordati che mi convincesti a cambiare il finale – la mia versione ‘dark’ avrebbe anche potuto non riscuotere lo stesso gradimento da parte della giuria.
Per concludere – altrimenti ci rubiamo tutto lo spazio – ricambio il tuo augurio finale: un editore come si deve lo meriti anche tu, come e quanto me.
E chissà che prima o poi non ci capiti questa fortuna (sperare non costa nulla… come andare a letto e sognare di vincere al lotto).
A presto,
Nikki
PS: Fa strano commentarti qui, dove l’anno scorso ci si trovava per rispondere ai commenti inviati al nostro racconto. ?