Racconti nella Rete®

24° Premio letterario Racconti nella Rete 2024/2025

Premio Racconti nella Rete “The fake – Due passi nel delirio” di Nikki Simonetti

Categoria: Premio Racconti nella Rete 2012

E io, la più infelice e derelitta?delle donne, ch’ho assaporato il miele?degli armoniosi voti del suo cuore,?debbo mirare adesso, desolata,?questo sublime, nobile intelletto?risuonare d’un suono fesso, stridulo,?come una bella campana stonata;?l’ineguagliata sua forma, e l’aspetto?fiorente di bellezza giovanile?guaste da questa specie di delirio!…?Me misera, che ho visto quel che ho visto,e vedo quel che seguito a vedere! »

La giovane dardeggiò uno sguardo fiammeggiante all’indirizzo della propria immagine riflessa nello specchio, poi gettò la testa all’indietro, scoppiando in una risata leggera e cristallina. Il monologo di Ofelia era quello che preferiva, e non solo per solidarietà con la pazzia della protagonista. Verena Stockwood allargò le labbra in una smorfia mentre sfilava dalla testa la parrucca di lunghi capelli scuri, strinse gli occhi in una fessura e sogghignò. Così bardata, impaludata nel lungo pastrano nero che le copriva il corpo, dalle caviglie alle spalle e si apriva sul seno, lasciando intravvedere due coppe DD da matrona romana – soprattutto, con gli occhi azzurro ghiaccio bistrati di blu notte – sembrava proprio lei.

Non per niente erano sorelle – di più: l’immagine speculare l’una dell’altra, gemelle omozigoti prodotte dalla separazione cellulare di un singolo uovo, fecondato da un unico spermatozoo. Solo che se sua sorella Penelope era la faccia liscia e lucente dello specchio, lei ne era il retro – il lato oscuro, screziato e variegato della superficie riflettente.

Verena rise di nuovo, questa volta di gusto – una risata cupa e profonda che le riecheggiò a lungo nella laringe, alternando il riso con un suono strano, a metà tra il singhiozzo e il barrito. Per qualche strano motivo, durante la scissione, qualcosa nel suo uovo era andato storto: come risultato, lei era matta. Pazza da legare. Qualcuno diceva come una capra. Ma poiché non era brutta, né stupida come una capra, con buona pace delle capre (e senza offesa per i cavalli, che adorava), pazza come un cavallo era, da sempre, la similitudine che preferiva. Verena dimenò il capo come una criniera abbandonandosi a un lungo nitrito, le spalle scosse da singulti irrefrenabili. Già all’età di sei anni mostrava i primi segni del disturbo che le sarebbe stato diagnosticato solo qualche anno più tardi: alternava periodi di relativa normalità ad altri d’iperattività – spesso, non riusciva a stare ferma e a smettere di parlare, a volte per giorni. Infine c’erano i momenti meno piacevoli, quando  faceva fatica a concentrarsi e persino a stare sveglia. Verena era bipolare: ‘bi’, anche in quello. Due di tutto, nella vita – il destino scritto nel suo minuscolo uovo, sin dalla nascita.

Verena rise più forte – risate come guaiti, prima, e latrati, poi. Rise e pianse, e poi rise e poi pianse ancora, e poi rise tanto forte che le vennero i crampi alla pancia e le bruciò la trachea. Per esperienza, sapeva che tentare di trattenersi non sarebbe servito a niente: non ci sarebbe riuscita. Tanto, si disse, con un’alzata di spalle, qualunque cosa venisse, non sarebbe durata a lungo.

Nell’ultimo periodo, le fasi di up si avvicendavano a quelle di down ad una velocità impressionante. Il che doveva essere segno di un peggioramento. Verena scrollò le spalle una seconda volta: non le importava affatto. Per quanto strano potesse apparire alla gente ‘normale’, lei non provava alcuna empatia – se non qualcosa che supponeva prossimo a un primitivo istinto di conservazione, alle volte – neanche nei confronti di se stessa.

Un raschio improvviso attirò la sua attenzione verso lo specchio.Ci risiamo, pensò, sollevando gli occhi al cielo.

‘Open, shut them. Open, shut them. Give a little Clap, clap, Clap’. L’aracnide scivolava giù per la superficie variegata del vecchio comò. La bestia era una cosina piccola – minuscola, la punta di una matita – nera e pelosa. Come la sua anima. Ostentando indifferenza, Verena lasciò scivolare lo sguardo addosso all’insetto, perdendosi nell’osservazione dei suoi movimenti aggraziati, volute lente e deliberate che si allargavano in grandi parabole arcuate, poi si abbassò, e prese da terra la scarpa che si era sfilata. Con grande calma, frantumò lo specchio in mille pezzi. Il suo petto si rigonfiò di un improvviso afflato di orgoglio verso se stessa, fino a che la magia del momento fu spezzata da un mugolio sommesso che le mandò l’ultimo gorgoglio di riso per traverso.  “Falla finita, dannato pezzo di merda!”, strepitò con tutto il fiato che aveva in gola, riservando al ragazzo un accenno di sguardo, poco sopra la spalla.

Open, shut them. Open, shut them. Put them in you lap, lap, lap.

Non sapeva più quello che fosse la pazienza. Non per accampare giustificazioni, ma essere bipolare con tendenze borderline era una gran rottura di palle.

Nessuno era in grado di comprendere – non il suo psichiatra, e neanche i suoi genitori – quanto devastante fosse l’incessante traghettare dagli attimi di assoluta felicità, brevi come lampi, in cui ti senti invulnerabile, al di sopra di tutto e di tutti, agli altri, molto più lunghi, in cui non trovi la forza di alzarti alla mattina, e guardi alla vita come dal buco del culo di una scimmia. Poi c’era l’aggravante della sociopatia – quella brutta bestia che ti prende alle budella e ti rende un essere impulsivamente, imperturbabilmente apatico, assolutamente incapace di relazionarsi con gli altri e di conformarsi alle norme sociali, caldeggiando i tuoi istinti disonesti e aggressivi. Era una tortura estenuante, a dir poco.Per incredibile che fosse, Penny le mancava. Sua sorella – la metà sana del suo uovo marcio – era l’unica che si fosse anche solo lontanamente avvicinata a capire.

Forse, chissà, anche l’uovo di sua sorella era bacato – solo un po’ meno guasto del suo. Fatto sta che Penny era la sola persona al mondo di cui avesse mai sentito il bisogno; le mancava tremendamente, in ogni momento della sua vita, qualunque delle sue fasi, up or down, si trovasse a vivere.

Per un po’, la sua gemella era riuscita nell’impresa di fornirle quell’equilibrio che a lei mancava: l’aiutava a ritornare per terra quando volava troppo in alto, e rimetteva assieme i suoi pezzi quando cadeva in basso. Per quel poco concessole dalla sua condizione, era la sola per cui avesse mai provato un sentimento: tanto che avrebbe dato la vita – una vita di cui non le importava affatto – pur di riaverla accanto.

Il giovane allungato dentro il letto si permise di interrompere il corso dei suoi pensieri, lanciando un flebile gridolino. Il ragno si agitò, immediatamente, liberando un lungo, modulato squittio da dentro la voragine che il tacco della sua scarpa aveva aperto nello specchio.

‘Creep them, creep them, Righ up to your chin, chin chin’.

Verena saltò sulla sedia. L’acido lattico le risalì su per l’esofago: stava cominciando a farle male lo stomaco.

Non fosse stata attenta, avrebbe vomitato. “Testa di cazzo!” sbraitò, lanciando uno sguardo d’impazienza all’orologio che aveva al polso. Incredula, sbuffò, mostrando all’ospite il dito medio.

Questo qui è proprio un gran bastardo, si disse. Come faceva a resistere tanto a lungo?

Di solito, trascorsi venti minuti, gli altri avevano smesso di lamentarsi già da un po’. Verena era stanca del gioco, e non vedeva l’ora che arrivasse il momento in cui avrebbe potuto liberarsi dello sgradito ospite. Intanto che pregustava i particolari della scena, passò con estrema cura la crema struccante sul viso, e intorno agli occhi. La fiamma della candela, da dietro le sue spalle, accendeva di bagliori multicolori le sue sembianze frammentate, riflesse e moltiplicate dalle schegge di vetro. Rimase col braccio sollevato a mezz’aria, ipnotizzata da quell’immagine da caleidoscopio che avrebbe potuto essere rilassante, non fosse che lo specchio – quello che restava di esso – le rimandava l’immagine di due orbite vuote, bianche e assieme scure come una voragine. Erano le sue?…  Scosse la testa, e riprese a struccarsi, canticchiando.

Open wide your little mouth – and let them in’. Verena rise; anche se non calcava le assi del proscenio da mesi – quando le sue condizioni glielo permettevano, era un’interprete teatrale acclamata – era ancora una grande attrice. Sul palcoscenico, ma soprattutto nella realtà. Per l’ennesima volta rifletté su quanto fosse stato facile, ingannarli. Tutti quanti. Fingere quanto basta era stato sufficiente. Sedurre l’ultimo psichiatra che l’aveva presa in cura e convincerlo a dichiararla socialmente non pericolosa addirittura elementare.

Il Dottor Richard Right, psichiatra di fama – quale assurda, grottesca combinazione, per uno che prendeva tali cantonate, chiamarsi Dottor Giusto!… – aveva perso la testa, più che per lei, per quelle rotelle che nel suo cervello ruotavano dalla parte sbagliata, facendo di lei, per usare la stessa definizione del luminare, quell’animale splendidamente istintivo, indomabile e selvaggio che era. Era ovvio persino a lei – come poteva sfuggirle il lucore che accendeva gli occhi di pece del primario quando, durante le sedute, gli descriveva i suoi stati d’animo?… – che Right invidiasse profondamente la libertà che le derivava dalla sua condizione di animale anti-sociale. Un gorgoglio divertito le pizzicò la gola, quando pensò che il suo psichiatra era un caso clinico: molto più di lei. Manipolarlo era stato un gioco da ragazzi.

Verena allentò il nastro con cui aveva legato la lunga coda, occultando la massa di capelli chiari sotto la parrucca scura, poi allungò la schiena contro la poltrona. Sia lei che la sua gemella avevano capelli molto belli, lunghi e setosi, di una calda tonalità ramata screziata da fili dorati. Non appena raggiunta la maggiore età, Penelope, che pure contraccambiava l’amore di sua sorella con la medesima intensità – anche se ‘marcia’, era pur sempre l’altra metà del suo uovo… – aveva preso a tingere i suoi in una calda tonalità marrone dai riflessi mogano, intendendo con ciò affermare la propria individualità.

Verena non necessitava di tali accortezze: seppure esteriormente identiche, c’era già il suo disturbo mentale a renderla diversa – ‘strana’, a dir poco. Da sempre, era quella che dava problemi a casa e a scuola, quella che era costretta a ingurgitare pillole come fossero caramelle e, nonostante tutto, faceva una gran fatica a tenere a bada i momenti di crisi e un gran brutto carattere. Quando si erano fatte grandi, i rapporti con l’altro sesso non avevano migliorato la situazione. Lunghe gambe e didietro da modella, naso greco e sguardo di ghiaccio da pastore siberiano, l’una mora e l’altra bionda, le gemelle Stockwood riscuotevano un discreto successo con i ragazzi.

Se però Penny – accidenti a lei – s’innamorava sempre, Verena, da brava sociopatica, non faceva alcuna fatica a recitare il ruolo della stronza senza cuore che faceva soffrire i ragazzi, tenendoli sulla corda e trattandoli come esseri di rango inferiore. Non che le fosse possibile altrimenti, visto che non provava sentimenti per nessuno. Nonostante ciò, per quanto assurdo potesse sembrare, era proprio lei, con tutto il pacchetto al completo di brutto carattere che si ritrovava – l’incapacità di amare, la volubilità, i repentini sbalzi d’umore e gli accessi d’ira – ad attirare frotte di adoranti ammiratori come falene sedotte da una splendente fonte di luce. Di lei si erano innamorati, puntualmente e mai ricambiati, tutti i ragazzi più attraenti e popolari del liceo, prima, del corso di storia dell’arte che aveva frequentato all’università, dopo.

Trasportata dal suo buon cuore e da un’indole naturalmente dolce e riflessiva, al contrario, sua sorella Penny finiva sempre col soffrire. Verena sospirò e si sollevò dalla sedia con una certa fatica, voltando deliberatamente le spalle ai raspi che il ragnaccio – era cresciuto a dismisura, negli ultimi minuti: adesso aveva le dimensioni di una pallina da golf –  produceva nel tentativo di risalire la china dello specchio frantumato. Con passo appesantito Verena si avviò verso la spaziosa doppia finestra e allungò lo sguardo al di là del vetro. Il traffico della strafatta, assonnata New York del sabato mattina scorreva lento, e assieme impetuoso e inarrestabile come un fiume in piena, venti piani più in basso. Più indietro, verso l’orizzonte, l’alba rischiarava la fitta cortina degli alberi del Central Park da dietro come un alone sovrannaturale; il popolo della notte era ancora in marcia, mentre i temerari fitness-dipendenti del primo mattino già balzellavano, apparendo e scomparendo con cadenza regolare nella nebbiolina, al ritmo del passo delle loro corse.

Verena afferrò una cicca dal pacchetto che l’occasionale accompagnatore della serata aveva lasciato cadere sul tavolo alla sua sinistra, sotto la finestra, e aspirò voluttuosamente una boccata del tabacco profumato di spezie. Le sigarette, di una marca esotica a lei sconosciuta, erano l’unica nota piacevole, sino a quel momento, dalla serata: avevano un sapore dolciastro, e regalavano un piacevole stato di stordimento che si protraeva per alcuni minuti. Era certa contenessero una droga di qualche tipo. Il ragazzo parlava un inglese perfetto con elegante accento londinese, che tradiva appena le sue origini orientali. Hong-Kong,con tutta probabilità; famiglia benestante e istruzione di livello a Londra: Cambridge – Oxford, persino.  Era alto e dinoccolato; molto attraente, per gli standard della sua razza. Aveva spalle larghe e un torace piatto come una lavagna, labbra disegnate e un sorriso accattivante che faceva brillare i suoi occhi a mandorla di una luce assolutamente speciale. L’aveva notato subito, ma si era detta che sarebbe stato una preda troppo difficile. Non aveva troppa voglia di impegnarsi, quella sera.

Quindi, aveva ripiegato su due o tre bersagli con cui era certa di poter andare a centro senza troppo sforzo, quando ‘occhi a mandorla’ le si era parato davanti.

Reggeva due bicchieri in mano. “Sex on the beach?…”, aveva domandato, allungandole un bicchiere, lo sguardo ammiccante e un sorriso maliziosamente sbieco dipinto sulla bella faccia da schiaffi orientale. “Casa mia è più comoda della spiaggia”, si era affrettata a ribattere, non appena si era ripresa dalla sorpresa. Cogliere la palla al balzo era stato facile. Sin troppo.

Verena sputò il fumo della sigaretta. Il divertimento si era esaurito troppo in fretta: accadeva sempre più spesso, di recente. Prendeva fuoco alla velocità di un fiammifero, e altrettanto subitaneamente si spegneva. Le volute di fumo si aggrovigliavano davanti ai suoi occhi come due amanti in un amplesso forsennato. Verena tormentò quel poco che restava della sua sigaretta con le lunghe dita dalle unghie laccate di rosso, poi gettò il mozzicone a terra e lo schiacciò col tacco della scarpa con lo stesso impeto che avrebbe usato nello spiaccicare la testa di uno scorpione velenoso.

Proprio come aveva fatto col cervello di quello stronzo di Steven Lucinelli. Se lo meritava: Steve aveva rappresentato il principio del male di Penelope. A diciannove anni, mentre frequentava la facoltà di letteratura alla Columbia, sua sorella si era follemente innamorata, apparentemente ricambiata, di un compagno di facoltà. Lucinelli era il prototipo dell’italoamericano ambizioso: belloccio, salutista e pieno di muscoli. Coltivava il sogno di frequentare la scuola di legge di Yale e diventare un famoso avvocato. Sino alla fine dei corsi invernali Steven Lucinelli si era detto follemente innamorato della sua gemella.

Ciò non gli aveva impedito di ritornare al campus dalla pausa estiva trascorsa lavorando come cameriere a Martha’s Vineyard al braccio di Miranda Klose – rampolla della Manhattan – bene, erede dell’avvocato Steward Klose della Klose & Associates, principe del foro e titolare di uno degli studi legali più famosi di Manhattan – cui aveva pensato di infilare un anello al dito durante l’estate. Oltre che ambizioso, Lucinelli si era rivelato un meschino arrivista.

La povera Penny era caduta in una bruttissima depressione da cui era uscita con una dipendenza da svariati farmaci e una altrettanto forte, dal cibo. Mangiare era divenuta per lei un’ossessione cui le era impossibile resistere: ingurgitava di tutto, a tutte le ore, tanto che, a poco a poco, si era trasformata nella brutta copia di se stessa. Alcuni mesi e molti chili più tardi, imbruttita e appesantita, Penny si apprestava a sbattere inesorabilmente il muso, come il Titanic contro l’iceberg, in due delusioni ancora più grandi. Pesava oltre novanta chili quando aveva conosciuto Michael Pruitt, allenatore della squadra di basket del liceo dietro casa.Grazie al suo amore, e col sostegno di una sorella che non la abbandonava un istante, Penny era rifiorita.

A un certo punto, aveva persino deciso di mettersi a dieta, anche se Michael le assicurava che le donne robuste erano la sua passione.

Quanto questo fosse vero, sua sorella l’avrebbe scoperto sei mesi più tardi, quando la signora Rose Pruitt – centoventi chili di peso e due marmocchi appesi al collo – aveva suonato alla sua porta, domandandole neanche tanto gentilmente di interrompere la relazione con il marito, padre dei suoi figli.

Daniel Salvini, broker in carriera, era stato la goccia che aveva fatto traboccare il vaso di Penny.  Per oltre due anni, dai ventidue ai ventiquattro – i più belli della vita di sua sorella, e di conseguenza della sua – Daniel era stato il fidanzato perfetto che partecipava a tutte le feste comandate di famiglia, Natali, feste del Ringraziamento e compleanni inclusi. Per la festa del loro ventiquattresimo compleanno, il diciotto di luglio, aveva regalato a Penny l’anello col brillante più grosso che Verena avesse mai visto. Anche se aveva avvertito una punta di fastidio – quell’anello significava forse che avrebbe smarrito l’altra metà del suo uovo?... non ne era certa, così come non era affatto sicura che fosse gelosia il senso di instabilità alla bocca dello stomaco che l’aveva portata a sorridere con la bocca storta – era stata sinceramente felice per sua sorella, che aveva nel frattempo passato i cento chili.

Daniel sosteneva che la  fidanzata gli piaceva così com’era, bene in carne, che i suoi cosciotti rotondi e quella faccia da luna piena gli facevano sangue, tanto che Penny aveva smesso di torturarsi con diete che non funzionavano e aveva preso ad accettarsi – anche se poi aveva insistito che Verena l’accompagnasse a scegliere il vestito da sposa, ‘perché il giorno del suo matrimonio non voleva sembrare una ridicola meringa gigante’ per usare le sue parole. Alla fine, avevano trovato il vestito perfetto per Penelope: un peplo Oscar De La Renta in seta nei tre toni dell’avorio – panna, crema e terra – che faceva apparire sua sorella una splendida dea, una Giunone giusto un po’ in carne. Peccato che, la notte prima delle nozze, in visita furtiva al nuovo appartamento per nascondere il regalo di matrimonio, un prezioso Rolex Daytona, sotto il cuscino del futuro marito, Penny avesse sorpreso Daniel impegnato in un amplesso sfrenato con una delle damigelle d’onore – per la cronaca, una silfide che pesava a malapena cinquanta chili.

Il mese successivo Miranda e John, i loro genitori poco più che cinquantenni, avevano perso la vita in un incidente d’auto nel buen-retiro invernale di famiglia di Key West. Ad essere sincera, la loro scomparsa non aveva significato molto, per lei. Li sentiva di rado; da brava sociopatica, non provava che un tiepido affetto nei loro confronti. Per Penelope, che, invece, li adorava, quell’ultima tragedia aveva rappresentato il classico colpo di grazia.

Impotente, Verena aveva assistito all’inesorabile crollo psicologico ed emotivo di sua sorella, che era anche la colonna portante della sua esistenza.

Era stato in quel periodo che aveva iniziato ad andare a caccia.

Steven Lucinelli era stato il primo. Egocentrico e pieno di sé com’era, non era stato complicato fargli credere che l’altra gemella Stockwood, la bionda un po’ svitata, era invaghita di lui, oramai felicemente sposato con la rampolla Klose, sin dai tempi in cui ancora usciva con sua sorella. Sedurlo, era stato ancora più facile.

Con Michael Pruitt, le cose erano state più complicate.

Probabilmente gli piacevano davvero le donne robuste, e con i suoi cinquantotto chili scarsi per un metro e settantacinque di altezza, Verena doveva apparirgli attraente quanto uno scheletro ambulante. Da quando si prendeva cura della sorella, aveva assorbito le sue malsane abitudini alimentari. Tuttavia, pur ingozzandosi delle schifezze più nefande – chili, hamburger, pizze e dolcetti di ogni genere – non riusciva a mettere su un chilo. Evidentemente, non riusciva a replicare la combinazione dei molteplici fattori – depressione, medicinali e chissà che altro – che avevano mandato in tilt il metabolismo di sua sorella, causandone l’aumento di peso. Era stato allora che l’aveva visto.

Faceva bella mostra di sé nella vetrina di un magazzino per forniture teatrali dove spesso si riforniva per il suo lavoro.

Il costume in gommapiuma appoggiato al manichino doveva pesare una ventina di chili, forse anche qualcosa in più, ma sembrava proprio quello che le serviva. Verena l’aveva provato: era ricoperto di morbido lattice, e liscio al tatto. La ingoffava oltre ogni dire, ma le andava a pennello. Nonostante avesse frequentato le più autorevoli scuole d’arte teatrale e fosse avvezza ai travestimenti di scena, solo in quel preciso istante, mentre si osservava nello specchio, infagottata in un costume che la trasformava in una donna obesa, aveva compreso quello che sua sorella doveva aver passato, in quegli anni. Osservando la sconosciuta nello specchio, aveva pensato che non esistesse niente di più terribile, al mondo – nemmeno una delle sue crisi più nere: niente, che fosse anche lontanamente paragonabile alla sofferenza – lancinante, addirittura – che si provava nel guardarsi senza riconoscersi. Quel giorno, aveva completato l’opera acquistando una parrucca scura, un fondotinta teatrale e un barattolo di sostanza gommosa che, applicata sul viso e ricoperta dal fondotinta, regalava guance paffute e un sottomento inesistente.

Una volta giunta a casa si era preparata con cura: dopo essere scivolata a fatica dentro il pesante costume in lattice, aveva indossato un reggiseno in pizzo e un paio di slip di Penelope. Infine, aveva infilato uno dei camicioni preferiti e il soprabito scuro, lungo sino quasi ai piedi, di sua sorella. Dopo avere applicato la sostanza gommosa sulle guance, si era truccata come lei, bistrando gli occhi chiarissimi con una matita color blu notte. Quando, infine, aveva indossato la parrucca e si era guardata nello specchio, per poco non era svenuta.

I capelli avevano una tonalità leggermente diversa da quella reale, ma, per il resto, era identica a Penny. Ecco!, aveva pensato. Sono Penny.

Era proprio come lei. Il processo d’identificazione era sconfinato oltre le sue stesse aspettative: si sentiva, ne era certa, come doveva sentirsi lei: pesante, goffa e inadeguata. Solo, molto – ma molto, più incazzata.

Era in quello stato d’animo che aveva telefonato a Michel Pruitt fingendosi sua sorella: non che fosse complicato; avevano la stessa voce. Imitarne gli atteggiamenti era un gioco da bambini, per lei.Era certa che Michael le avrebbe chiesto di incontrarla, e aveva ragione: aveva deciso lei il luogo dell’incontro – un locale buio e fumoso, dove si faceva musica dal vivo (non era poi del tutto sicura che il suo travestimento avrebbe retto, alla luce del giorno). D’un tratto, tutto le era apparso possibile.

Rapito dalla nuova intraprendenza della nuova Penelope, Michael si era rivelato una preda estremamente arrendevole. Con lo stesso sistema, era stato un gioco da ragazzi ghermire anche il povero Daniel:  sebbene in procinto di sposare l’anoressica damigella che aveva messo incinta, non si era a suo dire tuttora ripreso dalla brutale rottura con ‘l’unico grande amore della sua vita’ – quello che aveva tradito e brutalizzato: Penelope, appunto. Peccato, per lui, non avere idea che sotto le spoglie di Penny ci fosse la sorella sbagliata. Quella matta. Pazza da legare.

Quello era stato un giorno che non avrebbe dimenticato. Il giorno successivo avrebbero compiuto venticinque anni, e lei voleva un regalo speciale da donare a sua sorella. Aveva fatto ritorno all’appartamento con vista sul Central Park in cui vivevano dalla morte dei genitori  cinque minuti dopo le tre del mattino. Pioveva molto forte quella notte; diluviava, addirittura.L’interruttore generale della corrente elettrica era saltato, ma il cielo di là dalle vetrate era rischiarato a giorno dalle scariche elettrostatiche che dalle nubi scaricavano a terra, nel parco. Chissà perché, le era salito alla mente un pensiero, reminescenza di una lontana lezione scolastica: ovunque si trovassero, in qualunque luogo del cielo o della terra fossero generate, le scariche elettriche si comportavano sempre nello stesso identico modo. In maniera ottusa e testarda, tutto quello che volevano era tornare a casa – il suolo, la terra cui appartenevano. Era sempre stato lo stesso anche per lei. Ovunque si trovasse, e di qualunque colpa si fosse macchiata, anche lei era spinta da un bisogno prepotente, quasi fisico, di tornare a casa: anche lei era irrimediabilmente attratta dalla sua terra.  Che, nel suo caso, era sua sorella.

Con accortezza, senza fare rumore, aveva aperto la porta della camera di Penny e si era accoccolata al suo fianco. Dopo una breve difficoltà iniziale, aveva vomitato le parole una dopo l’altra, come un fiume in piena. Aveva confessato le sue colpe, certa di ricevere assoluzione, conforto e un abbraccio. Invece, Penny aveva continuato ostinatamente a volgerle le spalle. Da quel giorno, non le aveva più rivolto la parola.

Il tempo era trascorso, lento e inesorabile. Il loro compleanno era giunto, e se n’era andato; erano passati oltre sei mesi dalla notte in cui aveva aperto il cuore a sua sorella, e lei continuava a non parlarle. Era davvero caparbia, quando voleva. Verena aveva tentato di riallacciare i fili della propria vita, ma era troppo difficile. Le sue crisi si facevano sempre più frequenti e più feroci.

Dopo Michael, l’ultimo della lista, aveva sperato per un po’ che la sua fame si estinguesse. Invece, così non era stato. Aveva cacciato nei propri panni, truccata e vestita da se stessa, per rinunciare dopo un paio di tentativi appena. Per l’adescatrice bionda col corpo da modella, gli occhi da husky e l’atteggiamento spregiudicato il gioco era talmente facile che non le dava alcun gusto. Così, pur sentendosi appena  in colpa, aveva ripreso a cacciare nei panni di Penelope. Quella sera Kim, il ragazzo di Hong Kong, era stato una preda insperata.

Ovviamente, anche a lui piacevano le ragazze grasse. Verena scosse la testa: ne aveva incontrati di tutti i tipi. A chi piaceva leccare le scarpe, chi nutriva una passione sconfinata per i piedi, chi per le mutandine sporche, chi per i culi e per le tette finte. A certi si drizzava solo davanti alla cellulite e alla ciccia traballante di una bella ragazza in carne. Kim era uno di quelli.

Quando gli si era avvicinata, appena arrivati a casa, aveva i pantaloni tutti tesi sul davanti per l’erezione. Anche con lui, era stato più facile del previsto. Nonostante tutto, era previdente: anche quella sera, come sempre, portava in tasca un taser, l’arma elettrica che avrebbe paralizzato il cinese sul posto nel caso in cui il sedativo che gli aveva versato nel bicchiere non avesse fatto effetto. Anche se, sino ad allora, non era mai successo. Quando gli occhi del giovane orientale si erano annebbiati, Verena era stata svelta a sbarazzarsi della gomma che le impinguiva il volto, e a lasciar scivolare il vestito in lattice di lato, senza toglierlo. Lo sguardo che gli uomini le lanciavano, in quell’istante, non aveva prezzo. Verena adorava quella frazione di secondo, assolutamente straordinaria – l’attimo in cui gli occhi dei bastardi si riempivano di puro terrore, quando comprendevano di essere alla completa mercé di una squilibratadi una pazza maniaca.

Verena accese un’altra sigaretta, dimenò un po’ i fianchi e scrollò le spalle per liberarsi dell’ingombrante costume di scena che scivolò lentamente a terra, afflosciandosi su se stesso come il goffo e inutile corpo di un grasso fantoccio. Se solo fosse stato così facile anche per Penelope, pensò. Nuda come un verme, la pelle bianca e risplendente nella luce dell’alba, si mosse lentamente, bellissima e seducente, ancheggiando sui tacchi vertiginosi, avviandosi verso la stanza degli ospiti. L’entrata era accuratamente sigillata con un nastro adesivo super-aderente. Apriva quella porta molto raramente, solo quando proprio non poteva farne a meno. L’odore era assolutamente nauseabondo, ma decise di non farvi caso.

Quella sera aveva troppo bisogno di lei. “Penny, tesoro…” sussurrò, dirigendosi verso l’ammasso di pelle scura e raggrinzita che le dava le spalle, parzialmente nascosta alla vista dalle lenzuola chiazzate di sangue rappreso. Il pavimento s’intravedeva appena, ricoperto com’era, quasi per intero, da una spessa coltre di esseri striscianti. Indifferente, Verena calpestò la massa di viscide creature, infilzandone alcune con i tacchi a spillo nel tragitto verso il letto, poi si acciambellò a fianco del corpo mummificato della sorella. Prese ad accarezzarne la testa con estrema dolcezza, ma per quanto delicato fosse il suo tocco, i capelli le rimanevano a ciocche nelle mani. “Penny, ti prego…”

Verena inspirò, trattenne il respiro, e attese dalla sorella un cenno che non arrivò – che non arrivava dalla mattina in cui era rientrata dopo avere ucciso Daniel Salvini e aveva trovato Penelope, fredda e immobile, immersa in un lago di sangue, dopo che si era aperta le vene dei polsi – per un tempo che le parve infinito. “Dimmi che mi perdoni.” Verena strinse tra le braccia la mummia che riposava nel letto di sua sorella.

“Ti prego.” Ti prego.

‘E sedermi a fumare sulle scale finché il tuo vicino non torna a casa e sedermi a fumare sulle scale finché tu non torni a casa e preoccuparmi se fai tardi e meravigliarmi se torni presto e portarti girasoli e andare alla tua festa e ballare fino a diventare nero e essere mortificato quando sbaglio e felice quando mi perdoni e guardare le tue foto e desiderare di averti sempre conosciuta e sentire la tua voce nell’orecchio e sentire la tua pelle sulla mia pelle e spaventarmi quando sei arrabbiata e hai un occhio che è diventato rosso e la’ltro blu e i capelli tutti a sinistra e la faccia orientale e dirti che sei splendida e abbracciarti se sei angosciata e stringerti se stai male e aver voglia di te se sento il tuo odore e darti fastidio quando ti tocco e lamentarmi quando sono con te e lamentarmi quando non sono con te e sbavare dietro ai tuoi seni e coprirti la notte e avere freddo quando prendi tutta la coperta e caldo quando non lo fai e sciogliermi quando sorridi e dissolvermi quando ridi e non capire perché credi che ti rifiuti visto che non ti rifiuto e domandarmi come hai fatto a pensare che ti avessi rifiutato e chiedermi chi sei ma accettarti chiunque tu sia e raccontarti dell’angelo dell’albero il bambino della foresta incantata che attraversò volando gli oceani per amor tuo e scrivere poesie per te e chiedermi perché non mi credi e provare un sentimento così profondo da non trovare le parole per esprimerlo e aver voglia di comperarti un gattino di cui diventerei subito geloso perché riceverebbe più attenzioni di me’.

TipregoTipregoTiprego, implorava, intervallando le preghiere al suo monologo preferito.

Nella stanza a fianco, il giovane Kim Xiao Cheng, cui aveva tagliato le vene dei polsi dopo averlo drogato, stava morendo dissanguato nel suo letto, e tutto ciò di cui le importava era il perdono di sua sorella. Infine, Verena Stockwood si arrese all’evidenza. Neanche per quella sera, sua sorella le avrebbe concesso il suo perdono. Chissà, si disse; forse andrà meglio la prossima volta. Si alzò, le spalle incurvate dal peso della delusione, deglutendo il groppo che le si era formato in gola. Richiuse delicatamente la porta alle sue spalle, gettando uno sguardo distratto a quel poco che restava del biglietto ingiallito dal tempo e mangiucchiato dagli insetti che Penny stringeva ancora nella mano rattrappita.

So quello che hai fatto. Non averti fermato è come avere armato la tua mano; non riesco a sopportarlo.

Il ragno, intanto, scivolava giù per la ragnatela, lasciando dietro di sé scie di muco argentato. Era cresciuto ancora. Pulsava, circondato da un’aura traslucida. Era enorme, adesso:  una palla da bowling che si trascinava sul pavimento, lentamente e inesorabilmente, dirigendosi verso il Cinese con lunghi passi felpati. Vestita di nient’altro che della propria pelle, Verena degnò la bestiaccia di un ultimo sguardo distratto mentre si avviava verso la cucina espirando boccate di fumo. Dal cassetto, scelse uno dei coltelli più grandi e affilati.

Sul letto, l’attraente orientale si muoveva ancora; la sorprese quando, con le poche forze che gli restavano, le piantò in faccia i suoi occhi a mandorla, lanciandole uno sguardo supplichevole. Forse sperava che avesse pietà di lui. Verena contrasse il volto in una smorfia. Il povero idiota neanche immaginava che fosse totalmente incapace di provare qualunque genere di empatia per lui – e per chiunque altro al mondo.

‘Open shut them, Open shut them – Crepo them, Creep Them, Slowly creep them’. Il ripugnante insetto nero, intanto, risaliva piano le lenzuola, srotolando da sotto le zampacce pelose, una dopo l’altra. Una volta che ebbe raggiunto la faccia del giovane asiatico, aveva sollevato quel suo stomachevole musetto a punta verso di lei, piantandole addosso quelle minuscole sfere perfettamente rotonde che sembravano fissarla da ogni direzione. Non ne poteva più, di quegli occhi e del  frastuono incessante prodotto dal movimento dell’aracnide – un crepitio incessante che gli raspava nel cervello: entrambi le mettevano i brividi.

 

Il Cinese si muoveva ancoraQuanto sangue aveva in corpo, quel figlio di buona donna?... si domandò. Non che le importasse; non sarebbe durata per molto. Mentre due lacrime di delusione le scendevano agli angoli degli occhi straordinariamente freddi, Verena sfiorò con l’indice la guancia liscia del ragazzo.  ‘Open up your mouth, but do not let them in. Open up your mouth – AND LET THEM IN’.

Ogni qualvolta arrivava il momento, le sue orecchie si riempivano, immancabilmente, delle ovazioni e delle urla dell’invisibile pubblico che plaudeva la sua performance sul palcoscenico. Anima, occhi, tamburi che le martellavano nello stomaco, nel petto, nel cervello. Solo che questa era la vita.

E voglio giocare a nascondino e darti i miei vestiti e dirti che mi piacciono le tue scarpe e sedermi sugli scalini mentre fai il bagno e massaggiarti il collo e baciarti i piedi e tenerti la mano e andare a cena fuori e non farci caso se mangi dal mio piatto e incontrarti da Rudy e parlare della giornata e battere a macchina le tue lettere e portare le tue scatole e ridere della tua paranoia e darti nastri che non ascolti e guardare film bellissimi e guardare film orribili e lamentarmi della radio e fotografarti mentre dormi e svegliarmi per portarti caffè brioches e ciambella e andare da Florent e bere caffè a mezzanotte e farmi rubare tutte le sigarette e non trovare mai un fiammifero e dirti quali programmi ho visto in tv la notte prima e portarti a far vedere l’occhio e non ridere delle tue barzellette e desiderarti di mattina ma lasciarti dormire ancora un po’ e baciarti la schiena e carezzarti la pelle e dirti quanto amo i tuoi capelli i tuoi occhi le tue labbra il tuocollo i tuoi seni il tuo culo il tuo…” . 

Sarah Kane:  nessuno mai – prima, o dopo di lei, aveva dato voce con tanta maestria a una  ‘Febbre’ che lei conosceva tanto bene, perché era anche la sua.

Dopo avere riflettuto un istante sulle opzioni a sua disposizione, quindi, Verena allungò pigramente spalle e braccia sopra la testa in un movimento incredibilmente aggraziato e assieme seducente, infine calò il coltello con un gesto secco. Lo fece nel punto in cui sapeva avrebbe fatto più male: esattamente nel mezzo di quello sguardo nauseabondo da cerbiatto spaurito – che era anche in mezzo agli occhietti multipli della bestiaccia pelosa – si sarebbe liberata di entrambi gli abominevoli  insetti  con un sol colpo.

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37 commenti »

  1. Detto fatto. Ho letto anche questo e ho riconosciuto il tuo stile. Il tuo inconfondibile stile quando parli di squilibrati che fai vivere e tratteggi con una tecnica da professionista.
    Bell’ambientazione: la Grande Mela è la location ideale per il genere che scrivi. E’ evidente che conosci gli States e la lingua. Questo racconto mi è sembrato a tratti introspettivo, quasi come se il personaggio principale fosse unico, sdoppiato solo perchè riflesso in uno specchio, che va in frantumi come la vita dell’altra metà di Verena e come in genere vanno a finire le vite di persone malate dentro.
    Complimenti ancora e un grande in bocca al lupo
    Rita Gallo

  2. Grazie per avermi letta anche qui – più lunga e dettagliata, questa ‘passeggiata nell’incubo’ di una squilibrata.
    lL’ambientazione dei miei lavori si colloca spesso oltremare, in quel degli Stati Uniti – luogo che, hai ragione, conosco bene per avervi studiato e lavorato.

    Hai ragione: il racconto è molto introspettivo.
    Verena si guarda nello specchio, e vede rispecchiata un’altra sé.
    Secondo te la sorella – quella grassa – esiste?… E’ mai esistita?…

    Fammi sapere, così capisco come ti è arrivato.

    Un grande bocca in lupo anche a te,
    Nikki

  3. Nikki, sai che ogni lode sarebbe superflua: descrivi la malattia mentale in modo magistrale. Purtroppo mi sono ricordato il motivo per cui smisi di leggere Dylan Dog: mi perdevo nelle trame (limiti di una testa… limitata). Mentre mi perdevo anche nella tua storia, ho visto molte immagini che mi hanno riportato alla mente Psyco, I vecchi Corriere della Paura, Vestito per uccidere e diversi altri input visivi.
    Passo dunque direttamente alla controsservazione: l’acido lattico che risale per l’esofago è quello della digestione prodotto nella stomaco? Se è così hai avuto un lapsus: quello è l’acido cloridrico. L’acido lattico è quello che attacca i muscoli in preda alla stanchezza. Scusa se sono pedante :p

  4. Macchè, la sorella non esiste! Secondo me, è esistita solo nella mente contorta di Verena, come la parte di sè ripudiata, imbruttita, la più selvaggia.
    Ma che in fondo ama e dalla quale vuole quel perdono che le metterà a posto la coscienza (se mai ne avesse una!) e in pace l’anima.
    Io l’ho letta così.
    Ti saluto
    Rita G.

  5. Gianluca,
    grazie per la stima.

    Mi fa piacere che ‘The Fake’ ti sia piaciuto, nonostante le obiettive difficoltà del caso – in questo caso, tuttavia, mi dichiaro innocente: seguire il processo mentale di una malata come quella oggetto del racconto non può che risultare esercizio complesso e particolarmente convoluto 🙂

    Mentre ti ringrazio per la segnalazione del ‘lapis’ (pardon, lapsus…) cui accenni e che provvederò a correggere appena possibile – ti pongo la stessa domanda che ho posto a Rita precedentemente, prima di rispondere ad entrambi.

    Giusto per capire come – se – il racconto ti è arrivato per come io l’ho inteso, che cosa ne pensi della ‘sorella’ sana?…
    Secondo te esiste? E’ mai esistita?…

    Fammi sapere.
    A presto, Nikki

    PS: non sei affatto pedante, solo preciso: c’è differenza.
    A a me, oltretutto, quel ‘lapis’ era davvero sfuggito… quindi mi sei stato davvero d’aiuto.
    Grazie di nuovo.

  6. Rita,
    perdonami se non scopro ancora tutte le carte – è che ho posto la stessa domanda che ho fatto a a te anche a Gianluca, e sono curiosa di vedere se anche a lui il racconto è arrivato nello stesso modo che a te.

    A presto,
    Nikki

  7. Gianluca,
    Rita,

    mi sono accorta in questo istante che per qualche strano refuso il paragrafo che fa da incipit al presente brano risulta infarcito di punti interrogativi che non hanno chiaramente ragione di esistere.
    Provvederò a cancellarli quanto prima.

    A presto,
    Nikki

  8. Ciao Nikki. Non ho avuto moltissimo tempo per pensare a The Fake (sto impaginando un libro e mi porta via del tempo 🙁 ). Però mentre ti scrivevo il commento pomeridiano ho pensato molto all’immagine della mummia. Mi ha ricordato, come ti dicevo, Psyco: Norman Bates impersona se stesso e la madre mummificata. Non ho dubbi che Penny sia esistita e che la Pazza se la sia tenuta morta impagliata. Ho però il dubbio che gli uomini non siano stati della sorella ma tutti suoi, o magari solo il primo di Penny e tutti gli altri di Verena.
    Devo rileggerlo con più attenzione e cercare di non perdermi. Ci sono almeno andato vicino?
    Avevo notati i punti interrogativi che, chiaramente, non potevi aver messo tu. Avevo pensato a un errore nell’operazione di copia e incolla dal tuo editor a quello di WordPress.

  9. Caspita! questo racconto mi era sfuggito (a dire il vero non trovo il tempo per leggerne di più…)! Bello, scritto bene come gli altri. Brava!

  10. Racconto scritto molto bene, piacevole nella lettura, leggendolo ho capito cosa vol dire saper scrivere davvero.

  11. Silvia,
    moltissime grazie!!!… Anche a me è sfuggito uno dei tuoi, l’ho stampato e dopo me lo leggo, poi ti commento.
    Grazie per l’attenzione

    A presto,
    Nikki
    PS: Ti ho scritto sulla tua mail – fallo pure anche tu, come e quando vuoi – ti è arrivata?…
    Comunque, mi ripeto, sono ‘donna’.

  12. Giorgio,
    ti ringrazio davvero per l’apprezzamento e per l’enorme complimento che mi fai… ‘saper scrivere davvero’…. wow!
    Magari fosse vero.
    Come già detto, il mio intento è quello di ‘arrivare’ al lettore, di comunicare qualcosa – se vi riesco, allora il mio compito di narratore che mette la scrittura al servizio della storia può dirsi compiuto. Con te, pare vi sia riuscita.
    Grazie di nuovo, e a presto,
    Nikki

  13. A tutti i lettori:
    mi sono resa conto, rileggendomi, che il brano contiene qualche refuso di troppo. Mi scuso, e conto di riproporre una versione ripulita al più presto.
    Grazie a tutti per l’attenzione.
    Nikki

  14. Rita,
    Gianluca,

    sembrerà strano, ma avete entrambi colto nel segno.

    Per quanto diametralmente opposte, le vostre chiavi di lettura del racconto sono entrambe valide.

    ‘Due passi nel delirio’ è difatti un racconto ‘a doppia lettura’ , nel senso che è stato scritto in maniera che entrambe le interpretazioni che il lettore ne possa dare abbiano una base su cui poggiare.

    La sorella gemella ‘sana’ potrebbe essere esistita – perché no, proprio come ha percepito Gianluca.
    Tuttavia, come suppone Rita, potrebbe anche essere che Penny non sia altro che una proiezione di Verena, quella che lei ha della sua parte più pura e non ‘bacata’.
    Sana, ma imbruttita dal peso in eccesso.

    Chiaramente, ho la mia opinione – all’inizio, è stata una delle due ipotesi ad ispirarmi.

    Tuttavia, una volta che ho cominciato a buttare giù il racconto mi sono presto resa conto che, in un testo di per sé tanto buio e introspettivo, la ‘doppia lettura’ risultasse di gran lunga quella più intrigante.
    Di conseguenza ho deciso di complicarmi la vita lanciandomi in uno dei lavori che, da un punto di vista tecnico, si è rivelato uno dei più complicati mai affrontati nella vita.
    Forse non è ancora del tutto pronto, chissà.

    Tuttavia la vostra reazione – e soprattutto il fatto che lo stesso racconto vi sia arrivato in due maniere diverse – mi conforta, significando che lo scopo del mio sforzo è stato raggiunto.

    Ci avete preso entrambi, quindi 🙂
    e grazie ad entrambi – a tutti – per l’attenzione.

    A presto,
    Nikki

  15. Eccomi Nikki,
    oggi sono io più “busy” ma il computer è sempre acceso per cui di tanto in tanto butto l’occhio,
    Mi fa piacere che, sia io che Gianluca, abbiamo colto l’essenza del racconto, anche se in maniera diversa.
    Tu sei l’autrice sta a te giudicare, noi commentiamo solo.
    Quando scrivi questo genere (che io amo molto) bisogna leggerlo bene, con attenzione, per capirlo e gustarlo.
    Ci si deve quasi calare nelle parti o almeno immaginare di vivere accanto ai protagonisti per comprendere appieno i sentimenti, i drammi, le gioie, le sregolatezze della loro vita.
    Happy day
    Rita

  16. Che chicca il brano di “Febbre” della Kane! Azzeccatissimo in quella circostanza narrativa.
    Comunque complimenti Nikki, mi è piaciuto molto questo tuo racconto.
    Ci sai fare sul serio.

  17. Sara,

    che bello tu abbia ‘colto’ il riferimento alla ‘mitica’ Kane!… 😉 🙂 🙂

    Cominciavo quasi a temere che nessuno lo avrebbe fatto, tanto che iniziavo a sentirmi l’ultima estimatrice della grande Sarah sulla terra.

    Mi fa piacere, inoltre, tu abbia trovato il mio ‘omaggio’ pertinente all’ambito del racconto.
    A dirla tutta, è stata in primo luogo proprio una fantastica trasposizione teatrale de ‘La Febbre’ a darmi l’ispirazione iniziale per la scrittura de ‘Due passi nel delirio’.
    Ti ringrazio davvero per l’attenzione e per la gentilezza – nei confronti miei, e della Kane.

    A presto,
    Nikki

  18. per commento userò una frase di von Hofmannsthal (col rischio che citare un tizio dal nome impronunciabile e sconosciuto mi renda immediatamente antipatico), tratta dal Libro degli amici: “La profondità va nascosta. Dove? In superficie.”

  19. Antonello,
    grazie.

    Nel passato un critico cinematografico comparava i pensieri, gli aforismi del ‘Libro degli Amici’ di Von Hofmannsthal – antipatia?… In me, non ne susciti di certo. La cultura e la competenza, solitamente, mi scatenano sensazioni diametralmente opposte 🙂 – al cinema di Rohmer.
    Confesso, tuttavia – e qui sono io che mi gioco la carta dell’antipatia – di non rammentare quel commento particolare perché sono una fan sfegatata dell’autore del ‘Libro’, ma per il fatto che lo sono di Rohmer, di cui apprezzo particolarmente la leggerezza elegante del tocco e l’analisi psicologica dei personaggi.

    In questo senso, mi hai fatto un complimento davvero grande – enorme.

    Avevo già notato alcune tue note puntuali e sagaci, solo che – mannaggia al tempo tiranno: non ce n’è mai abbastanza – non sono ancora riuscita a leggere i brani che i tuoi commenti indicano tra i migliori del concorso.
    Lo farò presto, come cercherò un brano tuo, per reciprocare l’attenzione e la cortesia che hai avuto nei miei confronti.

    A presto,
    Nikki

  20. non c’è di che, Nikki.
    se leggi il mio racconto, una tua opinione non può che farmi molto piacere.

    l’accostamento tra von Hofmannsthal e Rohmer non lo conoscevo, è profondo e molto intelligente. talmente tanto che mi sa un po’ di Bazin, ma non vorrei sbagliare 😀
    sono anch’io un grande fan della nouvelle vague, che ho studiato a lungo quando mi preparavo al dottorato, ma preferisco Truffault e Rivette, filmicamente parlando.

    per il tuo racconto, mi sono buttato sulla citazione essenziale perché altrimenti correvo il rischio di scrivere un papiro di considerazioni: sono innumerevoli gli aspetti del tuo lavoro che mi hanno incuriosito, dal citazionismo, in parte già rilevato, alla stratificazione simbolica che va dalle istanze semantiche profonde alla figurativizzazione dei personaggi e dell’intreccio, appoggiandosi a un topos letterario non proprio facile da maneggiare come quello del doppio (qui ho trovato molto azzeccata la nuance: l’altra è reale oppure no?). per citare un critico cinematografico un po’ più recente (Roy Menarini, la teoria del testo fantasma) nello specchio rotto e il ragno mi è sembrato di percepire l’impalpabile presenza di cronenberg, ma sono abbastanza sicuro che non fosse cercata esplicitamente. comunque, non mi sembrava questo il contesto appropriato per una discussione così da secchioni 😀

    ovviamente, sarei felice, se la cosa ti può interessare, a uno scambio di vedute in altra sede

    a presto

  21. Ciao Nikki,
    è straordinario non conoscersi ma immaginarsi.
    Gioacchino mi ha fatto tanto ridere commentando la mia frase “mi fate paura….” Che dire allora..spero di non incontrarlo di sera, mi bastano i mostri dei racconti!
    Battutine a parte, ottima intesa tra due menti geniali per un racconto che sembra una sonata al pianoforte a quattro mani dal ritmo incisivo e incalzante.
    Bravi insieme e da soli!
    Ad maiora!
    Rita G.

  22. Occielo, Antonello… la tua disamina da critico professionista mi ha messo in crisi – scherzo! 🙂
    Grazie, anzi. Grazie ancora.

    Non ricordo di chi fosse l’accostamento di Rohmer al ‘libro’ di Von Hoffmannsthal e ammetto di saperne certo meno di te a proposito della ‘nouvelle vague’ (un dottorato ce l’ho anch’io, ma in tutt’altro settore, ahimè…).
    Oltre al citato Rohmer, a Truffaut e Rivette (ammetto che quest’ultimo sia quello che conosco di meno, del gruppo), tuttavia, mi piacciono anche Jean-Luc Godart e il ‘rinnegato’ Louis Malle.

    ‘Catturare lo splendore (ma anche le pochezze) del vero’ – è quello che mi riprometto nel di fare nel micro-macrocosmo dei miei personaggi.

    Hai giustamente colto le citazioni – per quanto riguarda il tema del ‘doppio’ (hai ragione: topos estramente difficoltoso da maneggiare – quasi ancora me ne pento) te ne lancio un’altra: per rimanere nella ‘nouvelle vague’, ‘Effetto Notte’.

    A ben scavare, anche Wilde e il suo Dorian Gray; la Shelley col suo Frankenstein. Stevenson, dottor Jeckill e Mister Hyde.

    A dire il vero, trovo che il perbenismo dell’era vittoriana (il trionfo del perbenismo dilagante, in virtù del quale l’apparenza – dietro cui possono essere nascoste malefatte e nefandezze, di ogni tipo, in quella tendenza al compromesso tipica dell’era vittoriana – è fondamentale. Ricorda nulla?…) non si discosti di molto dai conformismi della mentalità odierna – anzi, trovo che vi si avvicini parecchio.
    Ecco perché mi affascina un tema tipica di quell’epoca, quella della creatura che personifica il male riflesso del suo creatore, del ‘mostro dentro’, dello”altro dentro di sé’.

    Fosse anche per un solo istante, nella vita, temo che tutti abbiamo desiderato poter vivere liberamente, in modo impulsivo e selvaggio, di dare sfogo ai nostri istinti animaleschi.

    Verena – senza alcun dubbio uno dei personaggi più complessi mi sia mai capitato di costruire (ancora me ne pento!…) – è un mostro, ma nello stesso tempo non lo è.
    Verena è una creatura libera, indomabile e selvaggia, dedita agli istinti:
    Verena è una creatura detestabile, ma anche debole e indifesa.
    Verena si guarda nello specchio e ne vede uscire una creatura piccola, nera e pelosa, che cresce nello specchio, ma anche nella sua testa.
    Inesorabilmente. (La citazione a Cronenberg, qui, non è in realtà voluta, hai ragione).
    Qualcuno direbbe che Verena è malata.
    Qualcuno la riterrebbe capace di intendere e di volere.
    Io propendo, anche in questo caso, per il doppio.

    Una delle due ‘nuances’ è chiaramente reale; tuttavia, potrebbe esserlo anche l’altra.
    O forse no.

    Il racconto conduce in questa direzione; se ti lascio col dubbio, significa che sono riuscita nel mio intento.
    Perdonami, quindi, se non ti svelo la mia opinione al riguardo. 😉

    Non mi dilungo oltre in questa sede (con discussioni da secchioni rischiamo di diventare noiosi, hai ragione).
    Leggerò il tuo quanto prima, per commentarti non appena possibile.
    Grazie per la stima,

    A presto,
    Nikki
    PS: ‘The Fake’ fa tuttora parte di una raccolta di racconti incentrati sul tema del ‘mostro allo specchio’ – non per niente, dal titolo ‘MonsterVille’: chissà che prima o dopo l’intera raccolta non possa vedere la luce. Dita incrociate 🙂

  23. Rita,
    Gioacchino fa spesso ridere anche me – con quella sua flemma, spesso se ne viene fuori con quelle battute da comico di cabaret (humour tutto inglese, gli dico sempre io), che non ti aspetti. Disarmante. 🙂

    Per proseguire sulla sua linea, ti dico che se lui potrebbe – forse, ma ne dubito – fare paura di sera, io ne faccio di sicuro al mattino, coi capelli arruffati e senza trucco (pur senza giungere agli eccessi di Melissa, con ‘trucco e parrucco’ mi do daffare anch’io… ) 😉

    Fa un certo effetto sapere che qualcuno ti segue con tanta attenzione e tanta stima – una gran bella sensazione, devo dire.
    Riscalda il cuore.

    A presto,
    Nikki

  24. Ricordo che mi avevi fatto leggere “The fake” parecchio tempo fa e mi era piaciuto già allora.
    Certo che hai proposto proprio una bella trilogia di personaggi femminili!
    Dall’arrampicatrice senza scrupoli de “La sonnambula”, alle stronzette pettegole di “True Lies” alla psicopatica di questo “The fake”.
    Questa, però, secondo me, è quella più inquietante, perché riesce a nascondere meglio le proprie attitudini. Sicuramente io la percepisco come la donna più intrigante tra quelle che hai proposto.
    E penso che anche tu la veda così. Significativa, in questo senso, penso sia la tua scelta di fare innamorare di lei il suo psichiatra.
    E’ anche quella più pericolosa, perché nell’immaginario del lettore, perlomeno nel mio, lascia la sensazione di essere una donna che puoi incontrare senza provarne repulsione. Anzi, è una dalla quale puoi anche rimanerne attratto.
    E poi, l’immagine di una donna che, mentre te ne stai steso sul letto, ti pianta un coltello in mezzo alla fronte, credo sia occorsa almeno una volta negli incubi di ogni uomo.
    Hai descritto molto bene alcune caratteristiche del disturbo bipolare, con le fasi maniacali (iperattività, autostima ipertrofica, scarsi freni inibitori), e quelle depressive (rallentamento ideativo e comportamentale, stanchezza, anedonia, disturbi del comportamento alimentare).
    Ritengo che nell’input iniziale del racconto tu avessi pensato a Verena e a Penelope come alla stessa persona.
    Ma, a mio parere, Penny non rappresenta soltanto una proiezione di Verena, come se fosse la sua parte buona. E’ molto di più.
    Rappresenta l’intero percorso della psicopatia di Verena.
    Penelope è tutto quello che era Verena prima di diventare psicopatica.
    E ipotizzo una sequenza di questo genere: Penelope, negli anni, in conseguenza di una seria di esperienze molto negative, cade in una depressione che, col tempo, diventa sempre più grave, tale da trasformarsi in disturbo bipolare. In questo momento diventa Verena. Ormai in preda a una lucida follia, progetta di vendicarsi di tutti gli uomini che, in qualche modo, hanno causato la sua trasformazione psichica e mette a segno i suoi colpi, uno dopo l’altro.
    La scelta, poi, di farle incontrare temporalmente all’interno della storia, credo ti abbia indotto a immaginare il gesto estremo di Penelope e la sua “conservazione” ad opera della sorella, come supremo atto della follia di Verena. A quel punto, per esigenze narrative, le due sorelle dovevano diventare necessariamente due donne distinte fin dall’inizio. E, per renderle diverse ma al contempo legate tra loro, hai pensato all’espediente (ben riuscito) delle gemelle omozigoti.
    Naturalmente questa è solo una mia ricostruzione, ma potrebbe anche non essere corretta.
    E poi, al lettore, è sempre meglio lasciare il tarlo del dubbio.
    Ciò che conta è che, a torta finita, sia venuto fuori un altro bel racconto, che si presta a una doppia interpretazione.
    La prima, a cui ho accennato, descrive la progressione della psicopatia della donna e fa pensare a Verena e Penny come alla rappresentazione, in tempi diversi, della stessa persona. In questo caso, il racconto potrebbe essere anche una specie di rappresentazione onirica, vale a dire la descrizione di un sogno della protagonista.
    Nell’altra ipotesi, Verena e Penny sono effettivamente due donne distinte. Ma anche questa è una chiave di lettura molto attraente ed è dotata di un suo significato profondo: il “personaggio buono” che non ha la forza di opporsi al suo speculare in negativo (la gemella), ma, piuttosto che sentirsi sua complice, decide di spezzare quella loro catena, nell’unico modo che le è consentito.
    Tuttavia, non ritengo sia necessario sapere quale versione sia più centrata. Si tratta di un racconto che coinvolge, appassiona. E questo basta. Non è un trattato di psichiatria e non va letto con lo stesso rigore interpretativo.
    Di sicuro, anche stavolta, hai fornito un’ottima prova di fantasia, padronanza narrativa, capacità di immedesimazione nei personaggi e, aggiungerei anche, buone conoscenze di psicopatologia.
    Ho ancora un paio di considerazioni “tecniche”, forse troppo.
    Ci rifletto ancora, poi te ne parlo. Ma “fuori onda e a microfoni spenti”.
    Adesso devo andare, è arrivata “la mia ora”, quella che ha divertito Rita, quella “tra il chiaro e lo scuro”. Mi preparo ed esco, quatto quatto …

    Giò

  25. Ad Antonello, Donatella, Sara, i miei più sentiti complimenti.
    Vi avevo letti, assaporati e goduti riga per riga.
    Grande merito a voi, e alla giuria che ha colto la bellezza del vostro gesto.

    A tutti gli altri vincitori – Pier Francesco, che non avevo il piacere di avere letto (ma ho rimediato subito dopo la proclamazione: ti commenterò al più presto), e che ho avuto il piacere di conoscere ieri sera all’ultima presentazione dell’antologia dello scorso anno – dico: bravi!… (nell’ambiente verreste ricoperti, parlando per eufemismi, naturalmente, da un bel terzetto di ‘M…a, m….a, m…a!!!’ – che mi astengo dal pronunciare per educazione :-).

    Vittoria meritata, la vostra.

    Vi attende un anno fantastico: un cammino lungo trecentosessantacinque giorni ricco di soddisfazioni personali (perché, come giustamente sostiene una delle co-vincitrici dello scorso anno che non crede ai ‘diari segreti’ -vero, Lucia?…- ogni scritto ti cresce dentro, nasce e poi spinge per trovare la propria collocazione naturale: essere letto e apprezzato), ma anche di natura sociale – le ‘presentazioni’ dell’antologia, oltre a tutto il resto, sono momenti di aggregazione molto preziosi che vi porteranno a incontrare scrittori, ma anche editori, lettori e appassionati del genere che, come voi, condividono una passione che spesso trascende la ragione: tra di essi potrebbero trovarsi persone interessanti con cui, magari, vi andrà di instaurare un rapporto di scambio personale e intellettuale che potrebbe rivelarsi a sua volta impagabile.

    In fondo, perché no, può darsi che dietro l’angolo si trovino ad attendervi soddisfazioni lavorative – per quelli che tra voi della narrazione intendessero fare, il cielo non lo volesse, la propria professione, oltre che naturale aspirazione dell’anima.

    Approfitto dell’occasione per ringraziare pubblicamente Demetrio, la sua costante, cocciuta abnegazione e la dolcezza di Sabrina, i ‘grandi’ dell’organizzazione – novelli Don Quijotes (perdona, Demetrio, ma tra te e Sabrina, le vesti del Sancho della situazione le farei indossare a te, piuttosto che a lei 🙂 della cultura, armati di resta e lancia, impegnati in una giornaliera battaglia, spesso impari, in nome della cultura.
    Confidate in loro: vedrete: si riveleranno impagabili, nel corso dei prossimi mesi.

    In conclusione, meritati vincitori, divertitevi.
    Godetevi appieno questo momento perché un anno passa in fretta – ve lo dice una che ci è passata, che ha partecipato ieri sera all’ultima – fantastica – presentazione dell’antologia dello scorso anno, devo ammetterlo, con uno spirito piuttosto malinconico.

    E poi… a presto ritrovarci, al prossimo (perché – Ha Ha, credevate di liberarvi di me?… Macché!… Non sia mai. La sottoscritta non ha la minima intenzione di non riprovarci – anzi, ho già in mente un bel soggetto per il prossimo anno. Stai in guardia, Demetrio :-).

    Un grande abbraccio, un ‘in bocca al lupo’ a tutti e a presto ritrovarvi.
    Nikki

  26. Grazie Nikki, è stato un piacere scambiare commenti con te e leggere le tue storie. Un abbraccio anche a te e “crepi il lupo”!

  27. Grazie Nikki per le tue belle parole (caspita, oltre ai racconti, pure i tuoi commenti sono piacevoli da leggere!!!). Sono contenta di essere tra i vincitori e devo anche ringraziare una volta in più tutti coloro che hanno letto e commentato i miei racconti. I suggerimenti e le osservazioni attente non sono mancati ed è questa una delle principali attrattive di questo premio.
    Per concludere, nell’ambiente teatrale mi suggeriscono che, oltre al gia ricordato “M….a, m….a, m….a, si prosegue con una pacca sul sedere tra i vari attori…. quindi… pacche virtuali a tutti!!! :-)))
    Silvia

  28. Cara Nikki,
    difficile commentarti per me.
    Difficile trovare parole per dirti perché ti trovo brava (straordinariamente brava!) nello scrivere.
    Ma farò uno sforzo perché mi sembra giusto cercare di motivare l’ammirazione che ti ho già espresso a voce al nostro incontro a Viareggio. E per questo ho chiesto a me stessa COSA di questo racconto (che per altro, in tutta sincerità, appartiene ad un genere letterario che personalmente non amo) mi sia piaciuto tanto.
    Quello che mi sono risposta e che, di conseguenza, ti scrivo (anche se mi scuso in anticipo per il modo scomposto e disordinato con cui lo faccio) è che qui, c’è la tecnica, c’è la padronanza di linguaggio, c’è la pennellata rapida che in due righe (anzi, in una riga e mezzo, dipinge il ritratto dei tuoi personaggi, come quando scrivi: “…sua sorella Penelope era la faccia liscia e lucente dello specchio, lei ne era il retro – il lato oscuro, screziato e variegato della superficie riflettente” – una pennellata da vera Artista questa!), c’è lo srotolarsi delle loro storie magnificamente presentato fra pause e avanzamenti, fra presente e passato, che allarga gradualmente il quadro alla visione d’insieme; c’è la capacità di rendere quei personaggi “vivi” al punto che arriva un momento in cui pare che questi escano dalla tela e prendano corpo iniziando a muoversi davanti ai miei occhi increduli di lettrice; c’è la capacità di attrarmi, fin dalle prime righe, e di farmi entrare nel racconto, con la stessa naturalezza con cui entrerei in mare, e come in quello mi son sentita via via sommergere da un susseguirsi di ondate, di nuovi elementi che ho trovato procedendo passo dopo passo nella lettura; una lettura che, riga dopo riga, mi ha condotta, in un’immersione totale, dalla quale non è stato facile uscire quando ho terminato l’ultimo paragrago; ed anche una volta riemersa, mi è rimasto addosso, sulla pelle, il profumo aspro di questo mare torbido di pazzia, che magistralmente, nelle tue pagine, hai saputo rendere reale.
    Bravissima Nikki!!! Complimenti davvero!

  29. Cara Francesca,
    forse è più difficile per me, credi, trovare le parole più adatte per esprimere la gratificazione di fronte a un’espressione di stima tanto schietta, travolgente, persino, nella sua autenticità quale la tua.
    Ci tenevo alla tua opinione perché ti conoscevo nei panni di autrice di talento, narratore attento e assieme sensibile – una che, al di là dei tecnicismi, arriva dritta ‘dentro’.

    T’immaginavo, oltre che donna piena di talento e di cose da dire, una persona autentica dal cuore colmo di buoni sentimenti – sensazioni, queste, la cui risposta alla realtà ho potuto verificare di persona con piacere, conoscendoti a Viareggio.
    Grazie, grazie, grazie.
    Grazie di cuore.

    Come ho già detto in passato, penso davvero, di là dalla facile retorica, che il compito di un buon narratore sia quello mettersi al servizio della storia.
    Anche – soprattutto – quando è complessa e difficile da raccontare: dimenticando se stesso, se necessario, per far vivere ‘lei’, la storia.
    Sino a dare a infondere ‘Lei’, e i suoi personaggi, di anima, vita e spessore.
    Sino a farli rilucere – tutti, indifferentemente – di luce propria.

    Allora, la tua affermazione che ‘nonostante il genere non sia di tuo gradimento’ il racconto è riuscito a farti calare ‘dentro’ la storia, sino a sprofondarti in un’atmosfera di parole, colori ed emozioni da cui hai trovato difficile riemergere, credo sia il complimento più bello che mi sia mai stato rivolto.

    Ammetto che ‘The Fake’ fosse un brano ambizioso, estremamente complesso – col senno di poi, forse anche troppo: onirico, da una parte – quando pesca a piene mani dentro atmosfere ‘dark’ di ambientazione lievemente barocca, se vogliamo. Infarcito di riferimenti e collegamenti forse un po’ troppo astrusi (le filastrocche sul ‘ragno’, le digressioni sul monologo di Ofelia, il tributo alla lucida ‘Febbre’ di Sarah Kane), dall’altra .
    Nello stesso momento, lucida – per quanto possibile – trasposizione del caotico universo del malato di mente, incoerente e multi sfaccettato, prodotto dal continuo alternarsi di luci e di ombre – da cui, come giustamente rilevi, le pause contrapposte agli avanzamenti, l’alternanza di presente e di passato, delle immagini brutali riconducibili al presente contrapposte ad una vaga nostalgia del passato.

    Nonostante non abbia riscosso grande fortuna, ‘The Fake’ è uno dei racconti cui sono più affezionata, proprio perché è uno dei più complessi in cui mi sia mai cimentata.
    Per questo, il tuo genuino entusiasmo mi fa ancora più piacere.

    Mi hanno spesso domandato se Verena e Penelope siano reali, oppure l’una la proiezione dell’altra. Ovviamente, una mia opinione in merito esiste – quella da cui origina l’idea per il racconto: tuttavia, l’importante non è tanto che le sorelle vivano entrambe una realtà fisica o meno, perché comunque sia – qualunque sia la verità, qualunque la visione del lettore – entrambe si muovono; vivono, parlano, amano. Uccidono, persino.
    Entrambe, dunque, esistono – ma la vita cos’è?… Non è forse vero che ‘siamo tutti fatti della stessa inconsistente sostanza dei sogni, e che la nostra piccola, insignificante vita è circondata dal sonno?’ La nostra vita non è , forse, altro che un passaggio?
    Allora, la mia opinione – che tu hai giustamente colto, anche in questo caso (non che da te mi aspettassi di meno 🙂 – entrambe le sorelle vivono, nella stessa maniera, con uguale impeto.
    Con lo stesso diritto di esistere.
    Non fosse altro, l’una dentro il cervello malato dell’altra.

    Grazie ancora, Francesca.
    Ti auguro la migliore fortuna per il prosieguo della tua carriera letteraria.

    A presto,
    Nikki

  30. Brava Simonetti. La tua è una parola potente. Il ragno e i lati dello specchio: molto molto bello. Mi impressiona l’affinità con la storia dei due gemelli ne “L’uomo del coro”, che hai commentato. Follia e normalità, colpa compiuta e innocenza, Odio e Amore: sono gemelli, come Luce e Buio. Apparentemente opposti. A ben guardare il tema del gemello è uno dei temi fondamentali del mondo in cui esistiamo. Ciò che dobbiamo fare, anche interrogandoci su Verena e Penelope, è comprendere l’Uno di cui sono riflesso. Chi compie il male,anche il male più atroce, libera l’altro da questo peso tremendo e l’altro si dovrebbe inchinare dicendo: grazie. Senza Buio non c’è Luce, l’Odio non è che un Amore malposto, che non trova il suo luogo, il suo fuoco. Questo mi viene in mente leggendo la storia. Lo stile lo ammiro, non ho osservazioni. Un’ultima osservazione: la scelta dei nomi non è mai casuale, per eufonia o significato profondo. Anch’io ho scelto il nome Verena per un pezzo.” Il nome ha origine dal tardo latine, ma sulla sua origine principale ci sono dei dubbi. Secondo alcune ipotesi il nome avrebbe origine dal verbo latino Vereor, assumendo quindi il significato di “colei che teme, pudica, rispettosa”. Secondo altre concezioni assume il significato di “protezione”, a partire da origini germaniche e, in particolare, dal termine War”: ci vedo un senso profondo in relazione allo scritto. Abbracci. CEMF

  31. secondo altra e più semplice ipotesi Verena viene dal latino verum. dunque vedi…:-) CEMF

  32. Fairy,
    colpito, colpito, affondato.
    Acci, hai colto pure il riferimento del nome, tanto di cappello.

    Solo un piccolo, minuscolo particolare non hai notato, e allora te lo svelo io, prima che ti scapicolli: il titolo è l’indizio primario.

    ‘THE FAKE’, leggi ‘il falso/la finzione/il simulacro’, in contrapposizione all’etimologia del nome della protagonista, così come hai giustamente evidenziato (Verena, che si tratti della protettirce, della guerriera, oppure di colei che porta il vero), svela la mia visione delle cose. Ergo?…
    Lascio a te la sentenza.

    A presto, Nikki

  33. ehm prendo tempo ok? non voglio sbagliare madonna.. 🙂 CEMF

  34. no meglio scrivimi tutto e poi io faccio finta di esserci arrivato da solo e la condisco bene, ok? CEMF

  35. ok

  36. Sfida accettata. Invocato iersera Ermete Trismegisto. Colta la Verità solo “facendomi te”, dunque con un transfer completo: “….le gemelle non esistono, non sono mai esistite, se non nella mente malata della povera Verena che è allo stesso tempo protettrice, vendicatrice ma anche vittima, a seconda delle fasi della sua vita. Verena E’ Verena, ma anche Penelope, la proiezione della parte migliore di sé; così come Penelope E’ Penelope, ma anche Verena, la proiezione della parte peggiore di sé – buio e luce, bene e male racchiusi dentro lo stesso uovo.” No non dire nulla. In fede. Cav. Emilio Michele Fairendelli

  37. 🙂

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