Racconti nella Rete 2009 “Due donne” di Fulvia Giannunzio
Categoria: Premio Racconti nella Rete 2009E’ di nuovo mattina, sono di nuovo qui. Tra poco sarai di nuovo di fronte a me, come ogni giorno. Mi ricordo quanto desideravo vederti quando ti ho conosciuta. Quando aspettavo il tuo arrivo e il momento dei tuoi brevi racconti come una pausa leggera di felicità.
Non è più così. Eppure ogni volta ti apro la porta, ti lascio entrare. So che tra poco comincerai a parlare. A parlarmi di lui. E le tue parole mi si infileranno come aghi nelle orecchie, negli occhi, nelle mani.
Questo posto era il nostro spazio, mio e suo. E’ una stanza tutta bianca, anche i mobili sono bianchi. Sembrano ancora più bianchi di mattina, sotto il sole che entra dalla finestra e illumina il tavolo. Le piante sono morte. Le ho buttate, sono rimasti i vasi vuoti, allineati lungo la parete.
Vengo qui ogni giorno. Ho continuato a farlo anche senza di lui. Mi porto da leggere, ma non lo faccio quasi mai. Sto seduta immobile sulla sedia, guardo fuori dalla finestra e do le spalle alla porta chiusa. Sento bussare nello stesso modo in cui bussava lui. Invece sei di nuovo tu.
Eccoti, stai entrando dalla porta. Sorridi e pieghi un po’ la testa da un lato. Mi saluti. Non mi chiami più col mio nome.
Io non ti parlo mai, parli sempre tu. Cominci sempre col parlare di cose piccole. E poi mi parli di lui.
Ogni volta che lo nomini mi stringo le braccia al petto. Cerco di chiudermi in un nodo in cui le parole non riescano ad entrare. Eppure entrano sempre, da qualche parte trovano un varco, entrano e fanno male. Ti lascio fare. Non ti dico mai di non parlare. Non smetto di ascoltare. Stringo le dita fino a lasciarmi addosso dei segni. Ogni volta più duraturi.
Sulla mia pelle ormai non ci sono segni diversi da quelli che mi procuro da sola, non c’è più traccia di lui. Nella mia mente ha smesso di avere un viso, un corpo, un odore. Non li ricordo più. Lui è solo nelle parole, e le parole sono solo tue.
Ti osservo. Hai i capelli spettinati, separati in ciocche appiccicate l’una all’altra. Sei pallida, intorno agli occhi chiari hai dei piccoli cerchi rossi. Hai indosso un maglione largo, verde, un paio di pantaloni un po’ informi e le scarpe da ginnastica. Ti osservo e mi chiedo che cosa lui abbia amato di te, prima di ricordarmi che anch’io ti amavo. Avevo avuto i suoi stessi desideri. Stare nel tuo nido. Nel vapore della tua cucina. Stare avvolta in una tela di parole calde. Stare nel tuo mondo piccolo dai confini stretti. Far scivolare le mie dita sui tuoi capelli e sul profilo del tuo naso. Volevo essere una pioggia di goccioline, potermi posare sulla tua pelle bianca. Volevo addormentarmi avvolta nel tuo calore. Tutto senza scosse, come il tuo modo di parlare sempre calmo. Parlare di poco, di niente, solo per sentire il suono della tua voce, le sue inflessioni, i punti delle frasi in cui abbassi il tono, quelli in cui ti appoggi sulle parole. Cercavo il tuo sguardo, sapevo che vegliavi su di me, che mi proteggevi. Ero innamorata della tua quiete. La tua trasparenza era perfezione. L’immobilità, l’assenza di mutamento. Tu diventavi impalpabile, quasi invisibile.
Volevo ritrovare l’innocenza nei tuoi occhi, immaginare una seconda giovinezza. L’abbiamo desiderata entrambi, lui ed io. Nessuno di noi due l’ha avuta.
Attraverso di te ho iniziato a vedere lui. E lui ha visto me. Abbiamo steso le mani l’uno verso l’altra attraverso di te. Tu eri lì, hai guardato le nostre dita che si tendevano le une verso le altre, lentamente, senza sfiorarsi, ma si cercavano. Restavano vicine. Le nostre mani attraversavano il tuo corpo. Il tuo sguardo mi bruciava le dita. Hai ascoltato le nostre parole che si avvolgevano come spirali di fumo. Parole come carezze, come saliva. Tu non dicevi niente.
Te ne sei andata. Siamo rimasti soli. Camminavamo per notti intere senza smettere di parlare, senza più toccarci. Faceva freddo.
Lui. Il tuo uomo. Il tuo uomo prima di me, dopo di me. Ci siamo trovati con sorpresa. All’inizio i corpi erano quasi un ingombro, li coprivamo di parole anche facendo l’amore. Poi le parole sono diventate mani, lingua, gambe, piedi. Non c’eravamo che noi, i nostri odori, il sesso ogni volta più intenso. Il sapore della sua pelle, il suo respiro nelle orecchie. I suoi occhi che mi guardavano, io che mutavo forma dentro il suo sguardo. Le mie mani scorrevano su di lui, sui pieni e i vuoti, sulle striature della sua pelle. Entravano nel suo corpo, lui frugava il mio. Vedevo i suoi tremiti, i suoi timori. Sudati, incollati per ore. Un amore di naufraghi. Profondo, infinito e senza speranza. Finito senza preavviso e troppo bruscamente come sbattuto sugli scogli.
Quando lui se ne è andato tu hai ripreso a vivere e a parlare. Lo hai fatto lentamente, quando è cominciato il suo silenzio sono cominciate le tue parole.
Allora è questo essere una coppia. E’ la capacità di cogliere il rimbalzo senza pause, di sapere quando l’altro smetterà di parlare e prendere il suo posto. Tu hai colto il suo rimbalzo e hai ripreso il tuo posto come se niente fosse, come se non lo avessi mai lasciato. Io ho perso il ritmo, la corsa.
Lui non c’è più, tu ci sei ancora. Ogni giorno sono qui, ed ogni giorno tu arrivi e mi parli di lui. Mi racconti ogni particolare della sua vita, ogni minuto della sua giornata. Mi dici come sta seduto al mattino, i gomiti appoggiati al tavolo della cucina, la testa sulle mani, come tossisce, quello che mangia. Ti guardo mentre mi parli, e penso che sai, che senti come ogni parola combacia con la mia mancanza, con il vuoto che c’è in me. Ti guardo mentre muovi delicatamente il coltello nella mia ferita, e penso che mi basterebbe così poco. Apro le labbra secche, le inumidisco con la lingua, mi schiarisco la voce con un colpo di tosse.
“La sua pelle è coperta di piccoli buchi, come mille tracce”.
Conosco la sua pelle, posso descriverti il disegno del suo torace. Conosco i diversi sapori di ogni parte del suo corpo. Le sue cicatrici. Parlami di questo. Raccontami il suo corpo, dimmi com’è cambiato.
Basterebbe dirti questo e smetterei di soffrire. Tu cominceresti.
Ma non lo faccio. Non voglio vederti soffrire. Sembri una ragazzina. Ti ascolto in silenzio. Resto immersa nel fluido denso delle tue parole, ormai non sei più trasparente, sei diventata uno stagno scuro e cerchi di tirarmi dentro, io resto ferma e ti lascio fare. Aspetto il momento in cui smetterai di parlare e mi toccherai. So che lo farai.
Ogni giorno tu mi abbracci. Anche sul mio corpo vi cedete in passo senza perdere il ritmo. Mi mancano le sue mani, o forse le tue. Non riesco a capire la differenza, non la sento più.
Mi abbracci. Sento il tuo odore di fiori delicati. Mi stringi, quella stretta mi da’ un gusto dolce nello stomaco, come una caramella. Il mio corpo non si sottrae. Entro tutta nelle tue braccia piccole, affondo il viso nel tuo collo. Tu mi carezzi la schiena, lentamente, in modo irregolare. E’ bello.
“Mi mancano le sue mani”, ti dico. Lo dico solo nella mia testa, senza voce. Tu non mi senti, ma cominci a passarmi i palmi delle mani sulla schiena formando dei cerchi, ogni cerchio premuto un po’ più forte. Si, così. Mi carezzava così. Circondava un punto al centro della mia schiena, creava un vortice. Mi ritrovavo stretta attorno a un punto. Mi manca il suo corpo, mi manca la sua voce. Vorrei dirtelo. Vorrei chiederti che cosa dice adesso, che cosa si ricorda, quali cose ha dimenticato. So che vorresti consolarmi. Se potessimo superare quest’ultimo velo. Tu, io, potremmo. Ma non lui. E’ per lui che non diciamo la verità, per non togliergli il respiro. Continuiamo questa danza, in silenzio.
Nella stanza si sente il rumore del vento che soffia. E’ come un mugolio. Soffia una voce troppo ampia in uno spiraglio piccolo, come chi ha troppo da dire e non riesce. Il suono diviene un lamento, il mio. Mi stringi a te. Chiudo gli occhi, cullata nelle tue braccia. Potrei ferirti. Potresti uccidermi. Respiro nel tuo collo, sento la tua vena che mi pulsa sul viso. Tu continui a stringermi. Ci scambiamo il calore, ci scambiamo il corpo. Le cellule dei nostri corpi si scambiano memorie. Stiamo strette, ondeggiamo, mentre il tempo passa diventiamo un’unica cosa, un’unica donna, e tutto il resto sparisce.
Avevo letto l’altro racconto, Se mi guardassi ora, e ho divorato quest’altro. Le immagini ti trapassano. Scrittura meravigliosa, molto potente, fisica e densa. Ancora complimenti.
Graffia. Lascia la cicatrice. Uno dei pochi.
Sono d’accordo con chi ha già commentato. Come per l’altro racconto pubblicato, l’autrice scrive benissimo, dipinge atmosfere intense e coinvolgenti. Molto femminile. Segnamoci il nome di Fulvia Giannunzio, ne sentiremo parlare.