Premio Racconti nella Rete 2012 “La guerra di Peter” di Hottario
Categoria: Premio Racconti nella Rete 2012Nonostante il caldo e la vicinanza , il capitano si chinò e gli gridò vicino all’orecchio:
“Piero non devi mai fermarti, devi continuare, continuare a sparare fino all’ultima cartuccia. Hai capitooo ?”
Piero, sollevando la guancia dal moschetto, annuì con la testa.
Lo fece serrando ancor più la bocca, per non offrire alla fine sabbia portata dal ghibli, un apertura.
Poi, il Capitano, si alzò in piedi sfidando quel turbinio di aria e polvere, che s’infilava dappertutto e rivolgendosi a tutta la squadra, alzò il tono della voce al limite delle capacità delle corde vocali, ed urlò: “ Anche se doveste essere feriti dovete continuare, continuare a sparare perché gli inglesi non fanno prigionieri! ”
Era l’ennesima esercitazione di tiro alle sagome.
Sagome improvvisate, piantate nella sabbia del deserto libico, alla periferia di Tobruk con la solita esortazione, per corollario, a fare quello per cuila Patriali aveva spediti prima al confine conla Francia, sulle montagne di Ventimiglia e poi in Libia: cioè a sacrificare la propria giovinezza e probabilmente la propria vita per uccidere il maggior numero di nemici.
Ventimiglia era stata una pacchia.
Nemmeno uno sparo di fucile, solo qualche colpo d’obice. Una specie di campeggio.
Montagne verdi con torrenti pieni d’acqua.
Aria fresca, profumata di salmastro e di macchia mediterranea, che saliva dalla costa.
Senza preavviso, come un tuono d’estate che preannuncia la tempesta, fu ordinato al Reggimento di preparare in fretta e furia armi e bagagli per raggiungere immediatamente Napoli per imbarcarsi con destinazione il fronte libico di questa seconda grande guerra, che vedeva fronteggiarsi in nord Africa, gli Inglesi contro gli Italiani ela Germania.
Inutilmente Piero chiese e supplicò un permesso di poche ore per fermarsi lungo il viaggio a Firenze, giusto il tempo strettamente necessario per incontrare la madre prima del trasferimento nelle lontane e sconosciute terre d’Africa.
Inutilmente raccontò le sofferenze di Elvira, la madre, ch’era rimasta vedova mentre attendeva una figlia, quando lui aveva 4 anni ed il fratello ne aveva compiuti la metà.
Inutilmente spiegò ch’era l’unico figlio convivente, visto che per ragioni di sopravvivenza il fratello, quindici anni prima, era stato affidato ad uno zio che abitava lontano e la sorella ad un collegio di orfane presso le suore vicino alla chiesa di San Gervasio e Protasio a Firenze.
Piero non voleva disertare.
Piero voleva solo salutare la madre prima di andare in Africa a sparare ed essere sparato.
La negazione del permesso gli sembrò un’inutile crudeltà.
Seguì il suggerimento del cuore.
Alla stazione fiorentina di Santa Maria Novella scese dal treno, abbandonando i suoi compagni d’armi.
Li salutò così: “Ci si vede domani, a Napoli” .
Corse a casa a salutare la “su’ mamma”, a mostrarle, che godeva ottima salute – a farle coraggio – a raccogliere
le ultime notizie riguardanti il fratello e la sorella. Quasi sconosciuti per lui.
Dopo solo sei ore, era di nuovo sul treno per raggiungere il suo Reggimento a Napoli.
Il comandante sentite le ragioni di Piero gli confessò, che personalmente non lo biasimava, ma come Ufficiale del Regio Esercito doveva affibbiargli 30 giorni di cella di rigore da scontare una volta raggiuntala Libia.
L’anima gli sorrideva dentro.
“Un prezzo assai conveniente” pensò Piero, con gli occhi assorti e rivolti verso il pavimento.
Un mese dopo l’ultima esercitazione, l’esercito britannico, sconfinando dall’Egitto, entrò in Libia ed attaccò la cittadina di Tobruk.
La moderna artiglieria nemica colpiva le postazioni italiche senza che queste potessero contraccambiare.
I cannoni a disposizione delle truppe dei Savoia & Mussolini erano costituite da residui italiani e asburgico della guerra del 1915/1918.
Piero sparò e fu sparato. Fu ferito ad una gamba.
Dalla ferita usciva molto sangue e partivano dolori lancinanti.
Si trascinò per alcuni metri, cercando un riparo migliore.
Dalla feritoia della nuova postazione osservò l’avanzata dei carri armati britannici, notando la loro grande dimensione.
Con grande sorpresa vide, che sul retro montavano dei bidoni da200 litrimuniti di rubinetti e ricolmi di thè a disposizione delle truppe terrestri a seguito.
Era sconvolto per l’abbondanza di mezzi degli avversari.
Si convinse, che non c’era mai state speranze di vittoria per gli Italiani.
Poi prese atto di non avere alcuna possibilità di fuggire.
La battaglia e l’onore erano perduti e lui stava per perdere la vita.
Stramaledì chi lo aveva ingannato con la propaganda sulla giustezza della guerra, chi lo aveva truffato sulla superiorità italica e sulla certezza della vittoria.
Le parole urlate dal comandante gli rimbombarono nella testa: “… devi continuare, continuare a sparare…… devi continuare, continuare a sparare… … devi continuare, continuare a sparare… ”
Il dolore lancinante della ferita scacciò quelle parole che adesso gli sembrarono assurde.
Rassegnato e piangendo a dirotto, smise di sparare e gettò fucile e munizioni da una parte ed attese che il suo destino si compisse.
Pensò alla sua giovane vita, che stava per concludersi.
Pensò alla madre, che sola a casa l’attendeva.
Pensò al padre perduto troppo presto a cui, ogni notte, rivolgeva una pensiero prima di coricarsi.
Pensò al fratello, che tanto aveva desiderato di conoscere.
Pensò alla sorella rinchiusa dalle suore.
Pensò alle donne che avrebbe voluto amare e che non aveva ancora avuto il tempo d’incontrare.
Ricordò i compagni di baldorie e risate che a 18 anni lo avevano trascinato a Firenze nella “Casa chiusa” vicino al mercato di Sant’Ambrogio.
Fu in quella occasione che gli amici lo ribattezzarono Piero, smettendo di chiamarlo Pietro, come invece era stato registrato all’Anagrafe del Comune.
Pensò alla famiglia, che avrebbe potuto avere.
Poi s’accasciò e sommessamente e con un filo di voce rotta dai singhiozzi, alzò lo sguardo al cielo, implorò: “Babbo aiutami”.
Giunse l’ultimo carro armato, seguito da una nuvola di polvere e sabbia, dalla quale all’improvviso apparve la fanteria britannica
Un soldato, armato di fucile, si staccò dal gruppo che si proteggeva dietro il carro armato, e a passo di mezza corsa lo raggiunse.
Si fermò di fronte a lui e calmo l’osservò.
Piero, stremato dalla ferita, che aveva sparso molto sangue, era disteso al suolo sconvolto dalla consapevolezza della fine, che l’attendeva.
Un groppo di nervi gli aveva la bloccato la gola.
Tremante, con gli occhi terrorizzati, invocò con un filo di voce il nome d’Ernesto, suo padre, morto quando lui era un bambino di quattro anni.
Un dolore acuto gli risalì il braccio sinistro raggiungendo il cuore.
D’istinto, ansimando portò il palmo della mano destra sul cuore, come per proteggerlo da quel dolore acuto.
Fu in quel preciso momento che il soldato alzò lo sguardo e lo fermò verso l’orizzonte.
Poi con calma liberò una mano dal fucile e cominciò a frugarsi nelle tasche del giubbotto militare.
Piero pensò, che cercasse il revolver per finirlo comodamente ed economicamente con un proiettile di pistola.
Ma, con sua grande sorpresa e incomprensione, il soldato nemico estrasse, da una tasca, un pacchetto di sigarette.
Sempre con calma, il soldato aprì il pacchetto delle sigarette, ne sfilò una e posandosela tra le labbra l’accese, strofinando con un gesto secco il fiammifero sul fucile.
Aspirò profondamente con gusto, trattenne il fiato e lentamente espirò una nuvola di fumo profumata di tabacco.
Piero terrorizzato, con il cuore che gli doleva e gli pulsava in gola come impazzito, seguiva ogni gesti del britannico con brevi e precisi scatti degli occhi.
Gli sembrò che il tempo si fosse bloccato.
Pensò che quel “bastardo” d’inglese, che prolungava l’esecuzione, fosse un vero sadico e lo facesse con il solo scopo di farlo patire maggiormente.
Ma il fante nemico, sempre con calma, prese con una mano la sigaretta appena accesa, mentre con l’altra sosteneva sempre il fucile.
Si chinò verso di lui e abbozzando un leggero ma sincero sorriso gli appoggiò la sigaretta sulle sue labbra.
Poi si voltò e come era giunto si allontanò con il solito passo di mezza corsa.
Era accaduta la cosa più inaspettata, il fatto più incredibile ed inconcepibile, per Piero.
Impossibile descrivere le emozioni ed i sentimenti, che provò in quegli istanti.
Il terrore era svanito.
Sostituito da un insieme di sentimenti contrastanti, quali: sorpresa, perché non capiva per quale ragione quel soldato nemico non l’avesse ucciso, come gli avevano detto con insistenza i suoi superiori; un’enorme gioia, per essere ancora vivo, ed alla fine amarezza e una grande rabbia per essere stato ingannato dai suoi superiori.
Un lampo di luce gli illuminò la mente, facendogli comprendere, senza l’uso di vocaboli e concetti, quanto fosse crudele ed assurda la guerra.
Alla fine la gioia si trasformò in un pianto liberatore.
Il dolore acuto al cuore era scomparso.
Il gesto del soldato lo aveva salvato bloccandogli miracolosamente l’infarto miocardico in atto.
Arrivò l’ambulanza dell’esercito britannico.
I portantini lo caricarono con cura e lo trasportarono all’ospedale da campo.
La gamba ferita era gonfiata ed aveva un brutto aspetto.
Gli misurarono la temperatura corporea, la febbre era salita a 41 e mezzo.
I dottori diagnosticarono una cancrena e per salvargli la vita, gli prospettarono l’amputazione dell’arto.
Piero si oppose disperatamente, dicendosi sicurissimo che la febbre era dovuta alle emozioni vissute quel giorno e non alla cancrena.
I medici non lo ascoltavano e ordinarono agli infermieri di preparare i ferri per un amputazione.
Piero terrorizzato, s’immaginò a casa, senza una gamba, al lavoro, a camminare per il paese appoggiandosi ad una stampella.
Decise che non voleva una vita senza una gamba.
Si mise ad urlare minacciando di uccidersi, qualora gli avessero amputata la gamba.
Il tono usato per la minaccia, convinse i medici inglesi e all’italiano, nonché prigioniero di guerra, gli fu somministrato straordinariamente, un nuovo farmaco in sperimentazione, riservato ai soli soldati britannici: la penicillina.
Furono concesse 12 ore di tempo per controllare l’azione del farmaco e qualora l’esito fosse stato negativo i dottori avrebbero proceduto al taglio dell’arto comunque.
Questa fu la proposta e Piero l’accettò.
La penicillina lavorò per tutta la notte e dimostrò, che non era la cancrena la causa dell’altissima febbre e del gonfiore della gamba, infatti la mattina successiva la febbre era calata a 37 e la gamba si sera sgonfiata.
Piero si commosse per la consapevolezza che per la seconda volta, in un paio di giorni, aveva avuto salva la vita.
Lo imbarcarono a Port Said su un bastimento di prigionieri di guerra e percorse il Mar Rosso.
Entrato nell’Oceano Indiano, approdò in Sud Africa, dove soggiornò per alcune settimane, ironia della sorte, nel campo prigionieri di St. Petersbourg.
Terminò la circumnavigazione dell’Africa su un’altra nave, vomitando anche l’anima, quando il bastimento a causa del mare grosso ondeggiava di beccheggio e di rullio.
Sbarcò in Inghilterra e fu internato in un Campo di prigionia alla periferia di Londra.
Il quindicesimo giorno mancò di rispetto ad un sottufficiale del Campo, beccandosi 30 giorni al’ “Hotel Bristol”.
Così veniva chiamato ironicamente il carcere, dal personale di sorveglianza del Campo.
La cella la condivise con un renitente alla leva britannico e Peter fraternizzò subito con quel ribelle. Ribelle.
Incuriosito dalla presenza di un suddito di Sua Maestà, si rivolse al compagno di cella chiedendogli il motivo della sua renitenza.
L’uomo si dichiarò di nazionalità scozzese e “papista” e conseguentemente, aggiunse, gli restava simpatico Mussolini.
Gli anglicani chiamavano “papisti” i cattolici romani.
Dopo una pausa di alcuni secondi trascorsi a fissare il pavimento, confessò di aver già combattuto una guerra, la prima guerra mondiale e aggiunse, che non gli era piaciuta.
A cinquant’anni, l’avrebbero destinato alle retrovie, probabilmente in una posizione tranquilla e senza rischi, ma lui non voleva essere corresponsabile di una nuova carneficina e si era nascosto per non essere arruolato.
Gli sembrò più veritiera la seconda risposta.
Il secondo giorno, lo scozzese chiese a Peter di aiutarlo in una certa faccenda.
Se lo avesse aiutato avrebbe avuto i suoi vantaggi.
“Ed i vantaggi in che cosa consistono?” chiese Peter.
E lo scozzese cattolico: “una scatola di buon tabacco della ditta scozzese George Dobie & Son ed una fetta di dolce con la glassa di zucchero sopra”.
In quel tempo, il tempo della seconda guerra mondiale, la glassa di zucchero era un lusso, un lusso anche per i fortunati sudditi metropolitani di Sua Maestà Britannica.
Il “papista“, prendendola larga, iniziò a spiegargli, che nel Regno Unito quasi tutti gli uomini giovani e validi erano a fare la guerra in giro per il mondo, lontani da casa.
In quella situazione i maschi adulti, erano pochi e questi ultimi, anche se poco prestanti, potevano scegliere.
Le donne erano infelici. E quelle meno attraenti molto infelici, disse il “papista”.
“ E allora?” chiese Peter e proseguì ironicamente: “ma noi siamo in galera, che possiamo fare?” .
Il compagno di cella con voce bassa e concitata lo informò, che il comandante del loro braccio del carcere, era una donna con il grado di sergente.
La poveretta, disse, era molto grassa e molto sola, per cuila Sergentedue anni prima gli aveva proposto di fare sesso con lei in cambio di tabacco e fette di torte che cucinava lei stessa a casa.
Lo scozzese, sorridendo, affermò che aveva accettato la proposta, ma aggiunse: “adesso ho cinquant’anni, non ho più ne il desiderio, ne la forza per incontrarla due volte a settimana” dopo una pausa, aggiunse seriamente: “se mi sostituisci, faremmo a mezzo del tabacco e delle fette di torta con la glassa, accetti?”
Peter era rimato basito da quella confessione e ancor più da quella proposta.
S’immaginòla Sergente.
Erano due anni che non faceva sesso.
Pensò al tabacco.
Erano 18 mesi che non fumava.
Pensò alla fetta di torta.
Erano anni che non mangiava torte.
In Italia, a casa, per lui e la madre la torta farcita e glassata era un lusso che si permettevano solo a Natale.
Peter valutò i rischi, ad una eventuale trappola, ma subito si tranquillizzò dicendosi: “sono prigioniero di guerra ed in galera, che altro può capitarmi?”
Ed accettò.
Tutto si svolse come aveva previsto lo scozzese.
La Sergentesi materializzò all’imbrunire, con il cambio delle guardie.
Era grossa, un donnone di circa180 centimetri. con delle braccia grandi come le sue cosce, pensò Peter.
I capelli biondi erano nascosti nel cappello d’ordinanza.
Durante l’incontro in cella e il cammino nei corridoi del carcere, la donna mantenne il solito comportamento militare: sguardo impersonale, glaciale, a volte minaccioso, movimenti bruschi.
Una volta entrati nella sua cameretta minacciò Peter di non dire mai niente a nessuno di quello che stava succedendo e iniziò a spogliarlo.
Lo spogliava come farebbe una madre un po’ burbera con il proprio figlioletto.
E Peter , metà intimorito e metà eccitato, si fece spogliare.
Fu nel momento della denudazione del prigioniero, che avvenne la metamorfosi del donnone.
Gli occhi del Sergente diventarono rotondi, s’inumidirono per desiderio e sensualità.
I gesti del corpo e delle mani divennero più armoniosi, il tono della voce dolce e femminile.
Poi si spogliò anche Lei,la Sergente.
Il torace ed il fondo schiena erano esagerati, rotondi e bianchissimi: assomigliava ad una Dea Madre paeolitica.
Anzi era la regina delle Dee Madri.
Le braccia erano grandi come le cosce di Peter.
Peter si riempì occhi e mani di quel corpo così procace.
A fronte di tanta abbondanza, si convinse che il Cielo, dopo avergli salvata la vita e la gamba, adesso lo volesse ripagare, con una donna sola, di tutte le donne non incontrate a causa della guerra.
Erano due anni, settecento e trenta giorni e settecento e trenta notti, che Peter soffriva l’astinenza.
Il primo tentativo fu come una battaglia di Rommel: una guerra lampo.
Subito e senza problemi ricominciò a muoversi per la seconda volta.
Con calma e metodo, regolando il respiro, per allentare l’eccitazione.
Nonostante la singolarità della situazione gli ritornò in mente il fante di Tobruk, che gli aveva offerto la sigaretta.
Come le altre volte si commosse e lo ringraziò con la mente.
Poi ritornò alla realtà, appena in tempo per accorgersi che la donna era completamente in preda alla sua emotività.
Peter si rese conto che era diventata una protesi del suo corpo.
Al culmine dell’evento, iniziarono ad uscire dalla gola della Sergentona, suoni flebili ed ansimanti.
La parte cosciente di lei riprese per un attimo un pò il sopravvento.
I suoni si fecero più chiari e si articolarono in parole: “ … please dont stop… dont stop… go on …. go on… Peter…. ”.
La visione di quel corpo rotondo, burroso scosso dagli spasimi dell’amplesso non abbandonò l’immaginario di Peter per il resto della sua vita.
Non stò a descriverti caro lettore, l’allegria, la gioia e la soddisfazione in quella cella de l’ “Hotel Bristol“.
Era stato un giorno pieno di positività, ma prima d’addormentarsi un dubbio assalì Peter.
Si domandò se tecnicamente si fosse comportato come quelle prostitute del casino di Firenze.
Il dubbio fu subito scacciato.
Sarà stato per l’astinenza, sarà stato per il contesto, ma quel donnone l’aveva stregato.
Gli piacevala Sergente.
Avrebbe fatto sesso con Lei anche senza la ricompensa del tabacco e delle fette di dolci con la glassa. Non si sentì un prostituto.
Prima di abbandonarsi felice a Morfeo, si disse tra se e se “che bella, la vita“.
Dormì felice come un bambino nel letto tra il suo babbo e la sua mamma.
La settimana successivaLa Sergenteinvitò Peter per tre volte nella di Lei dependance.
Senza che fossero state richieste, le razioni di tabacco e di torta glassata aumentarono, con grande soddisfazione dei due carcerati.
Finiti i 30 giorni di punizione, Peter dovette, nonostante il suo desiderio, lasciare l’ ”Hotel Bristol”
Il distacco dalla giunonica Sergente non fu accettato facilmente.
Lo scozzese dovette parlare molto per convincerlo a non fare opposizione.
Grande fu il dispiacere per la perdita dell’amico scozzese, del buon tabacco e delle superbe fette di torta.
Una volta fuori dal carcere non si dette pace, finché lo stesso pomeriggio aggredì una guardia del Campo per farsi riportare in carcere.
Le cose non procedettero secondo la logica.
L’atto gli valse solo diverse manganellate sul groppone e il trasferimento coatto a Bristol, non l’ “Hotel Bristol“ ma la città di Bristol, nel Galles.
Addio alla tanto amata sergente al suo procacissimo e voluttuoso corpo.
Addio al buon tabacco della George Dobie & Son.
Addio alle fette di torta con la glassa.
Addio all’amico scozzese.
Ora l’aspettava il Galles.
Chi sa che cosa gli stesse organizzando il Destino, si chiese.
Poi il pensiero ritornò a quel fante della sigaretta e si domandò dove si trovasse e facesse in quel momento.
Quando ero piccolo, mio padre mi raccontava l’episodio del suo ferimento e del gesto di grande compassione umana fatto dal fante britannico, gesto che lo salvò da una certa morte da infarto.
Lo raccontava con partecipazione emotiva, gli si inumidivano gli occhi, per i forti sentimenti, che i ricordi gli facevano emergere dal profondo dell’animo.
Solo quando raggiunse la vecchiaia, ed io la maturità, Peter accantonando il pudore, mi confidò con rispetto, l’incontro con la prosperosa e bisognosa Sergente.
Pensai: “Cribbio, vecchio Peter non l’hai ancora dimenticata ! “
Un racconto coinvolgente ed ironico al punto giusto: sarebbe perfetto per una trasposizione cinematografica. Complimenti!
racconto molto visivo, stile story telling di scuola americana oserei dire, con un’ironia di fondo davvero ben modulata. bel lavoro.
Commossa quando Peter scappa per andare dalla mamma, sofferente quando teme per la propria vita, rilassata quando assapora il gusto del tabacco.
Coinvolgente.
PIETRO, nonno straordinario.