Premio Racconti nella Rete 2012 “La voce del silenzio” di Francesca Costantini
Categoria: Premio Racconti nella Rete 2012“Dio… quanto mi manca” – mormora a testa bassa fra sé e sé.
Quasi non riesce a crederci di poterla finalmente riascoltare.
Eppure, in questo parco defilato dal traffico cittadino in cui viene ogni giorno, oggi, è tornato a sentirla.
“Se solo potessi godermela in santa pace per un po’, senza questa maledetta spada di Damocle”.
“TONINO STAI TRANQUILLO: ARRIVO SUBITO!”- grida la spada dalla stradina sterrata adiacente, dove ha appena raggiunto l’auto di un’amica con la quale ora ha iniziato a chiacchierare gesticolando vistosamente.
“Ecco! Come non detto: io me starei tranquillo sì, se solo tu restassi lontana. Pregherei perché non tornassi più. Se fossi sicuro di ricordare come diavolo si fa. Ma non posso certo perder tempo ora: chissà quando mi ricapita d’avere qualche minuto di grazia!”.
Chiude gli occhi tentando di risentirla, ma è costretto, per prima cosa, a filtrare la voce squillante di Zora, che non è sufficientemente lontana per scomparire. Facendolo riesce a focalizzarsi su un’altra voce, assai più gradevole, quella di un merlo; riapre gli occhi e lo vede saltellare euforico sopra di sé, fra i rami d’un pesco da cui tentano di far capolino piccoli boccioli di fiore. Vedendoli gli torna in mente il frutteto di sua zia, e quella primavera di una settantina d’anni prima, in cui vi era stato per la prima volta.
“Tua madre deve ricoverarsi per un intervento; tu andrai per un mese in campagna da zia Anita che si è offerta di prendersi cura di te. Non farmi fare brutta figura: non dare impiccio e non fare capricci, ormai sei un ometto. D’accordo Antonio?” – così l’aveva informato di quel viaggio imminente, in modo perentorio suo padre, rivolgendosi per la prima volta a lui senza usare il diminutivo “Tonino”.
Con i suoi sette anni appena compiuti, era rimasto scioccato dall’annuncio di quel ricovero, ma non voleva certo tradire la fiducia che il padre aveva riposto in lui. Quindi, nonostante fosse spaventato sia dall’ospedale che dalla casa della zia, che erano due posti a lui totalmente sconosciuti, in quella lontana mattina d’Aprile, insieme allo zainetto, si caricò sulle spalle anche il peso di quel “D’accordo Antonio?”. Partì senza fare storie, tenendosi per sé il nodo che sentiva in gola. Certo non s’aspettava che gli si sarebbe sciolto tanto presto, quasi per incanto, alla vista della distesa di peschi in fiore che gli balzarono incontro all’arrivo alla tenuta di campagna. Fu subito rapito dai colori e dai profumi di quel luogo, totalmente diversi da quelli della città in cui viveva, ma nella quale, si rese immediatamente conto, di non essersi mai sentito “a casa” come invece lo era lì. Non perdeva occasione per starsene in mezzo a quegli alberi così pieni di vita, talmente diversi dai sempreverdi urbani; e di tempo ne ebbe, poiché la madre dovette trattenersi in ospedale più del previsto, perciò li vide sfiorire e poi coprirsi di succulenti frutti. Saverio e Sante, i suoi cugini, gemelli di otto anni, spinti dalla zia, tentavano ogni tanto di coinvolgerlo nelle loro chiassose scorribande giù per la collina: “Tonino, dai vieni con noi! Andiamo a tirare sassi al laghetto” – oppure – “Andiamo a giocare a pallone”. Ma, dopo aver trascorso qualche pomeriggio in loro compagnia, aveva concluso che tutta quella confusione non faceva al caso suo. A lui piaceva passeggiare in silenzio fra gli alberi, scoprendo l’universo di minuscoli insetti che li abitavano; o restarsene seduto per ore, ad ascoltare le mille voci che popolavano quella campagna: quelle dei grilli, delle cicale e di tutti gli uccelli i cui versi aveva imparato a distinguere, uno ad uno; persino quello dell’anatra muta, avvedendosi, contrariamente ai suoi cugini, che, a dispetto del nome, del tutto muta non è, e di tanto in tanto emette una sorta di soffio. E nel frattempo aspettava; aspettava pazientemente quei rari momenti in cui il coro taceva, per poter ascoltare ciò che amava sopra ogni altra cosa: la voce solista del vento. Quella che, insinuandosi fra le foglie del frutteto, produceva un suono unico: talvolta delicato e rassicurante come la madre, altre vigoroso e sferzante come il padre. Ma, in ognuna delle sue infinite sfaccettature, sempre l’adorava quel suono. E crescendo, non smise mai di cercarlo.
“La voce del Silenzio” – così l’aveva definito in un torrido pomeriggio d’estate del ’56, quando con sua stessa sorpresa, ne parlò a quella ragazza minuta che gli sedeva accanto alla fermata della corriera, e nei cui occhi verde acqua si ritrovò a nuotare provando un piacere inatteso e una sete sconosciuta. Lei ascoltandolo subito se ne innamorò: di quella voce e di lui. E ad entrambi rimase fedele negli anni; questo aveva fatto di Luisa la sua compagna ideale ed insostituibile: la sua inesauribile fonte d’acqua pura. Insieme si gustarono le più belle voci del silenzio: quella che andavano a cercare in inverno passeggiando nelle spiagge deserte della riviera romagnola; quella che emergeva dal Lago d’Anterselva e, come un sussurro, li raggiungeva a riva, dove abbracciati si sdraiavano ad attenderla in estate; o ancora, quella unica, che nasceva dall’incontro del vento proveniente dalla Val Gardena con quello che sale dalla Val Badia. Loro l’aspettavano appollaiati sullo stretto sentiero che dal Rifugio Gardena conduce alla cima del gruppo Sella. Una voce magica quella: “il respiro delle Dolomiti” la chiamava lei. E poi, i silenzi casalinghi, scanditi dal ticchettio dell’orologio a pendolo appeso in cucina, costante voce della loro casa immersa nel verde della campagna toscana. Una casa che ai vicini poteva sembrar disabitata, ed invece brulicava di pensieri, riflessioni, emozioni: di tutto quel mondo sottile ed impalpabile che nessun frastuono potrà mai accogliere e conoscere. Non è che non parlassero fra di loro, tutt’altro; però evitavano le parole inutili. Del resto si capivano al volo, con piccoli gesti e sguardi, come quando negli ultimi tempi lei, facendo ricorso a tutte le sue forze, lo sollevava dalla carrozzella per metterlo a sedere sul letto, coordinando con lui ogni singolo movimento con semplici occhiate. E alla fine, quando era disteso, in un silenzio che diceva più di mille parole, era solita accarezzarlo passandogli la mano sui pochi capelli superstiti per poi scendere dolcemente giù, fino alle dita dei piedi. E lui l’avrebbe giurato, con convinzione assoluta, di riuscire a sentirle proprio fin laggiù, quelle carezze!
Era impareggiabile Luisa: di poche parole ma di un cuore immenso; un cuore che le dava una forza incredibile, che le aveva consentito di affrontare, in silenzio, persino il parto. Se la ricordava bene Antonio quella notte di gennaio in cui un vento indispettito sbatteva le persiane, rovesciava vasi e attrezzi nel portico, e scuoteva prepotentemente il povero noce piantato davanti casa. Gino, suo suocero, se ne stava seduto dinnanzi al camino acceso, tentando invano di non dar a vedere quanto fosse intento a cogliere i minimi rumori provenienti dal piano superiore: la voce dell’ostetrica, i passi frenetici delle donne che l’assistevano, ma, null’altro. Quando finalmente udì il pianto del nipotino, saltò in piedi gridandogli spaventato: “PERCHE’ NON HA URLATO?! LUISA NON HA MAI URLATO! CORRI: VA’ A VEDERE…DEVE ESSERLE SUCCESSO QUALCOSA!”. E invece, semplicemente, persino in quella situazione, lei aveva lasciato che il vento, là fuori, urlasse al posto suo.
“Eccomi Tonino! Sono tornata, visto? Eri te preoccupato? Ho visto che sollevavi testa, cercavi me? Scusa che ho lasciato te solo, ma mia amica Andrea, aveva da mostrare me cosa in macchina. Hai fame Tonino? Sbuccio te banana? Ah, quanto è bello vestito suo! Devi vedere, l’ha regalato da Vladimir, fidanzato suo. Oh, è bruttino lui, però sempre tanto buono! Altro mese ha regalato scarpe belle belle. Io non ho scarpe belle così e nemmeno uomo così per me… Vuoi acqua Tonino? Hai sete? Ho anche succo frutta, vuoi? No? Sei stufo stare a sole? Forte oggi sole…”.
“No dannazione! Non sono stufo del sole. Sono solo stufo di non poter ascoltare la voce del vento, perché tu me la copri blaterando di continuo, per di più di cose inutili, come i vestiti e i fidanzati di qualche stupida amica, che si chiama pure come un uomo! Ma chi accidenti mi avrà condannato a questo inferno?!” – urla lui dentro di sé, riabbassando prontamente lo sguardo a terra.
“Vuoi che sposto te in ombra? Eh Tonino? Dai metto te poco più qua. E’ bene Tonino? E’ più bene qua, sì?” – giusto un attimo per buttare un sguardo intorno, e poi, cercando come sempre inutilmente un dialogo, riattacca – “Oh Tonino, sai che ieri a televisione ho sentito dottore, no ricordo nome, ma tu sai: lui alto, magro, con capelli grigi, è bell’uomo lui, parla sempre da canale uno, capito chi? Beh, lui dice che fare movimento con aria almeno una ora giorno allunga vita. Io so che tu non puoi camminare Tonino, ma esercizi con braccia puoi fare, no?”.
“Se avessi avuto la forza per muovere le braccia, col cavolo che me ne restavo qui a farmi seppellire da queste continue valanghe di parole! L’avrei lanciata via di qua a tutta velocità questa carrozzella di merda! Me ne sarei tornato a quella campagna da cui quello sciocco di mio figlio m’ha strappato, con la scusa che qui poteva assistermi meglio, e invece… invece m’ha rifilato a questa badante chiacchierona” – mugugna fra sé e sé, ricacciando indietro con forza le lacrime che a tradimento gli gonfiano gli occhi.
“Eh Tonino?” – chiede lei fremente – “Hai detto qualcosa?”. “Dai Tonino! Solleva testa! Fa bel respiro e muovi braccia poco, dai allarga e crocia. Su prova! Fai uno sforzo Tonino mio, fallo per Zora tua”.
“Eh no! Questo è proprio troppo! Tonino mio?! Zora tua?! Brutta insolente! Ma chi diavolo ti credi d’essere ?!”– e, per la prima volta, da due mesi a questa parte, da quando la sua Luisa se n’era andata portando via con sé il loro adorato silenzio, interrompe lo sciopero di parole intrapreso in seguito a quel lacerante distacco, e fissandola dritta negli occhi le scaraventa addosso tutta la sua rabbia: “IO NON SONO TONINO TUO! E TU NON SEI ZORA MIA! IL MIO NOME E’ ANTONIO! HAI CAPITO?! ANTONIO! E SONO STANCO DI SENTIRTI BLATERARE DI CONTINUO! CHIUDI QUELLA MALEDETTA BOCCACCIA PER UNA VOLTA E ASCOLTA ACCIDENTI!!”
Raggelata da questa reazione del tutto inaspettata, resta, per un attimo, senza parole. Si guarda attorno cercando quel qualcosa da ascoltare: però, non sente nulla. Con voce tremante azzarda: “S-ta ca-lmo. Co-sa è successo? Cosa devo ascoltare Tonino?” – e fulminata dallo sguardo inferocito che lui le rivolge, subito si corregge – “Scusa, scusa: volevo dire, Antognio”. Lui sbruffa scuotendo la testa sconsolato. Guardandola, quella donnona alta un metro e ottanta, capace di sollevarlo come fosse una piuma, che ora spaurita e confusa si è fatta piccola piccola, pensa: “E’ inutile: non ce la fa. E’ pure una brava donna in fondo, ma proprio non ha idea di che intendo dire. E’ come Tommaso, che nonostante io abbia sempre cercato di spiegargliela la bellezza del silenzio, non l’ha mai apprezzata, e appena maggiorenne se n’è venuto in questo schifo di città, a rotolarsi come un maiale nella melma dei rumori. Eppure… è nostro figlio. Ma avevi ragione tu Luisa: noi possiamo suggerirle certe cose, ma non trasmetterle, né tanto meno insegnarle; o le ami o non le ami”.
Zora, stranamente, anche se a bocca aperta, è ancora muta; ha lo sguardo implorante d’un passerotto che non sa ancora volare ed aspetta trepidante che la mamma le porti qualcosa da mangiare. Intenerito da quella espressione gli vien da pensare che forse lei semplicemente non l’abbia mai assaporato il gusto del silenzio. Questa idea lo induce a rivolgerle uno sguardo dolce, a cui lei prontamente s’aggrappa. Allora, senza proferire parola, si porta faticosamente la mano destra accanto all’orecchio e butta la testa indietro; abbassa le palpebre e aprendosi ad un sorriso che lei non gli ha mai visto prima in volto, la imbocca: “Ecco: questo” – alludendo al sibilo del vento, che infilandosi fra la mano e la guancia gli regala una carezza che ha il tocco di Luisa. “Lo senti Zora? Questo devi ascoltare: la Voce del Silenzio. O almeno, lascia che lo faccia io, te ne prego”. E sussurrando aggiunge: “Che Dio solo sa, quanto mi manca”.
Confondendoli con la tristezza della solitudine, temiamo i silenzi. Per il protagonista del racconto di Francesca il silenzio è invece pieno. Di ricordi. Di vita. Lo aiuta a mantenerla viva e a sentirsi vivo.
Scritto con tocco leggero, “La voce del silenzio” affronta uno dei nostri drammi. Accantonato. Prechè temuto. Il distacco dei nostri anziani dal nostro quotidiano.
Francesca ce lo ricorda con sensibilità e ironia, cogliendo fumature che il silenzio riesce ad amplificare. E ci ricorda che essere separati da questa vita “costruita” non significa non viverla, ma semplicemente sceglierne un’altra. Quella che desideriamo. La nostra.
Come promesso ho letto in silenzio il tuo racconto ma è curioso che dal testo non esca fuori il senso del silenzio, della quiete, del tutto fermo. Anzi la storia si evolve tormentosamente in un rincorrersi tra ricordi, immagini, profumi, come fotografie scattate e ingiallite dallo scorrere del tempo…un senso di rimpianto, di amara solitudine e di incomunicabilità delle proprie emozioni. Tanto da far urlare tutta la propria rabbia, quella del protagonista, per il tempo che fu, il tempo della speranza, della fanciullezza e della scoperta. la rabbia che viene scaraventata contro quella apparente estranea di cui sente però la presenza anche tenera. Una presenza che diventerebbe ancora più vicina se rimanesse in silenzio. Grazie.
Francesca,
io sono una di quelli che apprezzano il silenzio.
Siamo rimasti in pochi, temo, a gradire i silenzi – non quelli carichi di imbarazzo, rammarico e talvolta rancore di chi non ha più niente da dirsi: quelli che racconti tu, per intenderci, degli elementi naturali e dei sentimenti più puri. Quelli pregni di sensazioni e forieri di emozioni, molto spesso assai più comunicativi di qualunque parola.
Tuttavia – e qui strappi un sorriso – come non apprezzare lo sforzo di Zora di comunicare con Antonio per farlo sentire meno solo – sfortunatamente per lei, nella maniera all’anziano meno gradita al mondo?…
Il tuo racconto, molto bello e impegnativo, tratta di amore e solitudine – temi rilevanti cui ti approcci con poetica, stupefacente delicatezza.
Un fiume cristallino di parole, il tuo – risacca che lambisce gli scogli accarezzandoli con garbo all’imbrunire – a descrivere magistralmente l’intensità del silenzio.
Un paradosso?… No.
Semplicemente molto ben fatto: il divenire delle vicende finisce con l’evidenziare, per rigorosa logica di contrappasso, il senso del silenzio che accompagna il ragazzo nel suo cammino fino alla vecchiaia, divenendo il filo conduttore della storia di Antonio – e anche della tua.
Originale, e molto ben congegnato.
Brava 🙂 Vittoria meritata.
A presto risentirti,
Nikki
Ciao Francesca,
ricordavo il tuo racconto e mi ero ripromessa di commentarlo. Lo faccio in ritardo. E’ proprio una bella storia, di solitudine, di ricordi passati e di un presente incomprensibile al protagonista. L’anziano ama e ha sempre amato il silenzio, teme di non essere compreso e quindi non chiede. Però poi scoppia e fa bene perchè Zora, benchè il suo dovere sia quello di accudire l’anziano, può capire e, forse, apprezzare anche il silenzio.
Brava!
Un titolo importante che mi ha portato a leggere questo tuo racconto. Devo dire che hai rischiato di rendermi antipatico il povero Antonio per l’insofferenza verso colei che
l’accudisce,poi alla fine lo hai adolcito rendendolo meno egoista, più concigliante. Complimenti per aver creato un bel quadro con in primo piano i due protagonisti e intorno
altre figure minori ma non meno importanti per la riuscita del racconto.