Premio Racconti nella Rete 2012 “Tziu Franciscu Boi (zio Francesco Boi)” di Bruno Trogu
Categoria: Premio Racconti nella Rete 2012Tziu Franciscu Boi, detto Ciccheddu (1), era pastore nelle proprie tenute di “Sos forreddos” (2). Suoi molti ettari di terreno ordinati distribuiti tra pietre, roccioni, valli, tratti pianeggianti e fitti boschi, sui quali spesso si esibiva l’astore che, con la sua innata eleganza, disegnava i contorni dell’infinito e con il suo caratteristico richiamo amplificava il sentore del silenzio.
E per tziu Ciccheddu tutto ciò era la conferma intima dell’illusione della proprietà, dell’appartenenza alla natura, della sottomissione della stessa e del senso di indipendenza; ma lo disponeva ancora di più a una sorta di simbiosi sensoriale con le vacche, le pecore e con gli animali in genere.
Di giorno infatti, mentre le greggi e le mandrie pascolavano, avvertiva il tintinnio dei campanacci e dal tono dei belati, la distanza, la direzione e l’eventuale comportamento non ordinato, sapeva; di notte invece, i sentimenti erano diversi, sempre protettivi ma condizionati alla tutela da ingerenze non proprio disinteressate. Per questo infatti, da tempo governava e custodiva il bestiame, già radunato nell’ovile circolare costruito con frasche di lentischio, di rovo e di olivastro, accoccolandosi avvolto in un mantello di orbace e con il fucile accanto, su di una sporgenza erbosa incastonata tra due rocce di granito; gli tenevano compagnia, come sempre, i cani, il tramestio e i versi di tanti animali notturni e in particolare il canto dell’upupa che gli toglieva qualsiasi forma di aggressività e lo conduceva al raccoglimento.
Così la sua mente si concentrava all’ascolto del fitto dialogare degli alberi, di tutto informati dalla brezza notturna; stavolta però, non parlavano come loro consuetudine dello spopolamento del paese, della siccità persistente, della latitanza custodita, delle pareti di casa annerite dal fumo della povertà e dei truogoli vuoti, ma del mormorio dei cespugli e degli steli gonfi di urina a ridosso delle innumerevoli tombe nei grovigli di filo spinato. Dopo un attimo di attesa, con un sussulto rassegnato tacitò gli alberi e parlò a se stesso; gli si aprì l’animo ai ricordi nelle solitudini senza domande e senza risposte. Ragazzi: PRESENTE … PRESENTE …
Presente in quei luoghi di alte cattedrali di rocce e di boschi attoniti, immersi in un anfiteatro affrescato di visioni che la natura, con grande generosità, aveva colmato di bellezza, io con tanti altri attori soccombenti in un progetto senza alcun significato umano, con la sola inculcata convinzione che i giovani dell’altra parte, spesso accovacciati sullo stesso pianoro profumato di erbe selvatiche, non si chiamavano Antonio, Giuseppe, Luigi, Francesco o Carlo, bensì il nemico.
Il loro nome era nemico. Tutti si chiamavano nemico e in quegli anfratti, in quelle postazioni si attendeva il turno. E quando qualcuno di loro ci riduceva a una scritta su una croce, il capitano o a volte il maggiore o il colonnello, raramente un generale, nel chiudere la scarna cerimonia, nominando la patria o più spesso la madre-patria, come un sigillo di valore assoluto al di sopra degli uomini e più vicino al Signore e alla Sua volontà, il cuore si riempiva di rancore e molti dubbi affioravano sulla Patria o insomma sulla madre-patria. Quanti dubbi, quante perplessità mi tormentavano anche ascoltando i miei commilitoni, persino quello era un combattimento aspro.
Ma quanto innocente il commento di uno di loro che con una semplicità e candore spiritualmente disarmanti mi disse: spero un giorno di incontrare la madre-patria, deve essere bellissima se tanto la difendiamo e siamo disposti a morire per lei. Non ebbe modo di vederla!
Rientrato in paese, mi attendevano il mio lavoro, la mia campagna, i miei boschi, la mia vita libera, il mio sudore e la mia fatica e, nonostante le sofferenze mai sopite, anche il piacere di incontri galanti; così a trentanni suonati mi sposai con Maria Grazia Cossu, una confinante più giovane di dieci anni, lontana parente da parte di mamma. E ora, io ho novantanni e mia moglie ottanta, continuiamo a fare il formaggio come da sempre e lo vendiamo.
Una brezza leggera e il riflesso della luna sui campanacci del gregge mi rassicurava, così come la quiete dei cani; a un tratto però, Piliruiu (3) il più vecchio di essi, avvertendo la presenza di qualcuno mugolò destando la mia attenzione; dopo un po’ infatti, riconosciuto dai passi, comparve Salvatore, un bel giovane mio vicino di pascolo, con il quale ero solito scambiare due chiacchiere e tacitamente anche la cortesia della vigilanza.
Sostò qualche minuto in silenzio prima di parlare, quindi guardingo chiese: “tottu hene, tziu Francì?; risposi: heia, tottu hene Salvatò” (4); c’è un calma strana stanotte, proseguì sottovoce Salvatore, provo un senso di inquietudine; “mah! isperamos chi no sutzeda nudda” (5); e si allontanò salutando e io lo seguii con lo sguardo e con animo riconoscente.
Il buio aveva immobilizzato le forme senza la brezza già quietata. E allora mi rivolsi alla mia stella preferita, con la quale avevo stabilito un rapporto di lealtà, per poterle parlare, ancora una volta, delle mie eterne incertezze. In quella notte però, non mi prestò ascolto, era distaccata e mi resi conto, come mai mi fosse capitato altre volte, della sua autonomia celeste e come questo fosse un chiaro segnale di abbandono; abbassai lo sguardo rassegnato, quasi inconsapevole giunsi le mani e ricordai la preghiera da tutti invocata.
I ricordi si affievolirono, gli alberi ripresero a dialogare e io mi appisolai.
Verso le tre del mattino tziu Franciscu sentì un po’ di fame, si alzò, diede uno sguardo al gregge e ai cani e si avviò verso casa (la casa: l’orgoglio delle sue mani), entrò, accese la luce, grande conquista l’elettrificazione delle campagne, e dalla bisaccia, appoggiata sulla sedia, tolse una tovaglia pulita, la distese sul tavolo e con le mani sfiorò il ricamo in rilievo, le iniziali di Maria Grazia (Graziedda, pensò).
Sulla tovaglia che sapeva di melacotogna, pose un po’ di carasau, un tocco di formaggio, un pezzo di salsiccia, cenò. Si accostò alla credenza e da un cassetto prese una penna e un foglio. Recuperò anche tutto il carteggio di un progetto, redatto dall’ingegner Conconi (figurarsi!), per la realizzazione ormai quasi ultimata di nuovi edifici con apparecchiature per la mungitura, la sterilizzazione del latte, ricoveri in muratura per il bestiame ovino e bovino, una porcilaia e una zona attrezzata per l’allevamento delle galline. Lo guardò ripetutamente, soddisfatto e con un pensiero al futuro lo ripose.
Sul foglio scrisse per quasi un’ora. Quindi si distese sul letto e appoggiò il foglio sul petto tenendolo premuto con le mani.
Al mattino, verso mezzogiorno, i nipoti presero il foglio dalle mani ormai esangui del nonno: era una lunghissima sequenza di nomi, alcuni non comuni, strani o stranieri probabilmente, e alla base il disegno incerto ma chiaro di una bandiera; forse per tziu Ciccheddu la bandiera dell’umanità.
NOTE:
- diminutivo sardo di Francesco
- nome della tanca che letteralmente significa: i fornelli; nome di una tanca (appezzamento di terreno recintato adibito a pascolo, allevamento di bestiame, coltivazione di orto, foraggio, ecc.)
- appellativo sardo: pelo rosso
- “tutto bene zio Francè; risposi: “sì, tutto bene Salvatò”
- “mah, speriamo che non succeda nulla”
Bello. Complimenti soprattutto per la capacità di “dipingere” la natura e il rapporto che il protagonista instaura con essa.