Premio Racconti nella Rete 2012 “Prima ero,ora sono” di Benedetta Pisi
Categoria: Premio Racconti nella Rete 2012Lontano, vicino
Durante il viaggio pensavo al suo nome. Andrà bene anche là, mi dicevo, non dovremo cambiarlo e a chi ce lo chiederà diremo che no, no, è sempre stato questo il suo nome.
Chiudevo gli occhi, lo stringevo forte e tornavo al giorno umido della sua nascita, al pesce che avevo pescato e alla faccia stanca di mia moglie quando tornai a casa quella sera. Le mie braccia lasciarono andare tutto e le sentii libere, come quando, dopo aver gettato la rete in mare sai che i muscoli, i tendini, i nervi si preparano alla risalita delle maglie che fanno impazzire i pesci.
Il mio paese era bello, io posso solo dire questo, ma quando è nato mio figlio ho visto mia moglie diventare triste: non guardava più il mare e non cucinava più gli spiedini di pesce.
La paura, pensai, è una ragnatela che cresce ogni giorno di più e i suoi nodi sono pensieri che si rincorrono l’un l’altro, senza mai raggiungersi. Ho temuto che i suoi timori diventassero cose vere e siamo partiti.
Ho sempre creduto di saper fare tutto ciò che la mia terra mi chiedeva: coltivare riso, stringere pesci ancora vivi tra le mani… Poi mi è sembrato di non saper fare più nulla.
Erano sempre persone anziane che davano lavoro alla mamma e che mi chiedevano cosa mi ricordavo della mia infanzia. Le persone anziane non si stancano mai di sentire storie, è come se si cibassero di racconti e di voce.
Mi ricordo che avevo sempre mal di testa; mi ricordo mia madre che lavava i piatti. Non ha mai voluto che l’aiutassi, diceva pensa ad imparare il mestiere di tuo padre, i piatti li sanno lavare tutti.
Non è vero. Per lavare i piatti bisogna avere una mente piena di pensieri da pensare, altrimenti, a guardare quella pozza piena d’acqua grigia, verrebbe da disperarsi.
Mi ricordo che al mio paese a scuola andava male; dicevano alla mamma che parlavo pochissimo, sia in inglese che in tagalog, la mia vera lingua madre. Dicevano che non avevo amici, che c’erano problemi, che ero un bambino buono, ma che così non andava, bisognava trovare il modo per farmi uscire le parole di bocca.
Quando eravamo ancora là la mamma mi parlava tanto, non dico con le parole, dico con gli sguardi e formulava un sacco di domande difficilissime: perché non parli, perché non rispondi alle domande, quale scusa posso inventare. Ha cominciato a parlare con la voce quando siamo arrivati qui. Non subito, dopo un po’ di tempo. Non mi ha mai detto che il suo mare le mancava, però ha cominciato ad amare la sua lingua solo quando l’ha sentita lontana. E io ho cominciato a sentire davvero i suoni che mi circondavano, l’italiano e il tagalog.
Che bello, lingua madre. Lingua madre, lingua madre, lingua madre. Mi ricordo la prima volta che l’insegnante di italiano l’ha detto: lingua madre. Mi sono sentito catturato e avvolto. Qual era la mia lingua madre? O forse chi era? Nemmeno lo sapevo. Sapevo chi era mia madre, ma non mi bastava, volevo conoscere una lingua madre anche io. Da quel momento è cambiato tutto.
Mi ricordo che l’insegnante ha spiegato che la mia lingua madre non era l’italiano. Ci ha fatto prendere l’atlante e ha mostrato ai miei compagni dove fossero le Filippine. Ho pensato: sono lontane, io qui mi sento vicino.
Sono nato in casa, a Baguio, vicino a San Fernando. Anche io mi chiamo Fernando. Mio padre ha sempre detto che è un nome che trattiene antichità. Le prime volte non sapevo cosa significasse, ma poi ho capito.
Cosa fosse una lingua madre me lo spiegò bene un signore sulla sedia a rotelle. Era vecchio e sapeva di borotalco, ma la sua voce era profonda come i suoi anni e aveva l’eco di tutta la sua altezza. Sì, perché era un gigante.
Mi ricordo che un giorno, mentre mia madre gli lavava quella sua testa un po’ bianca e un po’ rosa, mi disse: studia Fernando, studia e cerca di non farti mai lavare la testa da nessuno. Anche questa cosa qui l’ho capita tanto tempo dopo.
Ricordo che a Baguio mia madre mi sembrava un tronco che sta per spezzarsi; mi ricordo che quando siamo arrivati qui la sua voce era solo un’eco di parole e immagini che volevo dimenticare; mi ricordo che, piano piano, in casa di quell’uomo, tutto ha cominciato ad avere un nome. Ricordo di aver pensato che a mia madre erano tornati i capelli e le gote lucenti, proprio come quelle di una bambina.
Mi ricordo che ad un certo punto ho smesso di ricordare e ho cominciato a pensare al giorno che veniva dopo la notte e dopo i sogni e non più al giorno che era passato.
La scuola, per me, è un ricordo che dura meno di un attimo. I chicchi di riso e gli occhi pazzi dei pesci occupano quasi tutte le immagini che ho nella mente. Ho conosciuto mia moglie in una risaia, Fernando è nato che le mie mani puzzavano ancora di pesce.
Asa mi disse che voleva andare via una sera, dopo una festa. Aveva ballato, sorriso, forse era stata felice. C’erano tante luci appese qua e là e ormai si udiva solo un chiacchiericcio basso, che accompagnava al sonno.
Non era una preghiera la sua. L’ho vista pregare tante volte e dico che no, non era una preghiera perché non era fatta di speranza, ma nemmeno di disperazione. Era un ordine che lei dava a se stessa, secco e impietoso. Mi avrebbe abbandonato se non l’avessi seguita e mi avrebbe portato via nostro figlio.
Abbiamo scelto l’Italia perché mio fratello ci avrebbe ospitato per un po’ di tempo, finché io e Asa non avessimo trovato lavoro.
Mio fratello viveva là già da cinque anni, con la moglie e tre figli. Non sapevo che le cose tra loro andavano male. Immaginavo che avremmo dovuto condividere uno spazio già stretto, ma non credevo che sarebbe stata così dura. Speravo solamente che Fernando fosse felice di conoscere i suoi cugini e che il più grande lo aiutasse un po’ con l’italiano.
Le urla di mio fratello sono ancora una voce viva dentro di me. Non ho mai provato tanta vergogna nella mia vita. Poi se n’è andato. L’Italia aveva regalato a mia cognata la forza di cacciarlo via.
Borotalco e parole
Ricordo anche cose brutte. La casa dello zio era piccola. Io dividevo la stanza con i miei tre cugini e il letto con mio cugino, il più grande, che aveva cinque anni, due anni in meno di me. Dormivamo così vicini che a volte avevo paura che i mie sogni si mischiassero con i suoi o che lui li spiasse e vedesse le mie paure o i miei desideri.
Abbiamo vissuto insieme circa sei mesi; non ho mai potuto disfare la valigia, perché lo zio diceva che non c’era posto. A dir la verità non diceva, urlava e io avevo paura che un giorno si sarebbe messo ad urlare anche contro la mamma.
Le prime vere cose belle sono arrivate quando la mamma ha cominciato a lavorare da quel signore che sapeva di borotalco. Anche seduto sulla sedia a rotelle l’unica parola che mi veniva in mente quando incrociavo i suoi occhi grigi era gigantesco, senza confini. Immaginavo il suo torace spazioso incastrarsi su due gambe lunghissime e su due larghe ginocchia e nei sogni lo vedevo camminare maestoso verso di me, con le braccia spalancate. Non l’ho mai visto in piedi, ma sdraiato a letto sì. Mi veniva in mente un albero, cresciuto in senso orizzontale, coricato sulla terra come a voler chinare l’orecchio verso gli esseri minuscoli. Minuscoli come la mamma.
Fu lei che mi spiegò che avevano dovuto costruirgli un letto su misura, perché di così lunghi non ne esistevano. I vecchi che vedevo io per le strade di Baguio erano piccoli come formiche e raggrinziti come vecchi rospi.
Le diceva, Asa fatti coraggio, perché è ora che io mi corichi un po’. Mia madre imparò a muovere le sue gambe come fossero leggere canne di bambù e conosceva il suo corpo così bene da saper sfruttare come una leva la forza ancora trascinante di quell’uomo. Io andavo con lei quando ero malato, il che succedeva molto spesso durante il mio primo anno in Italia. Lì ho veduto i libri e ho cominciato a sperare di sentirmi figlio di una lingua madre.
Asa lavorava da un vecchio signore in sedia a rotelle. Io avevo trovato un posto in fonderia. Fernando andava a scuola, in seconda elementare.
Durante i primi mesi non credo di aver avuto la forza di pensare. Eppure ora saprei raccontare cosa cambiò a poco a poco la nostra vita. Fu Fernando. Nei mesi di convivenza con i cugini fu molto paziente e nonostante fosse spesso malato, andava a scuola senza fare storie. La mattina spesso si alzava prima del suono della sveglia e lo trovavo in bagno che si lavava quel suo muso rotondo e scuro. Mi mancava il mare, ma vedevo nei suoi occhi i primi riflessi di libertà.
Quando era malato Asa lo portava con sé da quell’uomo gigantesco. Diceva che là passava le giornate a sfogliare libri pieni di figure e che chiedeva a quel vecchio di spiegare cosa fossero le cose che vedeva rappresentate. Stagioni e piante, animali e mostri, piccole case e grandi paesi, nani e orchi.
Asa lo lavava, lo vestiva, lo trasportava e intanto lui e Fernando parlavano. Anzi, i primi tempi era il vecchio a parlare, perché Fernando continuava a guardare il mondo senza proferire parola. Asa mi disse che gli occhi di Fernando diventavano sempre più grandi, poi gli si spalancava la bocca e sembrava che il suo corpo non avesse più bisogni; sarebbe potuto restare in quella posizione per non si sa quanto tempo.
Poi cominciarono ad uscire le parole. Dolci alcune, dure altre. Eppure talmente opportune da generare un gran silenzio.
Chissà se fu il suono della lingua italiana a spalancargli la mente, chissà se sarebbe successo anche nelle nostre isole, in quei settemila stracci di terra fatti di acqua e riso. Chissà.
Da allora ho cominciato a sentire un tale riscatto nel suo modo di leggere, scrivere e aprire i libri che nemmeno il mare mi manca più, nemmeno quegli orizzonti bassi e stirati.
Un poco mi manca il suono del tagalog, ma Asa lo sa e quando mi dice buonanotte nella nostra lingua sento la coperta espandere odore d’acqua salata.
Lingua madre
Quell’infinito signore mi spiegò giorno dopo giorno cosa fosse una lingua madre. Mi disse che conoscerla e praticarla era come stringere un patto con me stesso. Subito non capii. Aggiunse che se avessi rifiutato sarebbe stato come se un leone si rifiutasse di cacciare o un pesce di nuotare o un uccello di volare. Ma c’era dell’altro. Conoscere la mia lingua madre sarebbe stato contemporaneamente due cose: mantenere una promessa e vederla già avverata.
Mi disse che da anni ormai si era abituato a chiamare le parole prima di dormire. Parlava con loro e le cullava come segreti. Esse si richiamavano l’un l’altra come travestite ogni volta di un abito nuovo e dire pane, pesci, riso, lo poteva trasportare nelle fiabe, nella Bibbia, in un racconto antico e mai scritto, nella lettera di un amico.
Ho provato anche io a fare come faceva lui. Non era fatica, all’inizio, ma vergogna. Mi dovevo nascondere negli angoli più bui di casa e diventare una specie di bozzolo, un confetto indurito dal tempo.
La mamma doveva aver capito qualcosa, perché cominciò ad usare il tagalog come per colpirmi, quasi ferirmi. E mentre studiavo e dicevo sommessamente una qualsiasi parola in italiano lei usava il suono filippino come un rimprovero, sebbene il suo scopo fosse tutt’altro.
Una sera sognai la mia lingua madre. Era una donna fatta di mare e capelli neri, ma non mi faceva paura. La vedevo da una barca che potevo guidare io soltanto. Il mare era quello della mia infanzia, muta, come senz’aria, ma nel sogno riuscivo a prendere fiato e gridavo forte il mio nome. Mi usciva dalla pancia con la forza di tutti i venti e alimentava le onde in un movimento infinito.
Non avrei mai smesso di lasciarmi dondolare.
Veramente molto bello. Attuale e profondo. Complimenti!
Linda