Premio Racconti nella Rete 2012 “Agneia” di Andrea Bonizzi
Categoria: Premio Racconti nella Rete 2012LUCE! era forte e l’accecava, provocandole un intenso dolore agli occhi. Li richiuse subito, strizzandoli più forte che poteva, e fu di nuovo buio. Rimase così per alcuni minuti, in piedi, ferma, con la schiena leggermente incurvata in avanti e le mani sulla fronte, a schermare dalla luce gli occhi serrati. Rilassò poco alla volta le palpebre e il buio più scuro si contornò di aloni di vari colori da lei mai visti, un giallo-arancione che suggeriva alla vista il senso di calore che la pelle provava. Le piacevano quei colori e sentiva in sé la voglia di spalancare gli occhi e venire inondata dalla loro bellezza, senza filtri, senza barriere, ma il dolore provato appena prima la bloccava. Li socchiuse allora cautamente, aprendone una sottilissima fessura schermata da una fitta rete di ciglia. Non vedeva nulla ancora, ma il giallo sì, quello lo vedeva, ed era sempre più intenso e bello. Continuando così, a tentativi e azzardi, a spalancare e, punita per il troppo ardire, subito dopo a serrare, riuscì ad aprire gli occhi solo quando la luce se n’era andata e la sera era scesa sulle terre del luogo. Ma anche il buio qui era diverso da quello che lei conosceva. Un cerchio di luce gentile sfiorava le figure del paesaggio. Riuscì allora a vedere chiaramente cosa stava intorno a lei. Alberi di varie dimensioni si stagliavano plumbei come ombre contro quella luce opalescente e alle sue spalle un monte, alto e brullo. Si incamminò in quel bosco e, a poco a poco, allo stupore dello sguardo si affiancò lo sbigottimento dell’udito. Nella notte mille voci e niente simile a nient’altro. Non un albero era della stessa forma di un altro, non un grido, un suono, un richiamo assomigliava all’altro. Tutto nuovo e splendido, e diverso, ma nella diversità perfettamente integrato nel tutto, come fosse il gioco di un’inesauribile fantasia.
Uscì dal bosco mentre la notte giungeva al termine e la luce cresceva. I suoi occhi, sotto la materna guida della natura, si abituarono come gli alberi e gli animali attorno a lei al giorno che nasceva. Non faceva male ora la luce e tutto si colorava. Non solo gialli, ma verdi, azzurri, rossi e mille altri colori e sfumature che incontravano lo sguardo come una gioiosa festa di paese che accoglie e stupisce il viandante ignaro di tale ricorrenza e di questa sua mancanza si rallegra. Di fronte a lei il terreno digradava leggermente e, al termine del dolce pendio, si trovava una cittadina. Qui si diresse Agneia.
Le strade erano affollate e le persone moltissime. Queste si affrettavano quasi tutte nella stessa direzione e solo la minor parte andava in senso contrario. Era un vocio ad attirarle e, man mano che si percorreva la strada, il vociare cresceva, così come il numero di uomini e donne presenti, fino a saturare del tutto lo spazio disponibile. Nessuno più si muoveva se non al ritmo dell’intera folla e, le donne che si avvicinavano e allontanavano dai banchetti al lato delle strade, sembravano il pulsare del corpo dell’immensa creatura. Agneia tentò di avvicinarsi a un banchetto come aveva visto fare ad altri e, vincendo la corrente che la portava, riuscì a raggiungere quello prescelto. Un bancarella colma di frutti di ogni tipo e colore, che ai suoi occhi sembravano tante pietre preziose. Dopo aver scorso lo sguardo su ciò che le stava di fronte, attirata ora da questo ora da quel frutto, fu colpita dall’intensità del rosso di uno di questi e persino la forma le pareva singolare, invitante: due piccoli tondi rossi imperfetti lo formavano e, da ognuno di questi, spuntava verso l’alto un sottile picciolo verde che nel punto d’incontro con quello del compagno sbiadiva in un marroncino ligneo. Ne prese una coppia e, dopo averla osservata a lungo, fece per metterla in bocca, ma una mano afferrò il suo polso stringendolo. “Eh no, cara mia!” disse l’uomo che la bloccava, “se vuoi mangiare le mie ciliegie devi prima pagarle, ma siccome quelli come te di soldi non ne hanno, posa quelle che hai in mano e torna tra i tuoi pari!”. Detto ciò e senza lasciare spazio a replica alcuna la trascinò in una stretta traversa e qui la gettò con rabbia al suolo e tornò al suo banchetto. Nella traversa c’erano delle persone scarne e vestite di stracci. Le guardò, guardò i loro visi smunti quasi quanto i loro sguardi e guardò se stessa. Vide braccia magre e vesti lacere e sporche, ma il suo sguardo no, non poteva vederlo, eppure le bastava sentirlo per sapere che non era smunto e vacuo. Si alzò e notò un vecchio seduto sul ciglio del marciapiede: era calvo e la barba bianca e lunghissima; da uno squarcio del vestito si poteva vedere il costato e, di questo, contare ogni singola costola; aveva occhi azzurri e lo sguardo era assente, ma serbava il fascino di chi è riuscito, molto tempo prima, a guardare nel profondo dell’animo umano. Gettò un’occhiata verso la folla nella strada principale, era grassa, ma non meno malata di quei poveri seduti nella traversa; malata di ingordigia che non le dava posa e non le permetteva di godere della vita e degli agi che questa le riservava. Mosse alcuni passi verso quel vecchio, ma questo improvvisamente rinvenne dal suo torpore e impresse nei suoi occhi uno sguardo terrorizzato, lo sguardo di chi è stato tradito dai suoi simili e di questi non si vuol più fidare e subito lo distolse. Allora Agneia si arrestò e volse altrove i propri passi.
Vagando per la cittadina giunse casualmente a una piccola piazza che i bambini avevano trasformato nel loro parco giochi. Li osservo per un po’ e riconobbe nei loro giochi le stesse dinamiche che aveva visto tra gli adulti. Ma il loro sguardo non era come quello dei genitori, lo sguardo di quei bambini aveva in sé un qualcosa che le ricordava la profondità dello sguardo del vecchio e un qualcosa che andava oltre, che riconosceva familiare, che sentiva nel proprio. Cercò un luogo al sole dove potersi sedere e qui rimase fino a quando i bambini, incuriositi dalla sua presenza e da quel suo guardare fisso e paziente, le si avvicinarono uno alla volta e si sedettero accanto a lei. Il primo alla sua destra, il secondo alla destra del primo, il terzo alla destra del secondo e così via, fino a quando l’ultimo si sedette alla destra del penultimo e alla sinistra di Agneia, creando un immenso cerchio che chiudeva in sé tutta la piazza. Agneia si voltò a guardare negli occhi l’ultimo bambino che le si era seduto accanto e prese con la mano sinistra la destra di lui e questo fece altrettanto con quello che stava alla sua sinistra e così via, fino a quando il bambino alla destra di Agneia si voltò a guardarla e le prese la mano. Rimasero così, in silenzio e con gli occhi veramente aperti, fino al tramonto quando le madri e i padri, non vedendo rincasare i figli erano andati per le strade a cercarli. Giunsero quasi all’unisono alla piccola piazza e videro questo singolare spettacolo aprirsi davanti ai loro occhi, ma anziché aprire gli occhi per vedere lo spettacolo, li chiusero e, chi prima, chi poi, tutti spezzarono l’anello che si era creato. Agneia venne malmenata, insultata e scacciata dalla città e, salito il pendio e attraversato il bosco, giunse ai piedi del monte. Si voltò solo un attimo a guardare gli ultimi raggi del sole morente che filtravano tra il fogliame, un attimo, un attimo solo, e poi sparì nel profondo della sua caverna.
Il buio era intenso e l’accecava. “Non è poi così diverso dalla luce” pensava e, aspettando che i suoi occhi si riabituassero, sostava. Scese poi pian piano appoggiandosi alle pareti della caverna e giunse alla sua fine. Lì si sedette.
Voci… voci di bambini… tre voci distinte all’ingresso della grotta; scendono. Agneia si alzò in piedi e andò loro incontro per guidarli nel buio. Li trovò a metà della discesa e li condusse con sé. Giunti al fondo della caverna si sedettero in cerchio e si presero per mano. Stettero seduti in quella posizione e non servirono parole per crescerli. Divenuti grandi giunse per loro il giorno di abbandonare la caverna e ritornare al mondo. Agneia li condusse fino alla bocca della grotta e disse: “Andate figli miei. Ora sapete tutto ciò che io so e io so tutto ciò che voi sapete. Siamo tutt’uno tra di noi e con la natura. Andate e insegnate tutto questo a chi nella luce non riesce a vedere.” E dopo aver detto ciò li cinse in un unico abbraccio e sussurrò a ognuno di loro un nome nuovo.
Salutata la madre Gnome, Elpìs e Sofrosyne andarono per il mondo.