Premio Racconti nella Rete 2012 “La ragazza del ponte” di Francesca Scotto
Categoria: Premio Racconti nella Rete 2012Sei rientrata tardi. Hai appena cominciato il tuo primo stage e gli straordinari non pagati sono la regola.
Oltrepassi la soglia della tua stanza. Riponi, come ogni sera, il cappotto nell’armadio, la borsa da lavoro ai piedi del letto.
Dalla borsa tiri fuori una busta da lettera, leggi la data che c’è scritta sul retro. Stasera è il mio compleanno: avrei ventisette anni, ma non ce li ho, e tu, che ne hai solo ventisei, hai firmato un contratto con l’Accademia: una personale entro trenta giorni. Sei la più brava, questo è vero. Ma se non ce la fai, il turno passerà al secondo in lista d’attesa, che ha realizzato il numero esatto di opere al momento giusto, anche se di minore qualità. Guardi gli abiti sul servomuto impiastricciati di colori, da fare invidia al tuo tailleur nero e al collo della camicia bianca ancora perfettamente inamidato dalla collaboratrice domestica di turno. “La ragazza del ponte”, la tua opera prima, ti attende da anni per essere terminata. Le mancano ancora il volto e le gambe. Ma i tuoi pennelli rimangono sulla scrivania. Le foto del volto e delle gambe che le mancano, ti osservano in ordine sparso appese alla parete.
Tu, invece, no. Non le guardi. Tiri dritta verso la finestra. Ti affacci. La testa si inclina sotto il peso degli occhi. Lo sguardo in caduta libera fissa la vita che scorre dentro le macchine incolonnate. La tua sclera umida, da cui pendono lacrime quasi solide, ti intorbidisce la vista e le confonde tutte in colori indistinti come quelli che mescoli sulla tela ogni volta che dipingi. Ti asciughi il viso lentamente e la realtà ritorna nitida. Estrai il contratto dalla busta, che stringi ancora tra le mani. Ne fai pezzetti di carta, che sfilano via e colorano il buio della sera come coriandoli.
Sciabordare di acqua sui piatti, il tintinnio del cucchiaio sulla ciotola di acciaio: ti ricordi che non sei sola. Ti asciughi il viso e chiudi la finestra. C’è tua madre. La vedi distintamente, anche se non con gli occhi. Somministra la pappa a Kirbi, la sua gatta, che dovrà mangiarla controvoglia, perché le fa bene; poi distribuisce nei piatti gli avanzi, che di lì a poco mangerai controvoglia anche tu per non buttarli via, mentre lei ti chiede: ma come? Non sono il tuo piatto preferito?
La domanda, che, invece, ogni mattino ti poni tu, quando apri gli occhi: “Mia madre sa?” trova, come ogni giorno, la sua risposta: “No.”, e può lasciare posto a quella della sera: “Come può non aver capito?”.
La senti adagiarsi comodamente nei dettagli della sua rassicurante routine, che ti si infilano uno per uno nelle vene come aghi, e iniettano il veleno che ti accompagna fino in fondo ai tuoi giorni.
Metti di nuovo la giacca. Arrivi quasi alla porta, ma torni indietro. Stavolta le foto le guardi e in mano ne prendi una.
Ci siamo tutti in quella foto sul vecchio ponte della ferrovia senza parapetto: Esdra con gli occhiali a forma di cuore, Bobo col suo cappello di lana, che gli ha regalato Esdra, Milinovic col cravattino a pois, e il Millelire col suo pantalone strappato. Io ti sono davanti, senza la mia sedia, perché ci sei tu a sorreggermi. Avevamo fatto quella foto con un vecchio cellulare di tua madre. Era uno dei primi modelli, che faceva le foto e lei ne era orgogliosa. Glielo avevi preso pur sapendo che tua madre era una poco propensa a darti le sua cose. Ma il ponte era il luogo dove ci concedevamo tutto: il fumo, l’alcool, i baci, le scopate, la follia, lo sforzo inutile delle mie gambe per cercare di essere come voi. Quel giorno c’era anche Stucky, quello nuovo. Era la prima volta che veniva con noi. Si era trascinato gli altri in una corsa fino al ponte e io e te eravamo rimaste indietro. Tu non ce l’avevi fatta a spingere di corsa la mia sedia a rotelle. Ma avevamo deciso di non dire nulla. Io avevo deciso e te lo avevo imposto.
Metti la foto in tasca. Sai che tua madre protesterà, se esci, ma non importa: prendi la borsa e richiudi la porta dietro di te. Infili le chiavi nel cruscotto della macchina e con le mani agguanti il volante, ma rimani immobile. Aneli quel flusso di vita indistinta di qualche attimo prima. Tutti i giorni ce l’hai fatta a buttarti nella mischia, senza mai riuscire a confondere il tuo dolore.
Un dolore, resistente a qualunque tuo cortese tentativo di cacciarlo, sordo a qualunque richiesta di perdono, insistente nello scavarti gli zigomi e il ventre ogni giorno un po’. Eppure un dolore, che non ti ha impedito di infilarti i jeans e affondare le tue Timberland nella neve fresca i primi giorni d’inverno con Esdra. E nemmeno ti ha impedito di festeggiare il diploma, la laurea o il battesimo del figlio di Bobo o di accondiscendere ai tuoi complessi nello studio di un chirurgo plastico o di uscire il sabato sera per intessere relazioni a cui non sei mai riuscita a cambiare i connotati della superficialità. È lì ancora, accartocciato tra i fogli stropicciati della mia ultima lettera, che tante volte hai cercato di buttare via, eppure è sempre con te. E nemmeno stavolta ti è d’ostacolo: ti prende la mano per farti ingranare la primss e tu finalmente sei partita.
Ti fermi davanti a una casa col tetto giallo. Dalle finestre fuoriesce una luce ancora più gialla. Bobo è lì che si rotola sul tappeto del soggiorno con il suo primogenito. Puoi vederli, anche se non con gli occhi. Riesci a vedere Esdra apparecchiare la tavola per loro. Bobo aveva scelto te, ma tu non potevi amarlo. Non come avresti voluto. Esdra lo ha meritato più di te, ha saputo essergli devota, come tu non avresti mai saputo fare.
Estrai il telefono dalla borsa. Componi un numero:
“Dottor C.?”
“Tamara?”
“Si, sono io.”
“Non la vedo da un po’. Come le va la vita?”
“Non l’ho vissuta.”
“Perché?”.
“Aveva ragione”.
“Su cosa?”
“Non ero pronta” .
“Si può rimediare!”.
“Non si può”.
“Perché? Me ne parli Tamara”.
“Ricorda Mia?”.
“La sua amica adolescente?”.
“Si” .
“Me ne ha accennato una volta sola”.
“L’ultima volta”.
“Vuole parlarmene ora?”
“Giocavamo in posto segreto.”
“Di quelli che si tengono nascosti ai genitori?”
“Di quelli pericolosi”.
“Eravate sole, lei e Mia?”
“No. Mia era poliomielitica. Bisognava spingerle la carrozzella fin laggiù”
“Era paralizzata?”
“Non del tutto, ma se avesse usato le stampelle, ci avremmo messo troppo ad arrivare”.
“Eravate in tanti?”
“Un gruppetto.”
“Sempre gli stessi?”
“Spesso, ma non sempre”
“E il giorno di cui vuole raccontarmi?”
“C’era uno nuovo.”
“Continui.”.
“Dottore, la ringrazio è stato gentile come sempre”.
“Tamara, possiamo continuare domani.”
“Non c’è bisogno, la ringrazio moltissimo”.
Attacchi il telefono. Rimetti in moto. Il tuo dolore è sempre lì e ti guida: non hai ancora raggiunto la tua meta.
Il vecchio ponte della ferrovia è ancora lì. Corre di traverso alla gola del fiume e ne unisce i due versanti. È notte, non ci vedi, eppure, quando scendi dalla macchina, puoi ancora calpestare a occhi chiusi ogni millimetro del sentiero che ti porta ai binari, ormai in disuso da vent’anni. Non li vedevi da così vicino da dieci anni. Dal giorno in cui hai scattato la foto, che hai in tasca.
Per te è come se fosse giorno. Quel giorno.
Andavamo al vecchio ponte due pomeriggi la settimana, accampando ai nostri genitori la scusa di studiare in biblioteca. Mancare al nostro appuntamento era un tradimento quasi insanabile. Avevamo un calendario di attività ben stabilito. Quel giorno avevamo bevuto tutti. Era il giorno dell’indianata, in cui ognuno di noi rubava una bottiglia di scotch, rhum o tequila dall’armadietto degli alcolici di casa. Tu, però, avevi già rubato il cellulare e continuavi a scattare foto. Prendere anche la solita bottiglia ti era sembrato troppo. Stucky, invece, non aveva portato niente, perchè non conosceva le nostre abitudini, ma aveva scolato quasi due bottiglie intere da solo.
A un certo punto si è alzato e ci ha proposto uno di quei giochi che noi ci eravamo sempre tacitamente vietati: stare bendati in equilibrio su un piede sul bordo del ponte per più tempo possibile. Non ci sarebbe stato pericolo, uno del gruppo sarebbe stato dietro di noi ad afferrarci, quando avessimo perso l’equilibrio. Tu eri stata la prima ad accondiscendere. A te Stucky piaceva, eri stata tu a invitarlo a venire con noi quel giorno. A me, invece non piaceva affatto. Ma non te lo avevo detto. Temevo che avresti capito che ero gelosa.
Lui si è tirato su diritto per primo per un bel po’ con la gamba destra che gli penzolava nel vuoto, l’addome snello e muscoloso contratto a puntino, prima che tu fossi costretta ad afferrargli il braccio. Poi ti sei lasciata bendare tu: ti sei fidata di Bobo e lui di te, ma non avete resistito che qualche secondo. Il millelire, invece, se l’è fatta sotto nei pantaloni, non appena ha provato a stare in equilibrio, Esdra non ha nemmeno tentato. Milincovic faceva finta di dormire sdraiato nel prato. Stucky ha continuato a sbellicarsi dalla risate e ha riso di più, quando mi io sono alzata a fatica dalla sedia a rotelle intenzionata a provare. Io, si, che avevo fegato, si è complimento tra una risata e l’altra e perciò meritavo che fosse lui a sorreggermi, nonostante il tuo fragile tentativo di impedirlo. Sapevi quanto ero orgogliosa e io sapevo quanto tu volessi compiacerlo.
E lui mi ha lasciato andare tra le acque del fiume che mi hanno portata via.
La sterpaglia è molto più fitta di quanto tu ricordassi. Raggiungi a fatica il punto esatto in cui sono caduta. La croce che hai piantato quel giorno è coperta dai rovi. Le mani ti sanguinano nel tentativo vano di estirparli tutti. C’è ancora inciso il mio nome. C’è ancora il tuo dolore lì con te, ti fa inginocchiare, confessare. Avevate giurato tutti insieme di non dire mai com’era andata, Esdra, Bobo, il Millelire, Milincovic, Stucky e tu. Nessuno mai avrebbe saputo, perché il mio corpo era emerso dalle acque del fiume due giorni più tardi.
Era stato un incidente. Solo un banale incidente. Stucky era solo troppo ubriaco per centrare la presa della mia mano, tutti eravamo ubriachi. Non si poteva rischiare tutto per uno stupido errore: la punizione dei genitori, la stima della gente, il carcere, il diploma, l’università, le mogli, i mariti e i figli che ancora non c’erano. Quelli che io non avrei mai avuto. E forse non li avrei avuti comunque, perché ero deforme, storpia, a detta di molti. Rischiare il futuro per una storpia? E avreste rischiato tutti, non certo solo lui, aveva insistito Stucky. E così lui aveva tappato la bocca a Esdra, a Bobo, Milincovic e al Millelire. E loro a te: non ce l’hai fatta a rischiare la loro amicizia, quando quel giorno mia madre in lacrime ti ha chiesto dove fossi.
Hai provato a dimenticare, ma le istruzioni di Stucky ti girano nella testa come se lui fosse lì a sussurrarle al tuo orecchio: “bendati gli occhi, sali sul bordo del ponte, alza la gamba destra…”. Tu esegui alla lettera. E stavolta sei certa che Bobo non ti afferrerà la mano. Mi chiedi perdono e finalmente chiudi gli occhi profondamente e ti lasci andare tra i rumori delle foglie.
“Tamara”.
Una mano forte afferra la tua. La stretta delle braccia ti fa avvertire i tuoi battiti.
E quando ti accorgi di respirare ancora, apri gli occhi.
“Dottor C!”.
“Sono qui, Tamara. Mi parli di Mia”
“È tardi. Mi lasci andare…”
“No, Tamara. Mia non la vuole con sé. È ora che finisca il suo quadro. Le gambe e la testa. Quelle di Mia. Non l’ha ancora finito, vero?”
Quel condizionale nella terza riga funziona, è un’anticipazione che spinge a leggere. A me non piace molto lavorare sui drammi oggettivi come quello di questa ragazza, ma devo dire che tu lo fai con misura ma anche con molta intensità, complimenti.
Un nucleo poetico vivo anche se non originalissimo; ma una scrittura ancora non matura.