Racconti nella Rete®

24° Premio letterario Racconti nella Rete 2024/2025

Premio Racconti nella Rete 2012 “Lega Sud” di Paolo Scarfoglio

Categoria: Premio Racconti per Corti 2012

La chiave l’aveva abbandonata nel piantone dello sterzo. Assorto nel rovello quotidiano delle sue vendite, Rocco Salemme aveva arraffato la borsa lasciando l’auto aperta col contatto acceso. A metà dei quattrocento metri che lo separavano dalla farmacia Remigi, batté la mano sopra la tasca e se la sentì vuota. Si piantò in mezzo alla strada e ritornò indietro.

Un coito interrotto con i suoi pensieri già proiettati verso la vecchia farmacista che non lo aspettava. Si diresse verso l’auto malamente abbandonata nella piazza e la borsa sobbalzò ai passi sgraziati della sua corsa.

Da lontano, Rocco lo scambiò per un parcheggiatore abusivo.

Il ragazzo alto e massiccio, appoggiato col culo sul metallizzato bigio della sua brutta Opel, altalenava lo sguardo dalle sue curatissime unghie all’orizzonte chiuso dai fabbricati stonacati.

Aveva sorpreso un malvivente che si dissimulava con quello strano comportamento? Salemme s’intimorì, ma procedette speditamente verso l’auto.

Persone rade e lontane, procedevano chine sui loro indecisi camminamenti come a inseguire sotto le suole molesti pensieri. Salemme si strappò dalla tasca il telefonino e poi si domandò a chi mai potesse chiedere soccorso. Alla Polizia? Ma non era accaduto nulla. Alla moglie? Forse per farla solo allarmare? Ripose l’oggetto piatto e denso e si rassegnò ad affrontare da solo il ragazzo comodamente seduto sul suo strumento di lavoro. Meglio parlargli da presso per non alzare la voce.

Il giovanotto lo vide e dopo avergli inviato uno sguardo preoccupato ritornò alla perlustrazione dei propri artigli.

S’avvicinava Salemme e più la distanza diminuiva, più si reprimeva il passo.

“Giovanò… ti pago dopo – esordì con la tremula disinvoltura di un braccio sollevato.

“Pagare… a me? E per che cosa? – rispose il ragazzo infastidito.

“Mò sono appena arrivato. Ho dimenticato le chiavi nel cruscotto – chiarì Salemme senza sentirlo – chiudo la macchina e al ritorno ti pago – insistette il rappresentante.

“E dall’ co’ ‘sti soldi! E che mi volete dare? Un euro, due euri o tre… non li voglio i vostri soldi! E poi sono stato già pagato. Potete andare, che alla macchina ci penso io. Anche con le chiavi dentro”.

Salemme ancora non lo sentì e aprì lo sportello. Lottò col portachiavi sfilando l’involto dal cruscotto.

“O’ fra’, ci vediamo dopo, mo’ vac’ e’ press’ – lo rassicurò. Lo salutò con la mano all’indietro mentre trottava verso la stradina della farmacia.

Il colloquio con la dottoressa fu lungo e penoso. Lo costrinse a fare due volte l’inventario delle scarpe ortopediche, per numero e modello. Alla fine, da dietro gli occhiali a gondola coi brillantini, gli ordinò una tredicesima per tipo e lui se ne uscì faticosamente accontentato.

Da lontano riconobbe il ragazzo accanto alla sua auto e con un moto di insofferenza infilò la mano nella fodera arrotolata, alla ricerca di qualche spicciolo. Senza parlare gli consegnò qualche moneta bronzea. Il ragazzo se le guardò nella mano poi alzò uno sguardo minaccioso verso l”uomo dall’altra parte dell’auto.

“Ma m’ate pigliate pe nu’ zingaro, c’aggià fa cu ‘sta munnezza? – gli ringhiò in faccia.

“So’ pochi? – rispose l’uomo.

“Non so’ né pochi, né molti. Io non sto qua per i vostri soldi. Lo vedete? Sto passeggiando. Sto prendendo aria – rispose il ragazzo in tono dignitoso.

“E allora che ne fate? Me li restituite?”

“Sti quatt’ centesimi è vulit’ aret’? – domandò con sarcasmo – mo’ me li avete dati, so miei e io e’ ghiett… int’a saittella – accompagnò le parole con uno scatto della mano che fece volare le monetine rossicce in un buco cavernoso sulla costola del marciapiede ove sparirono senza un suono.

Salemme sbarrò tanto d’occhi. Quel comportamento era quasi un offesa.

“Giovanò’… – azzardò

“Ma mò’ perché non ve ne iate… – lo interruppe il giovane, le quattro dita unite indicavano la strada con ripetuti strappi verticali – e poi io mi chiamo Gianni…”.

“Si, sì me ne vado subito, ma permettetemi, voi siete un poco strambo. Poco o assai e’ sold’ non si gettano – rifletteva ad alta voce Rocco.

“Voi mi avete offeso. Io manc’ faccio il parcheggiatore e vuie me mettite ‘n mano sta miseria! – accusò il ragazzo in un tono più conciliante.

La rabbia montava e Salemme si avanzò.

“Scusate, non per sapere i fatti vostri, ma che ci fate vicino alla macchina mia se non siete un parcheggiatore e poi per tutto questo tempo. La sorvegliavate? Per non farla rubare?”

Il ragazzo si guardò intorno come per raccogliere uno slancio che gli mancasse. Forse scorse qualcuno da lontano.

“E mo’ vulite sapè’ troppo. Ma allora non avete capito niente?”.

Il paesano mosso a pietà dall’evidente agitazione del rappresentante si decise a sprecare qualche altra parola.

“Maestro, vi sbagliate assai, io non guardo nè ‘a macchina, né ‘o parcheggio, sto sorvegliando a voi – disse così mentre guardava a terra.

“A me? E che v’ agg’ fatt? Ho sbagliato qualcosa? – rispose Salemme che cominciava ad avere paura. Quel paese aveva una brutta nomea.

“Ma no, non v’impressionate o voi o un altro sarebbe stata la stessa cosa. Io mi guardo la zona – rispose il ragazzo con un ruotare della mano che voleva comprendere tutta la piazza.

Rocco Salemme d’improvviso ebbe fretta, indietreggiò e sbatté la borsa sul sedile posteriore.

“Scusate tanto – aprì lo sportello, si sedette e avviò il motore. Voleva partire rapidamente.

“Guagliò, forse qua ci sono problemi? – sentì Salemme da una voce estranea e baritonale.

Alzò lo sguardo.

Un terzo individuo s’era affiancato all’auto. Chinato in avanti proponeva il suo viso rugoso nello spazio del finestrino aperto. Salemme squadrò un uomo dell’apparente età di settanta d’anni, baffetti radi e sottili, la cravatta monocolore azzurra e la giacca a quadrettini. Un panno che non si indossava più da tempo.

“No, e quali problemi? – rispose Rocco dal basso del suo sedile.

“Ho visto che discutevate col ragazzo – alzando la voce fece un cenno verso il giovane che si era allontanato – Gianni vieni qua, ma che è? É successo qualcosa?”

“No, per carità – sorrise di compatimento indicando Rocco con la mano tesa – il signore mi aveva preso per un parcheggiatore. Non lo sa che qua non ce ne stanno”.

“Permettete – gli si rivolse l’uomo maturo – Carmine Minieri – e dopo uno sguardo rassicurante – vi avevo già notato altre volte. Durante l’anno siete già venuto in paese, non è vero?”.

“Per dire la verità io qui ci capito ogni due mesi – rispose Rocco senza entusiasmo.

“Sì, ho notato che siete un bravo giovane. Un lavoratore. Andate ogni volta in quella farmacia. Fate il rappresentante, non è vero?- insistette il vecchio

“Certo – rispose seccamente Rocco.

“Gianni, ma tu le devi vedere subito le brave persone – don Carmine si era voltato infastidito verso il ragazzo – se no qua facciamo solo figure di merda”.

“Don Carmine’, ma come faccio a saperli prima!” – rispose risentito il ragazzo.

“Se non sai vedere la gente, che te tenimm a fa’… Devi cambiare mestiere, Gianni – lo rimbrottò l’uomo.

“Va be’ lasciate stare – interloquì Rocco rassicurato dall’intervento in suo favore – non poteva sapere… ma scusate che ci fa ‘sto ragazzo in mezzo alla strada?”.

Il vecchio ignorò la domanda.

“Mi sono avvicinato solo adesso… per una curiosità. Voi siete una goccia d’acqua con mio figlio! Da tempo lo volevo fare. – si giustificò intenerendo al voce.

“Che combinazione! – replicò Rocco poco interessato.

“Peccato che è morto. Sette giugno 2003. Sono adesso otto anni, è stato un “incidente”. Proprio qua, in questa piazza – si guardò intorno come volesse sincerarsi che fosse esattamente quella.

“Me ne dispiace assai. Una cosa di automobili? – suggerì Rocco.

“Quasi… – rispose l’anziano soprappensiero.

Avvolse di nuovo la quinta dei palazzi malridotti con uno sguardo rassegnato e continuò.

“Ogni volta che vi rivedevo mi sembrava un avvertimento del destino, un richiamo e adesso vi ho voluto conoscere”.

Forse per l’orario di pranzo, o per la presenza di quell’uomo la piazza era diventata deserta. Molte auto avevano abbandonato il polveroso parcheggio lasciando i tre come birilli al centro della spianata.

“Ho visto Gianni che vi importunava e mi sono avvicinato”. L’anziano si stupì delle spiegazioni che stava presentando allo sconosciuto e di una certa dolcezza che gli era cresciuta nelle parole.

“Ma questo Gianni lavora insieme a voi? – azzardò il rappresentante.

“Sarebbe un discorso lungo… diciamo di sì… per questioni di pulizia – spiegò l’uomo.

“Pulizia… ma non mi pare che a pulizia… – rispose Rocco indicando con le dita il cumulo di sacchetti che smussava l’angolo di un palazzo digradando fino sul marciapiede.

“Lo sapevo che non capivate. Per la pulizia che dite voi non c’è niente da fare – si guardò di nuovo intorno come per un tic, poi si volse verso Rocco – ma scusate, riflettete un poco sulle cose… Avete dimenticato le chiavi nel cruscotto? E la macchina la ritrovata al suo posto, o no?”.

“E certamente! – ammise Salemme

“E questo e tante altre miriadi di cose sono la pulizia. Vedete… quando la zona è pulita non accadono incidenti – s’era stancato di stare curvato a parlare – stiamo male qua. Se permettete… vi vorrei offrire un caffè… per riparare al fastidio”.

Rocco, nonostante la fretta, non se la sentì di negarsi e uscì dall’auto sfilando rapidamente le chiavi dal cruscotto. Don Carmine s’inoltrò nella giornata grigia e afosa verso il bar Moderno. Alluminio brillante e blu imperiale.

Una torma di bambini, stormo azzurro di grida. passò rapidamente dalla vicina scuola elementare.

Minieri lo precedette nel salone. Marmi lucidi e finiture di ottone brillante. In un paese dove nel centro storico le case cadevano a pezzi. Nemmeno quel quartiere era ben combinato e quell’ostentazione strideva malamente con il contesto, ma Salemme si guardò bene dall’esternare le sue riflessioni. Quel fasto gli diede un attimo di soffocamento, la fame d’aria che si prova alle grandi altezze, il vuoto di uno sforzo senza punto di applicazione.

“Un aperitivo? – si offrì Don Carmine

“Un Crodino – rispose Rocco rassegnato.

“Gennà’, un Crodino al signore e un Carpano a me, al tavolo, con un po’ di sciuccuaglie. Senza nucelle, però. Chelle dalle ai colombi – e dopo questa sentenza si avviò verso le poltroncine con i cuscini cuciti a mano. Rocco lo seguì riluttante e in un attimo furono seduti fuori al bar ad aspettare.

“Lo conoscete il Carpano? É un vecchio aperitivo che nessuno consuma più. Genny lo prende solo per me – gli sorrise don Pasquale – io vi ho capito. Siete uno come me, che gira per tutta la giornata. É giusto che un po’ di siesta ce la pigliamo”. Arrivarono gli aperitivi con dei tramezzini triangolari.

“Ho visto che vi siete tirate le chiavi dalla macchina. Non è un segno di fiducia, non dovete temere qua non succede niente, la zona è pulita”.

Rocco si rassegnò all’ospitalità dello sconosciuto. Bruciato l’ultimo appuntamento, la farmacia successiva avrebbe aperto solo alle quattro e mezza.

“Lo vedete questo bar con la tappezzeria blu? Prima era rossa. Gliela ho fatta cambiare io – prese nella mano un lembo della tovaglia e lo stropicciava fra le dita come a misurarne la consistenza. La faccia carnosa si era orientata verso l’alto

“Non c’era un alito di vento quella sera e nemmeno io c’ero al paese – disse il vecchio al cielo.

Non aveva ancora toccato nulla. Non il Punt e Mes, col ghiaccio che si andava cupamente sciogliendo, né il poroso tramezzino. Rocco non capiva bene di cosa si parlasse, ma il vecchio era salpato per un suo cammino che nessuno avrebbe potuto fermare.

“Quando accade un “incidente” – continuò – c’è un fuggi-fuggi generale e poi la gente, quando tutto è finito, ritorna e forma un cerchio intorno all’incidentato… io quella corona la vidi da lontano, i più audaci si avvicinavano, il resto a fare da cornice ai lati alla piazza, tanta folla in cerchio che mi sembrava quegli spettacoli che danno per televisione quando ammazzano i tori, sapete la Corrida. Nessuno mi trattenne. Uomini come noi devono avere il coraggio di vedere e io lo vidi. Per prima le due tovaglie rosse che coprivano il corpo rannicchiato, come si fosse raccolto, concentrato, a rimediare a un dolore insopportabile. Il sangue venuto via, ‘na pozzanghera enorme. I morti “incidentati” sono quasi sempre già coperti e si riconoscono dalle scarpe. Mi vennero incontro le sue Tod’s marrone unite come una V rovesciata. La faccia era nascosta, coperta dal drappo rosso della tovaglia, il sangue sembrava un altro tessuto che si fosse sfilacciato dalla stoffa sulla massicciata. L’avevo lasciato al mattino insieme a Gianni che correva sulla motocicletta. E l’ho trovato così”.

Il viso sì era indurito in un mascherone minaccioso e guardava Rocco quasi lo volesse mangiare.

“Non lo volli guardare in faccia perché proprio là, l’avevano mitragliato, per sfregio. M’erano bastati i piedi e le mani e non l’ho più rivista la faccia di mio figlio – lasciò cadere il braccio sul tavolino e bevve lentamente il liquido marrone – però l’hanno pagata”.

Le colonnine di falso marmo bianco che bordeggiavano le aiuole disseccate s’erano oscurate di un grigiore sporco, inseguendo il cielo che s’incupiva di maltempo.

A quella descrizione Rocco s’era turbato e non sapeva cosa dire. Si concentrò sul giallo del suo bicchiere morsicando distrattamente il tramezzino.

“Vi ho sempre guardato da lontano e la faccia di mio figlio a’ vulev vedè’ nata vota, anche se non è la sua…”.

Il vecchio era come abbandonato sulla poltroncina, le mani strette nervosamente ai braccioli.

“Ma che ci azzecca tutta questa storia col povero Gianni e con voi che venite qua, penserete voi?… – riprese Minieri volgendosi verso Rocco con aria stanca – quanti anni avete? Trentasette, avete detto. Franco, mio figlio, ne averebbe oggi trentacinque. É impressionante lo somiglianza, perfino la camminata. Ogni volta che vi vedevo arrivare mi convincevo che la storia del vostro sosia, mio figlio, ve la dovevo raccontare. Fa parte del prezzo che bisogna pagare per tutto questo – e indicò col braccio la piazza quadrangolare con le robinie e i praterelli disseccati. Gli angoli delle due strade affluenti erano smussati da una risacca maleodorante.

“Pensate che noi siamo pazzi? Voi mi direte, non è mica ‘na cosa bella tutto ‘sto paesaggio? É vero?… Perché, come tutti… voi non riflettete, venite, guardate, guardate, ma non vedete niente – il vecchio s’interruppe e con la mano che s’agitava nel vuoto gridò – Genny portacene un altro”.

“Qualche volta vi ho visto entrare – continuò il vecchio – nel garage che sta nella traversa. Si paga caro eh? A’ prossima volta andate a nome mio che non pagate niente. Vi hanno mai dato uno scontrino? E me lo confermate, mai non è vero?”

Il cameriere s’era precipitato a poggiare sul tavolino un altro bicchiere marrò, col ghiaccio e la buccia d’arancio. Rocco ebbe l’impressione che il bar fosse rimasto aperto solo per loro due.

“Voi penserete che il garagista è gente malvagia e che non vuol pagare le tasse, ma pensate male… vediamo se siete un ragazzo intelligente. Perché vi sbagliate? Non me lo sapete dire. Vengono, guardano, guardano e non vedono niente! Questo fanno tutti. Doppie tasse vogliamo far pagare a stu’ puveriello del garage? Lui già paga a noi per la pulizia e io pago Gianni e così via”.

Si portò la mano al naso storto e sottile, come per coprirsi il volto.

“Non siete mai andato dall’altro farmacista? – parlava quasi col bicchiere in bocca – capisco… per non dispiacere a questa qua. Ma la conoscete l’altra farmacia eh? A Piazza San Gennariello…. è uno spiazzo molto più grande e lì, guaglioni come Gianni ne ho dovuto mettere altri due. Vi sono cinque vie che sboccano e uno solo non basta. Non dico che qui sia un’isola felice, ma nessuno sconosciuto potrà venire qua in giro a fare il comodo suo”.

Si fece silenzio tra i due, ognuno perso nelle sue ossessioni. Furono interrotti da un malandato camioncino che si fermò all’altro lato della piazza. Due operai scaricavano rumorosamente tubi componibili e sfoglie rettangolari di metallo lucido.

“Il nostro mestiere è difficile… – riprese Minieri come rimesso in moto da quegli schianti – noi dobbiamo conoscere e riconoscere tutti e questo è il principio della sicurezza. Le carte d’identità le teniamo stampate nel nostro cervello… stanno scaricando i cartelli, incomincia la giostra delle elezioni – senza voltarsi indicava alle sue spalle, con la mano chiusa e il pollice sollevato – adesso ci sono le votazioni. Ragazzo mio, non state a sentire a nessuno. So’ tutte fesserie, nessuno ha il coraggio di dire la verità. Io solo ve la posso dire, che siete per me come un altro figlio – si accostò all’uomo in un moto di confidenza – senza far rumore abbiamo realizzato nelle nostre zone un vero progresso sociale, una vera riforma…la gente guarda, guarda e non vede nulla. Nessuno l’ha capito e noi non lo diciamo, ma il vero Federalismo lo abbiamo realizzato noi al Sud. Ogni paese, ogni zona ha la sua gestione, il suo controllo del territorio, altro che grande Padania e altre fesserie come queste, quello Bossi è un buffone… – guardò il suo interlocutore con orgoglio – e anche il Federalismo fiscale abbiamo realizzato, qua pagano tutti, non evade nessuno…e i soldi non scappano a Roma. Rimangono qui”.

Rocco sentì una frotta di colombi atterrare nella piazza schiaffeggiando ripetutamente l’aria. Si sparse a terra all’unisono, pattugliando ordinatamente i giardini e il marciapiede. Alzò il capo verso quel rumore e poi rivolse uno sguardo impaziente verso don Carmine. L’uomo colse a volo l’invito e finalmente gli domandò come si chiamasse.

“Rocco Salemme – rispose il giovane che taceva da un bel po’.

“Bravo ragazzo. Ti sei fidato. Hai detto la verità, perché io già lo conoscevo. Ciao guagliò, grazie di essere rimasto, m’è sembrato di essere ancora un padre… me ne vado prima io, arrivederci guagliò”. Inaspettatamente lesto s’alzò e senza voltarsi gli ordinò.

“Rocco non pagà’ niente che qui è tutto gratis”.

Si avviò verso il centro della piazza. Scalciò rabbiosamente verso un colombo che non gli obbedì e si posò solo un metro più avanti. Ne inseguì un altro che nemmeno si lasciò toccare.

Mentre radunava le sue cose Rocco raccolse dal fondo della piazza una bestemmia. Senza nemmeno voltarsi si avviò a passo lesto verso la sua l’auto.

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3 commenti »

  1. Caro Paolo, ho trovato il tuo racconto molto bello e parte da un punto di vista che spesso solo persone di origine meridionale possono comprendere a pieno. l’unico problema è la lunghezza, che secondo i regolamenti è eccessiva per un sogetto di un corto (3500 battute spazi inclusi). se puoi ancora vedi se riesci a inserirlo nella sezione racconti. sarebbe un peccato se venisse non considerato soltanto per la lunghezza. scusami se mi sono intromessa, ma a dire il vero il racconto merita per potermi fare “gli affari miei”. spero comrpenderai.
    in bocca al lupo
    Rita

  2.  La scrittura di Paolo Scarfoglio oscilla spendidamente tra straniamento e  visualizzazione,  producendo esiti di smagliante espressionismo. Pur muovendo nel solco della “tradizione”, vi si insinuano desuete e raffinate soluzioni lessicali, talvolta di natura marcatamente poetica, che creano un sobbalzo emotivo nello scorrere della lettura, catturata  e intenta alla sollecitazione successiva che la mutazione del punto di vista offre per variazione o scarto. Una delle scritture non consuete nel nostro panorama letterario.

  3. Per me uno scrittore deve portarti dove tu non andresti mai da sola per poi farti scoprire che è proprio là che volevi andare. Paolo Scarfoglio con questi 2 racconti fa proprio questo!

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