Racconti nella Rete®

24° Premio letterario Racconti nella Rete 2024/2025

Premio Racconti nella Rete 2012 “L’uomo morto” di Paolo Scarfoglio

Categoria: Premio Racconti nella Rete 2012

L’acqua bollente mi cola dritta nell’occhio, scivola sulla pupilla aperta dilavando le stille lacrimali espulse nell’agonia. Stranamente non brucia. Niente avverto, se non questo sporgersi dello sguardo oltre la mia testa malamente piegata sulle palustri piastrelle di Vietri.

Il temuto baratro.

Nient’altro che un precipitare verso un rosso traguardo trapezoidale lacerato di strappi neri presto demoliti da questa strana luce d’ospedale, un plasma di nebbia. Sento avanzare il freddo, aumentare un rigido torpore nonostante il calore continuo della doccia. L’immobilità non mi è familiare ma in questa paralisi muscolare mi sento bene.

Nessuno forza la porta, nessuno s’è accorto che nella giostra del mattino qualcuno non gira più, ma alla fine qualcun altro entrerà in questa angusta stia per polli chiamata splendidamente “secondo servizio”. Mi scoprirà appeso per il collo e con le gambe ripiegate. Come in ginocchio, perché il robusto braccio della doccia è troppo in basso.

Temevo di non riuscirci, invece è andato tutto proprio bene. Forse non ne ho alcun merito, se non quello di aver provato il procedimento infinite volte, andando sempre più vicino alla morte.

Questo stato di visione crepuscolare, con questa mancanza di respiro, resisterà?

Forse mi sarà concesso di guardare le loro facce attonite! Sentirò le loro grida?

Farò in tempo ad assistere all’Evento o mi spegnerò prima, lentamente?

Mi chiedo, con gli occhi arrovesciati e il capo rivolto verso il soffitto, come riesca a vedere la porta che mi è davanti. I miei occhi sono morti e nulla percepisco come prima. Sì, quando ero vivo. Ma lo sarò mai stato completamente?

Percezione incerta. Nebbiosa nelle immagini e rarefatta nei rumori. Ho la convinzione che non provenga dagli occhi, né dai timpani, ma misteriosamente mi sembra nasca da ogni parte di me, quasi che dopo la mia fine sia avvenuta una migrazione dei vari sensi, dagli organi loro propri, verso ogni cellula esterna, epiteliale del mio corpo, accendendoli di un fioco potere ultra sensoriale. Una fusione di quelli sparsi e specializzati che avevo prima. Mi par di udire e insieme vedere, odorare da ogni mia superficie.

È questo led fievole, la morte? Non si muore mai o soltanto a un certo livello di disfacimento del corpo? Non lo avevo previsto che dopo il crollo avrei potuto ancora percepire.

Presa la decisione di serrarmi la cintura intorno al collo, rimasi paralizzato dalla paura del dolore, che immaginavo terribile. Avrei cercato di esorcizzarlo provando e riprovando l’impiccagione, fino sul limite del soffocare.

Cinque anni ci ho pensato. Sì, a morire, e più trascorrevo le mie giornate a immaginare la scena con dovizia di movimenti e di particolari, più mi convincevo che non ci si può ammazzare d’impulso. L’impulso genera tentativi falliti, sceneggiate per impaurire i parenti. Il suicidio mortale va preparato con cura, con attenzione didattica e sperimentale. Morire non è facile, se non si vuole ricorrere ad armi da fuoco, giustamente devastanti per spegnere la vita. Perché la vita resiste e incrudelisce in un’opposizione disperata che spesso crea più danni e dolori di una morte vera.

Alla fine, l’ho fatto solo per loro. Per mia moglie e per i miei figli.

Non si possono venerare indefinitamente i propri carnefici, i propri torturatori. È proprio questa la parte più insopportabile del dolore! Bisogna strapparselo di dosso l’affetto e stappare l’odio, farlo sgorgare fuori come una diarrea interminabile. E poi la domanda. Come gliela sbatto in faccia tutta questa merda?

Ci arrivai dopo molte notti insonni.

Morire avanti a loro e terrorizzarli per ogni attimo della loro vita futura, col mio corpo divenuto cencio esangue e livido. L’inspiegabile passaggio da persona a cosa, proprio sul vostro muso, maledetti!

Ma è un vero ricordo? Perché adesso non sento più rabbia nell’invasione di ultracorpi che mi paralizzava di giorno e mi lasciava senza sonno di notte.

Non so quando è cominciato. Il come, invece, lo rammento ancora.

Iniziò con progressioni mattutine di una stanchezza mortale. Quell’estrema debolezza copriva la verità della mia vita e a ogni mio precipitare, la donna che non osavo più chiamare moglie, si rivelava per quello che era. Un essere infelice attratto dai fantasmi di una ricchezza che le avevo fatto balenare ma non era mai esistita.

Presto seppi come sarebbe andata a finire.

Si vergognava di me. Riuscii a carpirle una telefonata con la sua amica del cuore, maledetta Giovanna, anch’essa notoriamente adultera.

“Questo stronzo deve solo scucire i maledetti soldi” – le diceva. Che non avevo e che mi affannavo “creare” attraverso le numerose relazioni della mia famiglia.

In una parola. debiti.

Anzi, in quel periodo, non un cliente degno di questo nome. Il mio studio di maturo avvocato era semideserto ma non dissi mai nulla a nessuno. Qualcosa alla fine doveva cambiare. Uscivo ogni mattina con frettolosa abitudine, ma nemmeno un cane mi aspettava. Me ne andavo in tribunale a incontrare colleghi, a trattare poche cause senza speranza. Il pomeriggio navigavo nella sala giallastra del Bingo di fronte all’ufficio e dopo qualche scarno gioco finivo a chiacchierare con gli addetti alla sorveglianza diventati i miei soli amici.

O da mia madre. Discreta, mi lasciava sedere sulla poltrona davanti alla televisione, in rispettoso silenzio della mia nullità.

Nei miei figli, coglievo sguardi derisori per la mia palese depressione o di sarcastico rimprovero dopo le defatiganti discussioni con mia moglie. Che pensavano di me? Di un padre costretto a difendersi con la rabbia impotente delle sue parole dai ripetuti adulteri della moglie? Si allontanarono, mi parlavano da una riguardosa distanza, come per la paura di un contagio o di qualche equivalente disastro.

Prima che concepissi il Progetto che ha occupato la mia intera vita negli ultimi cinque anni. Il grandioso piano per morire. Come ora sento, riuscito perfettamente, senza errori e sbavature. Finire per propria mano, in orgogliosa serenità, coi tempi e modi programmati e per di più lasciando in eredità a loro il furore di questa maschera che si va lentamente contorcendo e disfacendo.

La più riuscita impresa della mia vita, forse l’unica.

Fu per un caso o una necessità o una profezia che per un periodo fossi angosciato ossessivamente dalla mia morte, quella naturale, normale che avviene per malattia, per vecchiaia. O per incidente.

Oh, che mi accadeva! Non terrore, non angoscia ma un furore di libertà. Dico furore perché questo pensiero di morte mi allagò di una forza sconosciuta. Raramente m’ero sentito così pieno di vita. Sorrisi come un cretino, parlando da solo in mezzo alla Piazza della Città. È molto grande e non mi vide nessuno.

E se l’avessi anticipato io quest’evento? Non solo avrei accelerato la fine del mio dolore di esistere in quel modo, ma nell’organizzare questo complicato, grandioso evento avrei portato a termine la mia naturale vendetta.

Pensai per un attimo alla mia permanenza su questa terra. Ero nato per sbaglio, ultimo e distanziato dai miei valenti fratelli, i genitori separati subito dopo la mia nascita, sposato per compravendita e catapultato negli ultimi anni in un’epoca che non era la mia. Non capivo più niente di cosa accadesse nel mondo.

Fu facile prendere una decisione e da lì cominciai.

Il primo esercizio fu solo mentale. Dovevo trovare un sistema anestetico. Ben presto mi resi conto che non era alla mia portata. D’altronde, nemmeno negli Stati Uniti l’avevano trovato per la loro Pena Capitale. Dovevo rassegnarmi al dolore.

Annotavo diligentemente sulla mia agenda i giorni delle esercitazioni segnando semplicemente un numero progressivo a diminuire. Erano le prove che mancavano all’Evento e che rapidamente si consumavano. Fu una salutare progressione di dolore. Una volta però, rischiai di morire anticipatamente.

Sì, di spegnermi ingloriosamente senza poter organizzare il mio teatrino. Appena in tempo, sciolsi con uno strappo il nodo che ancorava la cintura al tubo e mi salvai. Con vomito e affanno.

Che sia il progressivo irrigidimento, nelle sue contrazioni, a generarmi quest’altra energia di pensieri nebbiosi? M’appare il mio modesto fuoribordo. Mio, perché l‘anziano suocero non l’ha usato più. Un altro frammento di me che non riuscirò a integrare. Ondeggia alle raffiche di maestrale. Mi vedo raggiungerlo a nuoto. Nemesi di un pomeriggio agostano illividito da improvvise freddezze. Ho temuto per lunghi minuti di non arrivarci più, di perire in mezzo al mare con moglie e figli la barca irraggiungibile per il mare grosso. Marinaio del cazzo, ho abbandonato la barca senza ancoraggio! Guardo la mia gamba scavalcare faticosamente la fiancata. Sono stremato per il peso della loro vita nelle mie mani e per le mie convulse bracciate che hanno irritato il mare di qualche irrisorio spruzzo. Rallentare, decelerare i movimenti per non sbagliare. Finalmente la chiave entra e avvio il motore, il lungo giro a raccoglierli, già un po’ stanchi. Il ritorno faticoso, nello sforzo di far marciare ogni evento per il corridoio giusto fino alla rada del porticciolo illividito da basse onde brune.

Mi sento contagiato da quella liquidità marina e ogni tensione di questo ammasso cellulare, che non oso più chiamare corpo, si scioglie in cedevoli fosse e la percezione si slabbra in getti di luce opachi e indifferenziati. Quell’acqua che mi sento diventare sta anche dissolvendo il mio rancore nero di decenni.

Un tramestio oltre la porta.

Ora si stanno agitando perché non mi hanno trovato. Forse pensano che sia silenziosamente uscito senza salutare, ma accadrà che premeranno sull’uscio chiuso, varcheranno questa soglia.

Ma adesso un nuovo avvertimento mi sgorga dalle viscere fredde.

Non posso, non voglio più vedere. Sì, i miei figli inorridire di fronte al mio volto livido e acquoso, alla pupilla che non posso più chiudere. Mi pervade una parodia di terrore.

Sono colpi, questi interminabili timpani che mi tendono la pelle?

Vi invoco, tenebre della morte, invadetemi. Prima che il mio sangue, ancora vivo nei miei figli, entri in questo obitorio.

Sì, colpi sempre più rapidi e disperati. Qualcuno ha capito o teme? Sono innumerabili le mani che colpiscono la porta, adesso mi consegnano un suono continuo. Lei e quella ripugnante Erminia, la sua cameriera?

Ora non battono più. Sicuramente sono a telefonare ai pompieri o alla polizia.

Fra poco sfonderanno. Entreranno degli estranei insieme ai miei figli.

Chi avrà parole per loro? Chi riempirà la frana della loro anima sul cui orlo barcolleranno per tutta la vita?

La mia estenuata energia sta colando via come un rigagnolo maleodorante lasciandomi in un’inerte pacificazione. Spero che tutto finisca presto, credo di urlare. Crolli presto il buio sopra di me per non vedere i loro volti, i loro occhi sbarrati di ragazzi, senza parole di fronte al male totale che a tradimento li colpisce. Con l’assoluta violenza dell’evento ignoto e imprevedibile.

Questo non potrei mai sopportarlo.

Dio, medici, uomini, fatemi morire! Morire per davvero! Aiutatemi chiunque lo possa! Dilaniate questo corpo che ancora distingue la luce e concedetemi la pace del buio.

 

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