Racconti nella Rete®

24° Premio letterario Racconti nella Rete 2024/2025

Premio Racconti nella Rete 2012 “… Del frullatore e dell’imbuto giallo” di Katia Mascagni

Categoria: Premio Racconti nella Rete 2012

Era lì davanti a me. Era passato un mese. Avevo contato i minuti, i secondi, i miei respiri. Se ripenso all’emozione di quel pomeriggio, al trucco, al vestito, sento una grande vergogna che cresce dentro di me.

“Ridicola. Ridicola piccola creatura. Ma che cos’hai nel cervello?”. Lì davanti a me mentre vestivo il mio corpo secco e spento, c’era il frullatore che sogghignava e parlava tra i denti.

Bastardo di un frullatore. Mi derideva, ma io invece di dar credito a quello che stava dicendo continuavo a prepararmi.

L’imbuto giallo sembrava quasi che si vergognasse per me, sembrava che pensasse: “Povera ragazza! Mi fa pena. Come fa a riporre tante speranze in questo stupido inutile incontro. Vorrei salvarla da lui e da se stessa.”

Quel  frullatore non mi lasciava in pace un momento, gracchiante ed implacabile; era sempre lì, immobile ed austero, geometricamente perfetto. Enormi bottoni sul davanti, per regolare la velocità, un coperchio in acciaio inox, splendente. La sua pancia era trasparente, dentro lame taglienti come bisturi, luccicavano minacciose. Ricordo la prima volta che lo vidi. Era enorme, era lì, davanti ai miei occhi, mi guardava, mi chiamava… “Devi entrare, non puoi fuggire, è un passaggio obbligato, se ti vuoi salvare devi entrare chiudere il coperchio e farti frantumare bene bene”.

Ma io aggrappata al letto lo guardavo terrorizzata e gridavo “No non ci entro neppure morta … rimango qui nel mio letto, a piangere a deprimermi, vivo così … 30 gocce di ansiolitico per dormire, un pacchetto e mezzo di sigarette al giorno, schifosamente denutrita, ma dentro a quel frullatore non ci entro perdìo! E poi ci sono già dentro a un frullatore … mi gira la testa, ho voglia di vomitare …”.

E poi l’imbuto giallo … Già, una mattina mi svegliai … mi guardai intorno come smarrita … il frullatore, le solite cose … e un imbuto, mi stropicciai gli occhi per vedere meglio, era proprio un imbuto, rovesciato sul comò … giallo, immobile … che cazzo ci faceva lì quell’imbuto?

Era lì per un motivo questo era chiaro. Mi stropicciai di nuovo gli occhi … magari se ne andava … niente, imbuto giallo e frullatore rimanevano lì davanti a me!

Quella sera erano lì, avevo quasi imparato a conviverci, ormai era passato un mese da quando erano entrati nella mia vita …

Capelli puliti, maglione nuovo, collana, trucco … come ad un primo appuntamento. Scesi le scale per andare incontro al mio destino ed il mio cuore batteva forte. Colma di speranza, spaventata e terrorizzata.

Lui era lì, davanti a me. Erano i resti di un rapimento alieno. Era lì davanti a me, mi guardava. Si sicuramente, come avevo fatto a non pensarci prima?

Erano i resti di un rapimento alieno!

Quella mattina di circa un mese prima, un’astronave doveva essere atterrata nel nostro giardino mentre io facevo colazione. Gli alieni erano scesi furtivamente, in silenzio, tanto che io non mi ero assolutamente accorta di niente. Probabilmente lo avevano trovato in giardino e dovevano averlo catturato. Pensavo che se ci fossi stata io, lì fuori, avrebbero preso me. Certamente era andata così. Come nelle migliori trame fantascientifiche gli alieni, dopo averlo imbavagliato e condotto con la forza ad entrare nella loro astronave, avevano creato un doppione, un clone insomma, a sua immagine e somiglianza, poi, dopo averlo istruito a dovere me lo avevano rispedito e loro si erano tenuti l’originale, quello vero, quello buono. Le caratteristiche fisiche erano  identiche, ma per il resto non c’eravamo proprio … si certo, saranno anche intelligenti questi alieni, ma come potevano pensare che non me ne accorgessi? L’originale, quello vero, quello buono, probabilmente in quel momento lo stavano ispezionando, vivisezionando, analizzando al microscopio su un tavolo freddo, come una rana in un laboratorio di biologia. Stavano tentando di comprendere il genere umano … potevano essere certamente più selettivi nella scelta e nell’individuazione della loro cavia. Il clone che mi si parava davanti e che io avevo smascherato, era sprezzante, baldanzoso, freddo, ironico, sarcastico, rideva anche se non c’era niente di cui ridere, era frettoloso, agitato, teso … i suoi occhi inespressivi, le sue parole vuote. Il sembiante non riusciva neppure a guardarmi negli occhi, non ascoltava le mie parole, parlava a voce alta, quasi stridula, concitato, ansioso. Mi inondava di immondizia … rinnegava tutto quanto c’era stato, non salvava niente. Le vacanze, i posti che avevamo visto insieme, la realizzazione della nostra casa, le uscite e le cene con gli amici. Perché quel replicante mi diceva quelle cose terribili?

Ma certo, loro, gli alieni, volevano studiare il comportamento umano. Le emozioni degli uomini  di fronte a situazioni disperate … praticamente eravamo degli attori, il replicante ed io, e nel suo cervello c’era un cip collegato direttamente con il computer dell’astronave e da lì mi stavano scannerizzando. Sul loro monitor sicuramente c’era una scansione del mio corpo, tutta colorata a zone, e loro tentavano di capire le reazioni alle parole che mi diceva il sembiante, le interrelazioni tra emozioni e reazioni fisiche … si, certamente era così. Lo dovevo salvare quindi? Dovevo seguire il clone e raggiungere l’astronave, liberare l’originale e riportarlo a casa? Oddio che cosa dovevo fare? Era una situazione veramente disperata. Ma volevo ulteriori prove che quello che pensavo fosse vero. Come potevo fare per avere la certezza matematica che quello che avevo davanti fosse quello che pensavo? Potevo tirargli addosso dell’acqua e vedere come reagiva! No, di sicuro dopo gli ultimi film si erano attrezzati anche per superare quest’inconveniente. Allora incominciai a fargli domande alle quali solo lui poteva rispondere … ed infatti rispondeva. Dovevano averlo fatto studiare molto, sapeva tutto della nostra vita. E non mi lasciava spazio per replicare (già, infondo il replicante era lui!). Non avevo scampo, non potevo trovare le prove che cercavo. E l’unica cosa che potevo fare quella notte era tornare a casa mia, con la coda tra le gambe, a leccarmi le ferite.

Facile immaginare come passai quella notte. In testa solo le sue parole, negli occhi solo quel volto trasfigurato ed irriconoscibile. Quella sera perfino il frullatore ebbe pietà di me. Non proferì parola quando rientrai, stanca, distrutta come se avessi combattuto una battaglia. Lasciò che mi distendessi sul mio letto e aspettò che le mie lacrime cominciassero a scendere, puntuali come al solito. Mi guardò con disapprovazione ma senza dire una parola.

Pensavo che non potesse farmi più male di così. Pensavo che finalmente da quel fondo non avrei potuto che risalire. Naturalmente mi sbagliavo … i suoi piani andavano ben oltre e pochi giorni dopo disse a mia sorella che aveva messo tutte le mie cose nelle scatole e che dovevo andarmele a prendere.

Quando arrivai nel giardino con mia sorella e suo marito mi misi a scrutare la terra sotto ai miei piedi, certa di trovare le tracce dell’atterraggio dell’astronave. Non vidi
niente. “Strano – pensai – devono aver rimosso ogni traccia”. Era si passato un mese ma le tracce del passaggio delle astronavi sono persistenti, per questo pensavo di trovare l’erba bruciata, la pietra scalfita … niente, nessuna traccia. Non avevano lasciato indizi. Entrammo dentro casa. Il cuore si modificò. Non so dire se diventò piccolo piccolo, o enorme per contenere tutto quel dolore. I nostri libri, la nostra cucina, il nostro divano. Era tutto lì. Ma niente era più nostro. Per terra c’erano le scatole che aveva già preparato, cosa che mi fece di molto incazzare. Rabbrividii all’immagine di lui che metteva tutte le mie cose dentro a quelle scatole e le chiudeva col nastro isolante. Mi faceva sentire morta. Si, mi faceva pensare a quando le persone si sbarazzano delle cose appartenute ai cari estinti e mettono tutto dentro a degli scatoloni e chiudono. Ma io non ero morta cazzo, almeno non ancora. Poi non sopportavo neppure l’idea che lui avesse toccato le mie cose … infondo era un replicante e poteva avere un virus alieno che avrei contratto e ne sarei morta. Quindi in ogni modo la situazione era schiacciante, comunque la vedessi io ero morta o lo sarei stata di lì a poco, il tempo di cambiarmi le mutande. Presi le mie cose dagli armadi e confusamente cacciai tutto dentro a buste, borse e scatole. Volevo portare via da lì tutto quanto potessi. Nessuno parlava, silenzio tombale, solo i miei singhiozzi riempivano quel vuoto. Il mio odio verso di lui cresceva, lo odiavo per averci messo in quella situazione. Odiavo il fatto che  ancora una volta si fosse sottratto dalle sue responsabilità ed avesse delegato agli altri cose che spettavano a lui. Ero sola, sola con tutte quelle cose sparse per la casa, con le buste per terra, con gli scatoloni e le valige da chiudere. Uno scenario di devastazione totale. Almeno a me sembrava così. Stavo scendendo sempre più giù, là infondo a quell’inferno, e sapevo che da quel fondo, di lì a poco,  non avrei potuto che risalire.

Passarono i giorni … Era un buon periodo e la convivenza con il frullatore e l’imbuto giallo andava benino … l’imbuto era sempre molto taciturno e mi salutava a mala pena, Il frullatore era molto strano, ogni tanto se ne usciva con le sue frasi laconiche, ermetiche. Aveva perso quella forza, quell’impeto dei primi giorni. La mia vita stava andando avanti, meglio o peggio, dipendeva dai giorni. Avevo messo qualche pezza a destra e sinistra, ma non avevo ancora ricucito per bene ferite e strappi.

Poi, finalmente un giorno l’imbuto giallo parlò:

“Forse è arrivato il momento di approfondire la nostra conoscenza. Infondo mi sono introdotto nella tua casa e a mala pena mi sono presentato. Capisco la tua perplessità, prima un frullatore, poi un imbuto … cos’altro ancora? A differenza del mio esimio collega il mio temperamento è molto più pacato; lui impetuoso, irruento e perentorio, ma se così non fosse stato, forse davvero ti saresti gettata lì dentro. Se amorevolmente ti avesse invitato a compiere quel gesto tanto sciocco, nella tua immensa fragilità lo avresti seguito ed ora saresti solo una poltiglia informe. Invece la sua strafottenza ti ha come svegliata, non ti sei nemmeno accorta con quanta forza ti sei opposta alla sua- o alla tua potrei dire- volontà di distruggere quello che sei … il frullatore non è altro che un riflesso di te stessa e della parte più critica che è dentro di te. Come in uno specchio ti è tornata indietro semplicemente una proiezione dei mille mondi emozionali che sono dentro di te … io non ho parlato prima perché non eri ancora pronta ad ascoltare la mia voce. Potevi solo condurre un duello serrato senza fiato con le tue parti deboli ed autodistruttive, le tue tendenze. Dovevi andare infondo al tuo dolore, dovevi vedere in fondo alla tua anima. Avevo fiducia nel fatto che una volta toccato il fondo, in qualche modo saresti risalita!”.

Iniziai a riflettere da sola nel silenzio della mia stanza. Il frullatore lo aveva sempre saputo infondo che io non mi sarei mai immolata dentro di lui, mi conosceva meglio di quello che pensassi ed io non conoscevo per niente lui. E’ vero, l’imbuto giallo aveva ragione, il frullatore, alla fine, manifestava solo i miei pensieri, pensieri che in qualche modo erano dentro di me. Se non si fossero materializzati in tutte quelle presenze pittoresche che affollavano la mia vita non avrei mai potuto uscire da questo labirintico momento, dal beccuccio claustrofobico di quell’imbuto. Poi invece ci sono passata da quella strettoia, un giorno ho deciso che quella doveva essere la mia strada. Ce ne sarebbe voluto di tempo a far passare tutta quell’acqua da lì dentro … ma uscire da quel foro sarebbe stata veramente una liberazione, e quando fosse passata tutta quell’acqua alla fine, allora si, sarei stata libera davvero. Libera di sgorgare, interrompendo per sempre quel circolo vizioso, quel vortice, quel mulinello che mi aveva costretto a percorre e ripercorrere il soliti passi, la solita strada, il solito pensiero.

 

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2 commenti »

  1. imbuto e frullatore, alias eros e tanatos? bella la scelta dell’oggetto del racconto. Complimenti.

  2. Praticamente si … grazie per i complimenti!!!

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