Racconti nella Rete 2009 “Singapore” di Paolo Da Lama
Categoria: Premio Racconti nella Rete 2009
Era quel sole bianco che non avrebbe voluto rivedere più. Era il sudore della fronte che scendeva lentamente, da fermo. Era quella cappa insopportabile che esauriva i polmoni.
Tutto questo presagiva il timore di una scelta non azzeccata.
La sorpresa di quella condizione climatica sfavorevole era il simbolo di tutto ciò che aveva lasciato: la felicità nascosta dalle ombre che la vita pone di fronte, la fatica accumulata dai sacrifici non sempre ricompensati, il respiro dell’esistenza che cominciava a diventare sempre più flebile e che stava logorando la prospettiva di una reazione alle sventure.
Ma Chong non si fece avvilire più di tanto dal primo impatto con Singapore e quella breve incertezza iniziale si dissolse trasformandosi nella consapevolezza di cominciare a guardare il mondo da un’altra prospettiva.
Saltare da un paese all’altro per sfuggire ai tormenti era diventato lo sport preferito di questo giovane uomo arrivato ai primi verdetti.
Ma era sempre stato un saltare nervoso, senza un obiettivo. Praticamente una tentata fuga.
La meta della piccola isola situata in punta alla Malaysia era arrivata quasi per caso, perché un amico ne aveva parlato ad una festa. Nulla di pianificato, nulla di ricercato.
I profumi di spezie orientali che condiscono ogni piatto di riso regnano nelle strade del centro, soprattutto Orchard Road, dove i cinesi tengono aperti i loro negozi anche di notte. Anche il giorno di Capodanno, ma solo nel pomeriggio, i malesi lavorano al cantiere per alzare i grattacieli e poi mangiano seduti sul marciapede, rigorosamente senza lasciare tracce di bucce o sacchetti. A Singapore se mangi una cingomma ti denunciano e ti fanno pagare l’equivalente di migliaia di euri. La strada è più pulita di un piatto in cui si mangia. Il poliziotto sorveglia, il business regna sovrano, anche per trattare un’acciuga al sale.
Questa atmosfera accompagna le lunghe giornate trascorse tra gli sguardi rilassanti dei musi gialli.
I musi gialli vivono mediamente più di altre popolazioni non solo perché mangiano il cereale fatto a chicco ma perché il loro volto sorride. Sorride dentro. E sorride fuori, anche quando sembra ombroso.
Chong tutto sudato, dopo poche ore si stava integrando nella nuova realtà e il primo grosso aiuto lo ebbe dal contatto con la signorina in kimono che gli serviva a due mani il bicchiere di Maotaijiu, 53 gradi di vigore servitogli all’ingresso dell’albergo.
Gentilezza, delicatezza e rispetto traducono subito l’approccio tra esseri umani in energia positiva. E rendono i rapporti più sani e duraturi.
Come era già lontano il volto scuro di sua moglie, prepotente e maligna che gli aveva portato via tutto, sangue compreso. Com’era lontano il pugno del capo sulla scrivania sommersa da tanti documenti inutili. Oh, come era già lontano il sapore del tradimento dell’amico che amico non era ma che si era semplicemente servito di una comoda relazione. Purtroppo per anni.
Ma Chong lo sapeva, solo che anche a lui, forse, tornava comodo così. Ma che fatica!
Nella Chiesa anglicana di Clemenceau Street c’è molto freddo. La forte aria condizionata irrigidisce le ossa ma non gli animi riscaldati da Yesterday dei Beatles che accompagna il rito del prete.
A pochi passi c’è la Chiesa cattolica, più in là il piccolo Tempio buddista, più in là ancora la Moschea islamica.
Tutto nella stessa strada. Questa varietà religiosa semplifica l’integrazione e rende l’uomo più tollerante. Le distanze che si avvicinano rendono l’uomo più conciliante.
Tu fratello di altra fede sei il benvenuto nel mio orto e mi pregio di esserti servitore delle tue richieste.
Chong fa tappa un po’ dappertutto e recepisce quanto dividere sia più difficile che unire. Praticamente il contrario di ciò che aveva pensato e visto fino ad allora, fino a quando un certo mondo lo aveva coinvolto.
In alcuni momenti venivano alla mente i discorsi del padre, sempre molto confusi, sempre ricolmi di risentimenti e animosità. Un padre robusto e butterato, dalle mani grosse ma dal cervello non troppo fino, vissuto nell’avventura e alcune volte nella violenza.
Americano di origine italiane, combattente in Vietnam, lavori umili, qualche guaio con la giustizia, prostitute e un po’ di polvere bianca.
Un padre che non gli aveva detto tutto e che adesso non poteva più dire nulla, trafitto e poi sconfitto dal male. Quel male là.
Il contatto con questo nuovo mondo stava dando le prime risposte al perché dei suoi comportamenti semplici e di bravo ragazzo. I suoi pensieri erano sempre stati molto lontani da ciò che gli avevano spiegato in casa il brusco babbo e la matrigna.
Prima o poi sarebbe arrivata la verità.
Non ci sono troppi turisti a Singapore bensì avventurieri che potrebbero fermarsi per sempre lì.
I luoghi non sono ameni, anche se quel tratto di spiaggia finta che forma la penisola di Sentosa ricorda parecchio il panorama caraibico, trenino hawaiano compreso.
Distendersi sulla battigia non ha il sapore che si ha quando ci si adagia su un qualsiasi bagnasciuga del mondo. Chissà perché vengono in mente i vietcong. Sembra di vivere in un documentario storico, lo sguardo verso l’orizzonte si va a scontrare contro le innumerevoli navi container che entrano ed escono freneticamente dal porto. Sono navi americane degli Yankees o sono i carichi di alimenti in tempo di pace?
Visto dall’alto il porto è tutto arancione, con acque profondissime e pertanto si presta molto al traffico delle merci.
Chong vagava con la mente, drink in mano, occhiali da sole,disteso sul lettino del tratto di spiaggia gestita dall’indonesiano dagli occhi verde smeraldo.
Proseguiva nella sua opera di redenzione da un passato che era ieri ma sembrava già vent’anni fa. Ed era tutto automatico. Una violenta successione di eventi in poco meno di dodici ore, dalla scaletta degli arrivi all’Aeroporto Changi.
Qualcosa stava accarezzando la sua spalla, qualcosa lo stava eccitando.
Forse uno spirito. Ma questi pensieri vengono solo a chi crede al soprannaturale.
Oppure la Fede.
Doccia, deodorante e scarpette da ginnastica sotto jeans scoloriti e maglietta a righe rosse, dopo un breve riposo, poi giù al ristorante. Gli occhi di Chong, solo lievemente a mandorla, brillano e vedono volti amici che circondavano il suo tavolino. Sono volti amici, si.
La serata passata al night con le geishe dei nostri giorni che ti trastullano e ti viziano. Non sono quelle che ci hanno descritto nei racconti, ma non ha importanza. Il taxista silenzioso, i vecchietti al tavolino della dama cinese, il grattacielo che impera sui crani ma non soffoca. Sempre la coltre di caligine ad incombere, quasi come una presenza divina.
Singapore ha qualcosa di Asia e tanto di America. Quel qualcosa ha un significato molto forte, quel tanto è solo un contorno.
Chong si stava chiedendo il perché di questa clamorosa ed istintiva immersione in un mondo che gli sembrava appartenergli da sempre.
E dire che solo ieri litigava con il meccanico perché lo aveva ingannato sulla riparazione dell’ autovettura. Sciocchezze da uomo medio di un altro pezzo della Terra.
A volte nella vita ci si sente avvolti da sensazioni strane, coinvolti in contesti che ci sembra di aver già vissuto.
Il giorno dopo c’è l’appuntamento con Mr. Thoy: gestisce ristoranti con cuochi italiani, cucina prelibata, niente spezie che t’uccidono, dolci camerierine thailandesi.
Mr. Thoy è un omone conosciuto al night la sera prima, tanta birra e valigetta di pelle nera sempre in mano, anche per andare a puttane. Sudaticcio ed anello al dito, quasi due metri di grasso e prepotenza un po’ recitata. Fosse italiano sarebbe subito catalogato come mafioso. Ma Mr. Thoy ha solamente lavorato venticinque ore al giorno su ventiquattro per quarant’anni della sua vita. Non sa qual è il colore del mare, perché al mare non c’è mai stato, pur avendolo a pochi metri.
Mr. Thoy, che non vive di burocrazia, perché nessuno a Singapore vive di burocrazia, ha detto a Chong di presentarsi nel suo ufficio al trentaduesimo piano di Raffles Center alle dodici in punto.
Sono passati cinque anni da questi eventi.
Adesso Chong è proprietario di due ristoranti italiani a Singapore e medita di espandere il suo business, vive con Athina, cinesina di quindici anni indietro a lui.
Chong in realtà si chiama Michele, ma ha voluto tagliare con il suo passato anche attraverso il nome di battesimo.
Era partito da Bologna, dove intascava un lauto stipendio mensile come funzionario commerciale di una grande azienda, viveva in un grande appartamento del centro, andava a cavallo, la domenica a pranzo dagli suoceri scorbutici.
A Bologna aveva vissuto per quasi tutta la vita. In realtà non aveva mai saputo dov’era nato, o nessuno mai glielo aveva detto. Ma sui documenti risultava Bologna.
Nel 1975 gli Stati Uniti si ritirano definitivamente dal Vietnam. I superstiti si portano via le cianfrusaglie. Qualche superstite riesce a portarsi via anche qualcos’altro, o qualcun altro.
Quella violenta umidità del primo giorno di Singapore aveva qualcosa di familiare. Una mano affusolata di donna dagli occhi a mandorla vezzeggia da sempre sopra di lui. Come uno spirito. Da sempre.
Hanoi e Singapore sono divise da un’ora di aereo.
Chong oggi ha trentacinque anni.