Racconti nella Rete®

24° Premio letterario Racconti nella Rete 2024/2025

Premio Racconti nella Rete 2012 “Il ritorno” di Carmela Tuccari

Categoria: Premio Racconti nella Rete 2012

Il Tunnel, lunghissimo e buio, sembrava non dovesse mai finire. Giada non ricordava d’averlo imboccato, tantomeno da quanto tempo lo stesse percorrendo. Sentiva il suo corpo galleggiare, incellofanato dentro una pellicola sottile e trasparente, mentre percorreva quel budello nero seppia, sforzandosi di individuare, se pur lontanissimo, un puntino di luce. Magari un lumicino fievole come quello intravisto da Hansel e Gretel nel cuore della notte, quando abbandonati nel fitto del bosco, vi si erano persi. Quel lume, è vero, si era poi rivelato una trappola, ma l’astuzia del ragazzo e la forza di sopravvivenza dei due fratelli l’avevano avuta vinta sulla malvagità della strega.

Lei non era astuta, tutt’altro, anzi in molti si erano presi gioco della sua ingenuità. L’eccessiva fragilità del suo carattere camuffata d’arroganza, forse proprio per la peculiarità del suo segno di nascita, un segno ambivalente che evidenziava una doppia personalità, spesso la rendeva insicura. Però, guizzante come i Pesci, era sempre riuscita a sfuggire all’insidia delle “reti”, a tirarsi fuori da situazioni, magari da lei stessa create, che poi si rivelavano sgradite. La voglia di vivere e di divertirsi non l’avevano mai abbandonata e dopo ogni batosta era riuscita sempre a rialzarsi. Ora, invece, non vedeva alcuna possibilità d’uscita in quel cunicolo senza fenditure o vie di fuga.

Talvolta si era imbattuta in gallerie scarsamente illuminate, ma mai aveva trovato quell’assenza totale di luce e soprattutto quella mancanza di suono. E, più d’ogni altra cosa, era proprio quel silenzio a tormentarla, abituata com’era al frastuono quotidiano e al fragore della “sua” musica che le riempiva i giorni e le notti.

Voleva far ritorno a casa. Cercava di spingere, ma le forze sembravano averla abbandonata. Protesa in avanti, tentava di aggrapparsi ad uno sterzo inesistente, ma le mani non rispondevano ai comandi e le braccia inerti lungo i fianchi erano trattenute da una cinghia. Chi mai poteva aver avuto la brillante idea di passarle la cintura di sicurezza intorno al corpo costringendola ad una totale immobilità? Di sicuro  non poteva essere stata lei stessa a farlo, del resto come avrebbe potuto incatenarsi in tal modo? Nella sua mente non vi era alcuna immagine, ma era come se fosse ancora alla guida della sua auto.

Giada guidava con perizia e mai avrebbe lasciato che qualcun altro prendesse il suo posto. Quella volta, prima di tutto quel buio poteva essere successo qualcosa, doveva esserci stata un’esplosione. o qualcosa di simile.

 La notte scivolava via lentamente, lasciando malvolentieri il posto ad un’alba asfittica. Dagli argini del fiume la bruma saliva fino ai margini del rettilineo che la ragazza stava percorrendo. All’improvviso un occhio tondo che si dilatava sempre più le era venuto incontro a velocità, attirandola in un cerchio di luce bianco-giallastra che si apriva a raggiera. Era riuscita a captare l’urlo degli altri passeggeri, poi la vettura girando a spirale si era fiondata a picco dentro i fasci di luce bianco-giallastra come un’ape tra i pistilli di un fiore. Tutt’ intorno sfrigolavano schegge di vetro e stridevano lamiere accartocciate. La caricatura di un volto dalle pupille dilatate per lo sconcerto e dalla  bocca troppo larga bloccata in una smorfia, stava sopra di lei, mentre dalla nuvoletta densa del suo fiato uscivano strane parole che si propagavano nel vuoto: “Giuro, mai bevuto in vita mia, lo giuro, mai”.  Se per questo “non si era mai neppure fatta”. Poi anche quell’immagine era scomparsa. E il silenzio si era impadronito di tutto suo essere. Era stato l’ultimo fotogramma che la sua mente era riuscita a registrare, prima di venire catapultata in quell’incubo senza fine, ma se l’era lasciato alle spalle! Esso giaceva ormai nella remota pianura della sua coscienza, da dove difficilmente sarebbe venuto fuori.

Avvertì un leggero formicolio alla pianta del piede sinistro, mentre l’altro era come incollato a una tavoletta, forse l’acceleratore. Tentò di premerlo. Sentiva le gambe fluttuare su e giù come dei  palloncini pieni di elio. Avvertiva una sensazione sgradevolissima nel non riuscire a fermarle … ma niente da fare, quei due sacchi oblunghi e rigonfi continuavano a galleggiare dentro quella specie di capsula che sembrava contenerla, legati al suo corpo immobile come due protuberanze estranee. Quelle non erano le sue bellissime gambe da stangona. Ma dov’erano andate a finire quelle lunghe e tornite che al suono di una musica martellante e metallica riuscivano a farla scatenare per l’intera notte, mentre lame di luce dai colori vivacissimi s’intersecavano e si sovrapponevano nell’aria satura di fumi e di respiri e i suoi pensieri si frantumavano in schegge di nulla? Allora era la sua voglia di “sballo” a non volerle fermare.  Abbandonandosi al ritmo sfrenato dimenticava quanto troppo spesso contribuiva ad urtare la sua acuta sensibilità. In quei luoghi anonimi, tra volti sconosciuti e meno, la solitudine sperimentata nella quotidianità si trasformava in una futile parvenza di contatti sociali spesso fasulli. Solo così riusciva a far tacere i tanti interrogativi che la vita le poneva.

Ora quei suoni e quelle luci erano lontani. E lontanissimo, proprio in fondo al tubo rettilineo, era comparso un puntino luminoso, un minuscolo cerchio lucido. Intanto qualcosa interveniva a dissipare il disagio di quel silenzio opprimente. Da un’interminabile distanza le giungeva una musica flebile, dolcissima, tanto diversa da quella che era solita ascoltare.

Un ritmo che la riportava all’infanzia e forse anche alla permanenza nel grembo materno, mentre il suo corpo continuava a fluttuare avvolto in una atmosfera eterea, quasi vi avesse ancora una volta fatto ritorno. Avvertiva una strana sensazione di benessere.

Un tremito leggero l’attraversava tutta e la sollevava verso l’alto facendola poi planare lentamente su cumulo di nubi o di bambagia.

Poi il tocco lieve di un petalo o di una farfalla le aveva sfiorato il dorso della mano e un umore liquido, forse una goccia di rugiada, era scivolato fra le sue dita rigide.

Dalla reminiscenza di un linguaggio conosciuto si composero nell’emisfero sinistro del cervello alcune parole: “Professore venga, presto, qualcosa si muove sul monitor!”  Un timbro di voce non estraneo e  un suono di sillabe di cui solo più tardi avrebbe conosciuto il significato.

Come ancora più tardi avrebbe saputo che erano stati la dedizione, l’affetto e le preghiere di sua madre, rimasta sempre a vegliare accanto ad un macchinario sofisticato quell’ anomalo sonno, che, affiancati alla tenace abilità dei medici, erano riusciti a tirarla fuori dal tunnel lunghissimo e buio dove l’ ebbrezza della velocità e la sventatezza della gioventù l’avevano condotta.

Ora, per Giada iniziava il ritorno alla Vita.

 

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