Premio Racconti nella Rete 2012 “La piazza” di Massimo Boschetti
Categoria: Premio Racconti nella Rete 2012Che bel paese è l’Italia! In qualunque luogo tu vada ad abitare, con il treno o con l’automobile puoi in poco tempo raggiungere una piccola città che ha bei palazzi, una bella chiesa, un castello, delle antiche rovine, ma soprattutto una bella piazza.
Capita così che Mario e Chiara, in autunno o in primavera, vadano spesso in gita con i loro due figli per vedere queste città che hanno piazze che la domenica mattina sono piene di vita. Mentre Chiara porta i bambini a visitare quanto di bello e di interessante è offerto dal luogo, perché tutti e due ci tengono che quelli non crescano come delle capre, Mario si trova un bel bar con tavolini all’aperto e si gode la piazza. Chiara pietosamente dice “il babbo deve fare delle telefonate” oppure “il babbo non ha dormito bene questa notte” e lo lascia fare. I bambini si avviano al museo di turno ridacchiando, perché ormai lo sanno che il babbo non va con loro e la cosa è diventata quasi un gioco. Poi loro raccontano cosa hanno viso e Mario vede la città con i loro occhi. E anche questo è un gioco.
Le piazze delle piccole città la domenica mattina sono una delizia: si vedono le persone per come vogliono mostrarsi al mondo, si possono osservare il farsi e disfarsi dei capannelli e dopo un po’ di pratica si riescono ad individuare nel viavai anche le persone che fingono di non vedersi e prevederne le mosse.
L’eventuale sopraggiungere di un acquazzone non turba l’ottima disposizione di Mario verso il mondo. Solitamente queste piazze hanno bei caffé dove la gente si rifugia e, in questi casi, il gioco può continuare indoor e in più, di tanto in tanto, si possono cogliere interessanti frammenti di conversazione. A questo proposito, per orientarsi e mettere un qualche ordine agli spezzoni di frasi, Mario fa una lettura delle pagine locali del giornale. Poi ordina un bicchiere di vino bianco e diventa come una spugna d’immagini e di voci. Ed è qui che può sorgere un problema. Questa totale disponibilità al mondo esterno viene infatti prontamente intuita da personaggi logorroici, paranoici, disturbati mentali di vario grado che vogliono attaccare bottone. Il forestiero poi è per questi un’occasione da non farsi sfuggire, perché a causa dei contenuti ripetitivi delle loro storie, sono conosciuti da tutti i concittadini e da questi scacciati come molesti.
Solitamente Mario tronca le loro avances con modi bruschi, che non sono i suoi.
Le cose andarono in modo diverso in una domenica piovosa d’inizio autunno. La notte precedente aveva davvero dormito male, il vino non era un granché e nel bar semideserto un cliente, vestito con una tuta da ginnastica multicolore, sembrava, anche se timidamente, volergli dire qualcosa: tossicchiava, faceva rumore sfogliando il giornale, quando ne incrociava lo sguardo esibiva sorrisi esagerati. Mario fece un cenno con la mano come a chiedere cosa volesse e quello rispose a sua volta alzandosi dal tavolo e indicando col capo di seguirlo.
Usciti dal bar, l’uomo, che disse di chiamarsi Armando, costeggiò la piazza per un breve tratto, poi svoltò in una viuzza stretta su cui affacciavano edifici bassi, senza pretese. Mario seguiva a pochi passi di distanza Armando, che si girava ogni tanto ammiccando e ridacchiava fregandosi le mani. Svoltarono ancora in una strada dal fondo sconnesso su un lato della quale vi era un muro di ciottoli e mattoni, interrotto da un cancello di ferro a due battenti. Armando lo aprì con una leggera spallata ed entrarono in un cortile che pareva di una vecchia officina, con rottami ferrosi ammonticchiati in un angolo. Sulla destra, fra l’edificio principale e una baracca col tetto di lamiera, alcuni gradini immettevano in uno stretto passaggio che curvava ad angolo retto e al cui termine vi era una porta. Armando, sorrise nuovamente con aria complice, fece segno di fare silenzio e aprì la porta che portava i segni di una passata forzatura.
Si trovarono così in un corridoio poco illuminato e dalle pareti scrostate, che sul lato destro presentava una rientranza con una finestrella dalla quale, giù in basso, si poteva vedere un locale stretto e lungo. Qui, una decina di ragazze, disposte in un’unica fila, lavorava su macchine da maglieria.
Armando fece segno di aspettare e bisbigliando disse che voleva venti euro. Mario lo accontentò, per toglierselo di torno, e rimase a guardare di nascosto le operaie che erano tute giovani e vestivano un camice color carta da zucchero.
Quando Armando, sempre fregandosi le mani, se ne fu andato, nello stanzone di sotto entrò un uomo sulla cinquantina. Si fermò dietro la prima ragazza della fila e mentre controllava il tessuto infilò una mano nella scollatura accarezzando e tastando i seni, prima l’uno poi l’altro. La ragazza, che aveva interrotto il lavoro, non disse nulla, ne cambiò espressione del viso. La palpata durò forse un minuto, che a Mario parve lunghissimo, poi l’uomo passò alla seconda ragazza e poi alla terza. Mario aprì la patta dei calzoni e si masturbò addossato al muro. Poi scappò via.
Ritornato al bar, si sedette all’aperto perché aveva smesso di piovere. Ordinò un bicchiere di vino bianco, che gli fu servito con olive, patatine e alcune tartine disposte con cura sul vassoio. Poco dopo correndo arrivarono i bambini che volevano la coca cola e a seguire Chiara con il suo ragionevole sorriso.
Consueto era il viavai sulla piazza, che aveva riacquistato la sua tranquilla vivacità.