Premio Racconti nella Rete 2012 “Non trovavo le parole” di Maurizio Grelli
Categoria: Premio Racconti nella Rete 2012Un suono di campanella, annuncio’:
“regionale per Ancona, in arrivo al binario tre. Allontanarsi dai binari”
Ci guardammo, istintivo fu il forte e lungo abbraccio. Un gran vociare intorno, gente che rideva, gente che correva, chi fumava e chi si affacciava per scorgere per primo, le luci lontane.
Fu un triste addio, mi affacciai al finestrino e la vedevo lì sotto, ferma, con la mano alzata. Sembrava ancor piu’ piccolina vista da qui. Un fischio, sportelli che si chiudevano, lo strattone della partenza.
“Ti amo, ti amo”
Il treno, comincio’ a correre nella notte, notte buia, notte di marzo.
A Fano salirono altri passeggeri e quattro ragazzi, con il borsone come me, si sedettero nello stesso mio scompartimento.
Ero stato il primo a salire, avevo il posto al finestrino. Scherzavano, ridevano, cantavano fino che uno disse: “Come sara’ Salerno?”
Mi voltai, li guardai per una frazione di secondo e dissi: “Anche voi militari? Anche voi a Salerno?”
“Sì, anche tu?”
Annuii con la testa.
Parlammo per un po’. Maledetta universita’, maledetta eta’ maggiore rispetto a questi diciottenni. Non mi ci trovavo. Per loro era una avventura, un viaggio, come una lunga gita, forse anche un divertimento. Per me, era triste, molto triste. Lasciavo a casa una ragazza che amavo, amavo molto, una ragazza che era tutta la mia vita.
Il treno era arrivato a Falconara. Cambiammo convoglio per Roma, ne approfittai per staccarmi da quella compagnia, con stato danimo molto diverso dal mio.
Il treno correva, correva rumoroso nella notte.
La mattina dopo, ancora notte, arrivai a Salerno.
Il treno partito da Roma, aveva raccolto una miriade di passeggeri e la maggior parte, tutti ragazzi con destinazione Salerno.
Rimanere due tre giorni in caserma vestito in borghese, in attesa del tuo vestiario; rimanere due tre giorni chiuso in caserma, senza poter uscire, e’ tremendo. Sei facilmente attaccabile da chi, ormai quasi alla fine o con qualche mese piu’ di te, sfoga la propria repressione.
La solidarieta’ che si crea tra i nuovi arrivati e specialmente tra coloro che condividono la stessa camerata, chiamati in gergo “spine” e’ un qualche cosa di unico.
La mattina dopo, grande fila alla mensa per la colazione. Eccoli li’, tutti in fila, in abiti borghesi. Ragazzi anche piu’ giovani di te ma in divisa, ti passavano avanti come se non esistessi, poi, eccoti li’, di fronte ad un altro ragazzo in divisa addetto alla mensa. Prendi un panino, un pezzetto burro, una scatoletta di marmellata ed allunghi gli occhi per vedere cosa ci sia in quei grandi calderoni.
Latte, caffe’, caffelatte.
“Allora? Ci muoviamo? Non vorrai la colazione in camera.”
Risate, risate, urla dalla fila.
Indichi con un dito il caffelatte.
Il mestolo affonda nel calderone, gira nel suo interno, estrae la scodella piena ma, un calzetto da uomo, color kaki, penzola dallo stesso.
Ti si stringe lo stomaco, gli altri ridono, vorresti vomitare. Ti avvii verso il tavolo, cercando qualcuno che sia come te, non ne vedi, ti siedi da solo e non mangi nulla.
Quella vita era insopportabile. Turni di guardia massacranti, pulizie delle latrine, scontro quasi continuo con camerati piu’ anziani.
Qualche amicizia nasceva, si cementava, gettava le basi di quel rapporto che vivra’ una unicita’ rispettabile per tutta la vita.
La domenica si usciva, se non eri di turno si usciva. Non spendevi nulla tu, gli altri sì. Quei pochi soldi per un gelato, per un cornetto o un caffe’, erano minuti in piu’ di gettoni telefonici per parlare con la tua ragazza.
Arrivo’ la fine del primo mese, la fine del CAR (Centro addestramento reclute). Tutti fummo chiamati nel cortile, sugli attenti, pronti a conoscere la destinazione definitiva per gli altri undici mesi.
La speranza di poter avere un avvicinamento a casa, anche se non proprio nella stessa citta’ ma limitrofa, raggiungibile con una due ore di treno, era immensa. Grande speranza riposta in quell’appello.
Chi veniva chiamato, saltava sull’attenti e scattava in camerata a raccogliere le proprie cose, pronto per partire verso la nuova destinazione.
Alla fine, rimanemmo in dieci lì, in piedi. Ci guardavamo e non capivamo.
Il comandante disse:
“Coloro che sono rimasti fuori dall’appello, sono coloro che dovranno effettuare il CAR Avanzato, altro mese in questa caserma”
Non so come riuscii a rimanere in piedi.
La caserma, nel periodo di arrivo nuovo contingente, rimase sguarnita per piu’ di una settimana. I pochi presenti, furono costretti a turni massacranti di guardia e servizio.
Mi aggrappavo ad ogni minimo possibile conforto potessi ottenere. Salivo le scale, mi voltavo e pensavo:” Quando ero laggiu’, c’era piu’ tempo da trascorrere qui”.
Nel mese di Maggio, mio fratello piu’ piccolo fece la prima comunione. La caserma era sguarnita in attesa dei nuovi arrivi.
Mi recai dal Tenente e chiesi una licenza per la comunione.
“Soldato Grelli, posso al limite concederle un quarantotto ore. Ad una condizione, che si tagli i capelli”
Il permesso partiva dalle ore nove del giorno successivo, sabato fino alle ore nove di lunedi’ mattina.
Quella sera, venerdi’, fui di guardia.
Alle otto di mattina staccai il turno di guardia, mi precipitai in camerata e riempii alla rinfusa il borsone. Corsi verso la stazione.
Arrivai in tempo in tempo al treno. Il successivo mi avrebbe mangiato piu’ di quattro ore con i vari cambi.
Mi sedetti nello scompartimento, vuoto. Mi addormentai.
“Ragazzo, ragazzo, svegliati”
Aprii gli occhi, guardai dal finestrino, guardai colui che mi chiamava ed aveva ancora la mano sulla mia spalla.
“Ragazzo, siamo a Roma. Il treno prosegue per Firenze, forse lei deve cambiare?”
Lo ringraziai come credo non abbia piu’ fatto in vita mia.
Il treno stava arrivando alla mia stazione, rallentando. Abbassai il finestro. Eccola lì, mi aspettava.
Saltai dal treno, l’abbracciai, ci baciammo.
Riuscii a rientrare in tempo per le nove di Lunedì mattina, ma non feci in tempo a tagliare i capelli, mi costo’ due giorni di rigore.
Dopo il CAR Avanzato, la mia destinazione fu Napoli, cinquanta chilometri circa di avvicinamento. Assurdo.
Cominciai a mangiare molto poco, non mi andava, ero arrivato a pesare sessantotto chili per 1,83 di altezza.
I mesi intanto, passavano. Volente o nolente, passavano.
Una fredda sera di ottobre, un soldato con cui avevo fatto amicizia, tiro’ fuori una busta di plastica con dentro dell’erba.
Prese una cartina e la riempi’ di tale verdura.
“Che roba e’?” Domandai
“Questa e mariuana pura, provala” mi disse.
“Ma sei matto tu” dissi io.
“No, tu sei matto. Non immagini quanto ti tiri su, quanta forza ti possa dare” rispose, con gli occhi lucidi ed una nebbia bianca intorno alla bocca.
Presi un lungo foglio bianco, lo riempii di quell’erba, lo arrotolai e l’accesi.
Finita quella “sigaretta” mi avviai verso la mia camerata. Camerata che si trovava nella parte alta della caserma, verso il Vesuvio, proprio sopra il piano infermeria. I miei amici di naja, mi stavano aspettando. Sgoccinava quella sera così, decidemmo di andare a vedere il film proiettato nel cinema della caserma: Sindrome Cinese.
Eravamo in quattro, camminavamo verso il cinema. Con lo sguardo verso il basso, ascoltavo cio’ che loro dicevano ed intervenivo. Ad un certo punto, il pavimento di cubetti di porfido, comincio’ a ballare, come se si intrecciassero gli uni con agli altri.
“Mamma mia” pensai.
Alzai lo sguardo. L’imponente palazzina comando in fondo al viale, sembrava che venisse a velocita’ folle verso di me, per poi indietreggiare, sempre così, di continuo.
“Ragazzi, non sto bene, andiamo un attimo al bagno”
Entrai nel primo bagno che trovammo, bagnai la faccia con acqua fredda, niente. Abbassai la testa sotto il getto di acqua gelida, niente.
“Ragazzi, torniamo in camera, non sto bene per niente”
Michele, che si era accorto della gravita’, mi maccompagno’ subito in camerata.
Mi spogliai, misi il pigiama e mi sdraiai sul letto.
Il cuore a mille. Le punte delle dita viola, le labbviola, il viso pallido, di cera. Ripetute strette di stomaco con vampate che percorrevano tutto il corpo fino alla testa, tremende sensazioni mai provate, mi stavano annientando.
Feci un cenno con la mano a Michele.
Si avvicino’ e gli dissi: “Chiama i miei genitori, i miei fratelli, la mia ragazza. Digli che gli voglio tanto bene a tutti, digli che mi dispiace, sto morendo”
Non disse nulla. Si alzo’ di scatto e riapparve subito dopo con il sottotenente medico ed altri due soldati. Mentre mi portavano di sotto in infermeria, vidi con la coda dell’occhio, il tenente che rovistava il mio letto e l’armadietto.
Giunto in infermeria, mi fecero subito una puntura. Volli Michele accanto a me. Mi addormentai.
La mattina successiva, fui inviato all’Ospedale medico militare.
Mi dettero venti giorni di convalescenza. Quella sera, uscimmo insieme. La mattina dopo sarei partito per casa.
Passammo la serata nei pressi del Maschio Angioino, acquistammo pannocchie di granoturco bollite. Prendemmo il tram per il ritorno.
Sull’autobus, pieno, un ragazzo mi fissava continuamente. Improvvisamente, risentii quelle strette di stomaco con quelle vampate che da lì partivano per salire come scappare, dalla testa. Cominciai ad urlare verso quel ragazzo, era come se fosse il diavolo per me. L’autista fermo’ il tram, mi fecero scendere. I miei amici mi accompagnarono in Ospedale, se non erro, Loreto a Mare. Un medico mi visito’, mi fece una iniezione e si raccomando’ di accompagnarmi subito in caserma.
Riuscii ad ottenere il permesso per essere accompagnato da Michele a casa.
La sera che arrivai, nel momento di andare a letto, mi riprese quella brutta sensazione. Chiesi di essere portato all’ospedale, iniezione e poi casa.
Ero cambiato, il ragazzo che aveva vissuto per ventitre anni, non c’era piu’. Al suo posto un’altra persona, che non conoscevo.
Vivevo nella perenne paura di rivivere quegli attacchi. Vivevo nella paura della gente. Vivevo nella paura delle distanze. Non riuscivo piu’ a stare da solo ma, solo persone che conoscevo e sapevano. Avevo sempre perenne bisogno di punti di riferimento. Inaudito pensare a posti che non conoscevo. Avevo sempre paura di non essere in grado di spiegare ai medici, cio’ che realmente sentivo, di non riuscire nell’elenco dei sintomi e di conseguenza, pensavo che non potessero aiutarmi. Ero arrivato persino a preferire fosse un cancro. Almeno, sapevo cosa fosse, sarei riuscito ad inquadrare i sintomi.
Nel frattempo, mi ero congedato ed avevo trovato lavoro, ragioniere presso una ditta.
Ragionavo sulla vita dei rappresentanti dell’azienda, mi chiedevo come facessero a vivere tutta la settimana in posti non loro, soli, lontano dalla propria famiglia. Io non ce l’avrei fatta.
Gli attacchi, si manifestavano con tempi piu’ lunghi, l’uno dall’altro.
Non ero in grado di fare nulla da solo. Solamente la presenza della mia ex ragazza, ora mia moglie, riusciva a darmi quel coraggio che mancava. Che fatica pero’ ogni volta che dovevo uscire dalla routine.
Quel pomeriggio, mio fratello mi disse se lo accompagnavano in agenzia ippica. Non ero mai entrato in una agenzia scommesse, non conoscevo posti dove si giocano soldi per vincere soldi. Ero rimasto al totocalcio di sabato ed al massimo, la lotteria Italia.
Rimasi affascinato da quel mondo. Non fui tanto affascinato dal mondo scommesse quanto, dal mondo delle corse dei cavalli. Cominciai a comperare il giornale ogni due giorni, a studiare le varie genealogie ed i vari incroci possibili tra le fattrici e gli stalloni. Quel mondo, nuovo, affascinante, di elite, mi stava conquistando.
La mia mente ora, era presa da qualche cosa di interessante. Gli attacchi di stomaco con vampate (i piu’ tremendi) si stavano allungando come frequenza nel tempo, ma ogni tanto comparivano. Quei momenti erano duri, sembrava di morire. Da quella maledetta sera in caserma, si era fortemente radicato anche il sistomo di stare perennemente male, di essere sempre sul punto di perdere conoscenza, svenire.
La mia mente, presa da questa nuova passione, cominciava piano piano, a reagire. Cominciava a non dare piu’ il giusto ed errato peso alla continua paura di svenire. Cominciava a reagire. Pensavo:
“Ma se fossero sintomi psicosomatici? Ok, vediamo. Lasciamolo sfogare, vediamo dove riesce ad arrivare”
Dirlo ora, a parole, e’ semplice, ma la lotta e’ stata dura.
Riuscii a convincere il mio datore di lavoro ad acquistare un puledro in societa’.
Ci recammo alle aste a Milano, compranno il puledro e lo affidammo in allenamento in un centro nei pressi di Bologna.
Io lo feci per passione, lui, per investimento.
Quasi ogni sabato, insieme a mia moglie ci recavamo fino a Bologna per vedere il puledro, per assistere alle prove.
Ne ero sempre piu’ preso.
Arrivo’ anche il giorno che mia moglie non potette accompagnarmi. Gia’ avevo preso appuntamento con l’allenatore.
“Senti. Io chiamo l’allenatore e gli dico che purtroppo, impegni grossi mi impediscono di andare su” accennai a mia moglie.
“Perche’?” disse lei?
“Devo andare solo, non me la sento”
“Ascolta” rispose “hai il telefonino, se ci sono problemi, mi chiami o chiami qualcuno, cosa vuoi che ti accada?”
“Ma se dovessi sentirmi male? Cosa faccio? Dove vado? E se ad un certo punto mi trovo perso, spaesato?”
Il dialogo continuo’ fino a che non partii. Santa donna.
Imboccai l’autostrada e Dio solo sa, quante preghiere recitai lungo quei centocinquanta chilometri. Quanti campanili e chiese, salutai con Pater Nostro ed Ave Maria. Quante volte, al minimo accenno, cominciai a cantare come uno scemo.
Canta che ti passa.
Arrivai. Soddisfatto, telefonai a mia moglie. Avevo vinto una battaglia.
Il puledro era lì, sembrava che mi aspettasse. La visita, della durata di un paio d’ore, per gli interessanti argomenti e programmi, volo’.
Ripartii ma cosa piu’ importante, ero riuscito a rendere familiare quel tragitto di strada e quella citta’ a me sconosciuta. Avevo aggiunto un altro importante punto di riferimento.
Arrivo’ il giorno della qualifica alle corse, ippodromo di Bologna.
Quel giorno, mi recai in compagnia del mio socio. Andammo con la macchina sua. Era ancora troppo difficile per me, recarmi in unovo posto che non conoscevo e del quale non conoscevo la strada. Se guidava un altro, era tutto piu’ facile.
Il cavallo, fece strada. Dette grandi soddisfazioni. Arrivo’ a correre in importanti ippodromi italiani e perfino in Francia.
Non persi un appuntamento., sempre accompagnato pero’. Al di fuori di Bologna (ormai assimilato) pretesi sempre la compagnia di mia moglie.
Altri cavalli entrarono a far parte della nostra scuderia. Nel frattempo, creai una azienda parallela a quella dove lavoravo, una commerciale. Arrivo’ il momento dove si rese necessario, trovare nuovi clienti, partecipare a manifestazioni fieristiche, provvedere spesso, personalmente alla consegna del materiale.
Piano piano, cominciai a muovermi. Costretto a farlo. Mi meravigliavo della leggera ma costante crescita di autosufficenza che conquistavo.
Mi recavo dove era necessario: Italia, Svizzera, Austria.
Arrivo’ la crisi. Chiuse la ditta dove lavoravo e di conseguenza, chiuse anche la commerciale.
Furono venduti i cavalli, fu venduto tutto.
Sono trascorsi un paio di anni da allora. Difficile se non impossibile trovare lavoro ad una certa eta’, inaudito cercare di reinventarsi.
Mi meraviglio, ogni giorno mi meraviglio sempre piu’ di me stesso. Spesso mi chiedo come sarebbe stata quella persona se a Napoli, non gli fosse successo cio’ che gli successe. Perche’ diciamolo : “ho visto la morte in faccia” e quando vedi la morte in faccia, cambia tutta la tua vita. Riesci a dare importanza e giusto valore a tante cose che non sono condivisibili con tutti gli altri. Riesci a percepire in maniera netta, che la vita e’ una sola, che prima o poi finira’ . Sovente, ti senti diverso dagli altri, ti sembra di avere la capacita’ di guardare oltre quel muro, quel confine che tutti abbiamo.
Spesso pero’, ed anche questo e’ male, ti senti superiore, piu’ profondo, piu’ filosofo. Ti accorgi di vivere e cogliere la vita, in maniera diversa. Ti si dispiegano dinanzi e noti, tutte le frasi fatte, tutti i luoghi comuni.
Apprezzi la vita, l’apprezzi perche’ sai che tanto e’ facile lasciarla, perche’ sei consapevole del sottile confine che ci separa dal perderla per sempre, perche’ sai, che in quel momento sarai solo.
Ringraziero’ tutta la vita mio fratello. Involontariamente riuscì a darmi una scossa, a distrarmi dalla mia “malattia”.
Non ho mai visitato uno psichiatra, per paura di sentirmi dire: “Depressione”.
Ero giovane, contavo sulla mia giovane eta’ e sulla giovane eta’ del mio corpo, sulla sua possibilita’ di reazione.
Oggi, posso dire di aver perso tanti anni, sicuramente i migliori. Chiuso, imprigionato, condizionato, dipendente da quelle strane sensazioni che non augurerei mai e poi mai a nessuno.
E’ importante riuscire con l’aiuto degli altri – perche’ da solo non ce la fai, sei tutto immerso nel tuo malessere, ed i tuoi organi sempre pronti a captare ogni minimo segnale di allarme – prima che ti involvi solo in te stesso, riuscire a ricominciare a nutrire interesse verso qualsiasi cosa. Che possa piano piano, occuparti, impegnarti, appagarti.
La settimana prossima incontrero’ un mio caro amico che verra’ in Italia per una breve vacanza dal Canada.
Ho gia’ pronta la domanda:
“Michele, trovami un lavoro a Toronto ed io, partiro’ subito”.
Voglio anche io lasciare un commento per ringraziare questa bella opportunita’ che permette a chiunque (professionista o meno), di poter raccontare cio’ che sente dentro.
Non avevo e non ho pretese. Posso solo giurare che cio’ che ho cercato di scrivere, non e’ assolutamente nulla di copiato o inventato ma, frutto di esperienza e “travaglio” personale.
Un unico rammarico, pone ombra. Non capisco il motivo per cui, alcuni racconti abbiano elevati numeri di lettura ed altri, pochissimi se non quasi, nulla.
Sarei curioso di conoscerne la motivazione. Ritengo che anche solo un accenno di lettura, abbandonata se non di gradimento, influisca ugualmente come visita, nel numero di letture.
Non vorrei che l’alto numero di lettura, fosse guidato dallo scambio e dall’evidenza (voluta) dei commenti.
Grazie mille.