Premio Racconti nella Rete 2012 “Le colonne di Afhéf” di Antonio Corti
Categoria: Premio Racconti nella Rete 2012Afhéf era stato condannato. Con le sue parole aveva recato offesa alla famiglia reale e lui era solamente un servo, molto ben considerato, ma pur sempre solo un servo, poco più di uno schiavo. La condanna era la morte. Inappellabile.
Sapeva che quella che gli avevano riservato era una fine spaventosa. Doveva salire in cima alle colonne d’Ercole e gettarsi oltre queste. Quelle colonne che delineavano la fine del mare e del mondo. Immaginava che quelle acque l’avrebbero divorato, dilaniato, come tanti prima di lui, e alla famiglia non sarebbero rimasti nemmeno dei poveri resti da seppellire.
Era la prova peggiore che potesse esserci, quella che non si può nemmeno immaginare, totalmente ignota perché nessuno vi aveva mai assistito, e naturalmente chi l’aveva provata non era tornato per raccontarlo.
Maledetti quei mercanti ateniesi di passaggio e le loro parole: uguaglianza, democrazia. Non avevano forse anche loro dei servi a cui comandavano per ogni atto della vita? Eppure i loro discorsi gli erano parsi tanto affascinanti. Che le persone potessero essere tutte uguali in modo che nessuno avesse diritto di vita o di morte su qualcun altro! La sua colpa era di aver fatto proprie e poi manifestato quelle idee.
Chi avrebbe pensato ai suoi genitori quando fossero diventati troppo vecchi per essere utili a qualcuno? Sua moglie era giovane e bella, sicuramente avrebbe trovato un altro marito. Ma come sarebbe stata trattata? E il figlio che da poco avevano avuto? Come sarebbe stato considerato dal nuovo padre? Cominciò a pensare a tutte le cose che non aveva avuto il tempo d’insegnargli, mentre con la fune rituale s’inerpicava sempre più in alto.
Per anni si era chiesto come avessero fatto quegli antichi a costruire quelle colonne così imponenti. Ora non ci pensava più.
Gli avevano lasciato una finta scelta sul come morire. Se si fosse lanciato dalle colonne nelle acque ignote, i suoi famigliari non l’avrebbero seguito nell’aldilà. Se invece avesse scelto un altro modo per morire, tutti i suoi cari avrebbero seguito la sua sorte.
Tutti pensavano che era stato molto coraggioso a fare quella scelta. Afhéf, tra sé, pensava che forse la sua poteva essere in realtà codardia, perché non era abbastanza forte da sopportare la vista della morte delle persone che amava.
Gli era costato grande fatica arrivare alla cima, anche a causa delle due dita della mano sinistra che aveva perso tempo prima sul lavoro e che non gli permettevano di afferrare saldamente la fune. Afhéf era un carpentiere, lavorava per un costruttore d’imbarcazioni che si occupava anche di quelle per la famiglia reale. Un uomo che, per quanto gli fosse possibile, si era battuto perché Afhéf non venisse condannato a morte.
Ora guardava l’acqua che, se non fosse stata quella di morte ignota, gli sarebbe sembrata quella calma in cui si divertiva da piccolo, giocando con gli amici, tuffandosi e nuotando. Allora però non aveva paura, nemmeno s’immaginava che potesse esisterne così tanta di paura.
I suoi famigliari lo guardavano con le lacrime agli occhi, smarriti e addolorati, ponendosi le stesse domande. Si trovavano tra le altre persone che assistevano ed erano guardati da alcuni con rispetto, da altri con pena e da altri ancora con il disprezzo che la consuetudine voleva fosse portato a chi aveva offeso la famiglia reale.
Venne riletta la sentenza e a lui, dall’alto, sembrò una nenia incomprensibile. Non importava, tanto l’aveva ascoltata durante l’udienza con i dieci saggi e a quella con il rappresentante del re che aveva confermato la condanna.
Cominciò il battere ritmato dei tamburi. Poi smise, era giunto il momento.
Inspirò ed espirò profondamente, varie volte, e si lanciò. Voleva che il suo tuffo fosse ricordato e cercò di farlo in modo perfetto.
Entrò in acqua proprio mentre il sole stava sparendo all’orizzonte e, prima ancora di riemergere, era già stato preso dal terrore. Appena riuscì a immettere nei polmoni la prima boccata d’aria, cominciò a guardarsi intorno, voltandosi a scatti nell’acqua appena increspata.
Come sarebbe morto? Risucchiato da un vortice? Inghiottito dolcemente ma inesorabilmente da qualche creatura? Divorato da un mostro orrendo?
Dopo un tempo che non avrebbe saputo definire, con la luna alta nel cielo, vide qualcosa che si avvicinava. Il terrore e la fatica gli impedivano di fare movimenti sciolti e rischiava da un momento all’altro che i crampi lo bloccassero definitivamente.
Da lontano si profilò qualcosa d’informe e spaventoso. Avanzava lento e implacabile. L’istinto suggerì ad Afhéf la fuga, ma dove mai sarebbe potuto scappare?
Si abbandonò e si lasciò sprofondare nell’oscurità del mare, abbassando le palpebre. Con gli occhi chiusi, vide ugualmente l’ombra che gli nascose la luce della luna. Immaginò di essere prossimo a essere inghiottito e così stava per aprire la bocca, sperando d’annegare prima di provare dolore.
Riapparse la luce. Afhéf aprì gli occhi. Riconobbe qualcosa di famigliare in quello che gli stava passando sopra. Allo stremo delle forze riemerse. Aveva visto bene: un albero.
Lo vide che si allontanava lentamente da lui. Forse era stato trasportato dal vicino fiume. Forse spinto da un Dio pietoso. Cominciò a pensare a qualcosa che nemmeno aveva preso in considerazione fino a quel momento. Un solo pensiero, fugace come un battito di cuore. La salvezza.
Con le ultime forze rimaste nuotò fino a raggiungere l’albero e dapprima vi si aggrappò con forza, poi, dopo aver ripreso un po’ di fiato, vi salì a cavalcioni e si lasciò andare a riposare tra i rami che si aprivano ampi, dando all’albero stabilità nell’acqua. Si alzò il vento e i rami più fini, incurvati, sembrarono avvolgere Afhéf, mentre andavano formandosi lievi colline d’acqua che lo sollevavano e riabbassavano dolcemente.
Le nubi iniziarono ad annerire la notte, oscurandola ancora di più e l’uomo ne venne inghiottito.
Molti anni dopo, sulla pagina storico-scientifica di un quotidiano:
Scoperta una nuova tomba a Tenerife
Durante gli scavi a Tenerife, nel ricostruire la storia di quella che gli esperti dichiarano essere una civiltà mai scoperta prima (i più fantasiosi pensano che si tratti addirittura dei resti della famosa Atlantide), è stata travata una tomba di un uomo che, dai primi rilievi, pare essere il fondatore o uno dei fondatori di tale civiltà. Una delle notizie trapelate informa che alla mummia scoperta mancano due dita.
Gli studiosi comunque procedono con cautela.