Premio Racconti nella Rete 2012 “La casa onirica” di Roberta D’Alesio
Categoria: Premio Racconti nella Rete 2012L’inverno, quell’anno, tardava ad arrivare. In casa, l’ aria era umida e calda, pesante da respirare. Le pareti giallo ocra irradiavano una luce rossastra. Ovunque si inalava un’atmosfera di placenta, come se la realtà circostante fosse prigioniera del grembo di una madre. Il tempo scorreva pigro ,immobile,in quella cassaforte di certezze ,in quella casa avvolta da un silenzio quasi tombale, raramente inter-rotto da strani rumori effimeri e intermittenti. Eppure, poco lontano da lì, per le strade del mondo , la vita continuava a scorrere, rivelandosi nei volti dei passanti, nei suoni , negli odori, nel vuoto delle parole, nei discorsi della gente come in catene di epifanie. D’improvviso un dolore gelido, lancinante le trapassò lo stomaco come la punta affilata di una lama. Una mano le stringeva,ora, il cuore in una morsa tenace, togliendole il respiro. Poi il vuoto, l’apatia. Soffriva ,da un po’ di tempo, di una strana forma di inerzia, un’inettitudine cronica dovuta a una mancanza totale di certezze. Niente illusioni da inseguire o pensieri consolatori a cui aggrapparsi. Si sentiva schiava di un universo circolare e chiuso, senza metafisica. Uno spietato determinismo si imponeva sulla sua visione delle cose, pervasa da un dilagante senso di impotenza nei confronti di un mondo in preda al caos e governato dal caso, che si scontrava acerbamente con la sua ansia bramosa di controllo. Immaginava gli uomini come tante monadi: mondi paralleli che interagiscono tra loro, restando , ciononostante, drammaticamente isolati in se stessi, assediati nella loro diversità, schiavi della limitata soggettività delle loro singolari percezioni. Mondi chiusi in tante piccole caverne che, per poter interagire tra loro, dispongono solo della provvisorietà di un evanescente linguaggio , di una parola pronta a svanire nell’attimo stesso in cui viene pronunciata. Ognuno schiacciato nelle proprie boriose convinzioni e fatue visioni, ognuno portato ad assolutizzare il proprio punto di vista , e a trasformarlo in precetto di vita, in verità assoluta da gridare a pieni polmoni, tra la gente, come al mercato. Ogni cosa assumeva nella sua mente contorni indefiniti: che cos’è la verità? , pensava, mentre con la mano destra continuava a tormentarsi i capelli. Poco tempo prima un turbinio di eventi, un temporale, un uragano, qualcosa di devastante ed ancestrale le aveva , piano piano, risucchiato ogni energia. Nelle ossa e nel sangue superstite era ancora qualche tenera goccia di vita che custodiva gelosamente e che avrebbe difeso con le unghie e con i denti, adesso che brancolava sui cocci delle sue rovine. Non ricordava in quale preciso momento fosse avvenuta la sua “demolizione” e non voleva pensarci. Eppure, adesso, in quella casa,in quel tenero nido, non c’era altro che un eloquente silenzio a tenerle ancora compagnia. In quel grembo neonatale, non correva alcun pericolo e il suo fragile cuore di cristallo, già troppo scalfito, poteva, finalmente, riposare in pace. Fuori esplodeva una vita selvaggia e spietata,corone di luci e cori di voci, catene di anime in cerca di salvezza popolavano le strade del mondo ,attorniate da un magma di avvenimenti casuali quanto un tiro di dado. Alla fine, il sonno giunse ad annebbiarle la vista, vincendo la secolare battaglia coi pensieri, uno strano torpore l’attraversò tutta e si addormentò. Qualcuno ama definire i sogni ”i desideri del cuore” , qualcun altro, invece, è fermamente convito che i sogni siano lo specchio delle nostre paure più recondite. Chissà che, poi, desideri e paure non siano, in fondo, due gemelli in perenne lotta , acerrimi rivali ma eternamente legati da un insopprimibile legame di sangue. Si dice anche che quello che proviamo a sfuggire in vita , si ripresenti in forma di sogno, come a volerti ammonire che c’è un conto ancora da saldare. E’ proprio ciò che accadde quella notte. Quella donna, una donna come tante altre, sognò di percorrere una strada ombrosa e deserta, tutta avvolta da una nebbia densa e grumosa, simile a batuffoli di zucchero filato. Pioveva forte, intorno a lei, gli alberi si contorcevano in forme indecifrabili, somiglianti a volti di anime in pena, cui fosse stata strappata via la voce. La strada era lunga e dissestata, un impasto molle di terriccio e fango. Un assordante rumore di frane, di pietre rotolanti echeggiava cupamente, come se, non molto lontano da lì, una nuova Apocalisse minacciasse la Terra ,come se quella fosse l’ultima notte del mondo. Una paura cieca le immobilizzava gli arti, stanchi e infreddoliti, mentre avanzava, freneticamente, tra quelle rovine di rami e sassi. Poi, d’improvviso, le sovvenne il rassicurante torpore del suo nido domestico e, come spesso accade nelle fiabe, magicamente, vide materializzarsi davanti a sé, in lontananza, proprio la sua dolcissima dimora. Dicono che, quando ci si perde in un deserto, il nostro cervello sia in grado di ricreare ciò di cui il nostro corpo ha più bisogno in forma di visione, generando quello che si è soliti definire “miraggio”. Ebbene, quella notte,un miraggio arrivò anche per lei che si ci aggrappò come alla più consolante delle visioni. Respirò sollevata e si apprestò ad entrare, finalmente, nella sua casa accogliente. Richiuse la porta di botto alle sue spalle, convinta di essere ormai al sicuro, ma, quando si guardò intorno, lo sgomento la rapì nuovamente. Si rese conto che nulla era più come lo aveva lasciato. Sulle pareti gialle spiccavano adesso pennellate di vernice e acrilico; colori vivi e densi, caleidoscopici e male assortiti sporcavano tutto. Gli oggetti erano disseminati ovunque: sul pavimento, sulle mensole, nei cassetti, lungo le scale, tutto era sottosopra come in un disordine cosmico. C’erano disegni, ritratti, scritti di vario tipo, lettere, utensili e libri dalle pagine tutte bianche ,senza la minima traccia di inchiostro. Era come se qualcosa o qualcuno avesse risucchiato dal mondo la conoscenza. Era come un ritorno alle origini, alla preistoria, all’assenza di linguaggio, al grado zero dell’espressione. Che fine aveva fatto tutto quel sapere? Era mai esistito? Scoppiò in un pianto isterico. L’ansia le ostacolava il respiro, il cuore le batteva all’impazzata. L’atmosfera adesso era fredda, glaciale, si respirava a stento in quel mosaico di stalattiti di ghiaccio. Tutto era congelato, dominato da un senso di sospensione, come se tutto ciò che era lì esistesse solo in potenza, come se non ci fosse più nulla di completo, di concluso. L’indefinito le attraversava l’anima e il corpo come una spada affiliata. Poteva quasi toccarlo. Si sentiva immobile come tutti quegli oggetti di ghiaccio, paralizzata a mo’ di statua di cera. Ad un tratto, nemmeno le lacrime riuscirono più a farsi strada sul suo viso, il tempo si era fermato o, forse, non era mai esistito. La luce calda e rassicurante era adesso un algido neon azzurrino, quella che un tempo era stata la sua casa aveva,ora, assunto le sembianze di una caverna primitiva, scavata nella roccia di qualche altura innevata. Cosa era rimasto di suo in tutto quel disordine? Gli specchi sulle pareti deformavano la sua immagine, lentamente il suo corpo perdeva consistenza, era sempre più simile ad un’ombra che non ad un essere umano, un’immagine vaga, proiettata da una di quelle colorate lanterne cinesi. D’un tratto il mondo, il suo mondo, aveva cessato di esistere. Niente più regole o precetti, niente più parole, niente più persone,niente più amore, solo caos. Fuori, dalla strada, esplosioni e frane si facevano sempre più forti, le montagne crollavano, i fiumi straripavano, i palazzi venivano risucchiati , inglobati dal magma terrestre. La morte era , forse, più dolorosa di quella eterea inconsistenza? Doveva solo scegliere tra il noto e l’ignoto, tra l’usuale e il diverso, tra l’annullamento del sé e la morte fisica. E infine scelse. Decise di guardare negli occhi quel mondo un’ultima volta prima della fine. Aprì nuovamente la porta ma stavolta per dirigersi verso l’esterno, per uscire fuori. Avanzò a passo sicuro verso le tenebre, inspirando nei polmoni tutta l’aria rimasta. Amò quella bufera di vento e foglie, benedì il freddo che le ustionava la pelle e la sua paura e la sua umanità e il suo corpo e i suoi pensieri e i suoi ricordi e i suoi errori e le mille camaleontiche forme che può assumere la vita. E poi le piante e gli alberi , il sole e gli uomini, il bene e il male e l’uno al di sopra di tutto. Si inginocchiò ai piedi del Creato, con lo sguardo rivolto al cielo, quasi come a voler accogliere negli occhi lo spettacolo della morte del mondo e, infine, si svegliò, di soprassalto. L’inverno quell’ anno era giunto in ritardo , fuori pioveva ma l’aria in casa era asfissiante. La sua casa era quella di sempre. Tutto era lì dove lo aveva lasciato ma qualcosa dentro di lei si era fatto largo tra le ombre: un innato desiderio di vita. Così si alzò dal letto per correre fuori: albeggiava. La pioggia era cessata, il cielo, ora, era chiaro e trasparente, finalmente,pronto ad accogliere una nuova alba, ridondante di colori. Si accoccolò sul prato e guardò quella sfera incandescente sorgere ancora a illuminare il mondo di una luce sempre uguale eppure ogni giorno diversa, immaginò il carro di Apollo sfrecciare per l’orbe terrestre a regalare calore a tutte le creature della Terra, agli uomini come ai sassi, ai pesci come agli uccelli, ai buoni e ai cattivi, agli ultimi e ai primi, senza distinzione. Poi, affamata di vita, si incamminò per il prato fiorito e aulente, avanzò senza meta, con la gioia e la rinascita nel cuore e , poco dopo, lungo la strada, incontrò Amore.
Bello sia nella forma che nei contenuti! Ho apprezzato, in particolare, l’uso del linguaggio ,un pò “pomposo” e frammentato nella parte iniziale, sempre più scorrevole nella seconda parte, mano a mano che si ci avvicina alla conclusione.. rende benissimo lo stato d’animo del personaggio, il passaggio dalla chiusura “asettica” alla rinascita che passa attraverso una ritrovata conapevolezza di sè e l’accettazione del dolore come inevitabile componente esistenziale, impossibile da fuggire.
Molto belle anche le metafore filosofiche,originali e assai ricercate, usate bene e al momento giuto. La parola rende visibili delle immagini alla mente, soprattutto attraverso i molti richiami alla luce ,lo stato d’animo viene trasmesso immediatamente alla pancia e al cuore. In bocca al lupo!
L’atmosfera iniziale mi ha precipitato in un ambiente a metà tra i racconti di Poe e i film di Corman, e questa è una cosa che adoro. Prova maiuscola.
Il punto straniante per me, però, è che non trovo un soggetto “reale”: ho bisogno di un qualcosa (persona, animale, oggetto, entità immaginaria) a cui associare il dolore, la sofferenza, le sensazioni. Sbaglio o trovo solo un indefinito “lei”? C’è qualcosa che mi sfugge?
Appunto “tipografico”: il ricorso ai capoversi aiuterebbe a focalizzare l’attenzione, anche se è ovvio che non si può forzare l’esistenza di un capoverso anche dove non dev’esserci.