Racconti nella Rete 2009 “Il milione” di Alberto Cucchia
Categoria: Premio Racconti nella Rete 2009A mia moglie Marta,
e compatisco gli altri
perché non ce l’hanno.
Quando Markos Volikanus trovò quella valigia, quella valigia con un milione dentro, la prima cosa che fece fu lasciare la moglie. E con lei lasciò anche casa, vestiti, automobile e tutto quello che, teoricamente, gli apparteneva, ricordi compresi. La seconda fu, senza dubbio, lasciare il lavoro. Il suo capo, affabile e distinto al pubblico, nevrotico e scontroso con i suoi sottoposti, era diventato insopportabile nel corso degli anni. Come in un’evoluzione discendente, più il tempo trascorreva e meno considerazione Markos acquisiva. Quel lavoro non l’avrebbe mai portato a nulla di buono. Con invidiabile calma si avvicinò al capo, gli riconsegnò il badge e il maledetto tesserino plastificato che per anni l’aveva reso un numero e gli mollò un buffetto in fronte a mo’ di sberleffo. “Non avremo più il piacere di incrociare le nostre strade”, disse, e il capo attonito restò immobile, come una statua di cera, senza il coraggio di proferire alcun sussurro. La terza fu liberarsi delle vecchie e corrose amicizie. Tutte quelle che, ormai, avevano esaurito l’ingenuo entusiasmo giovanile. Non sarebbe stato difficile, bastava sparire dalla circolazione. Doveva, però, gettare via anche il telefonino. “Poco male”, e lo fece, “tanto era solo una seccatura”. Questa fu la quarta cosa. Parenti stretti a cui dover rendere conto non ne aveva più, per fortuna, perciò solo restava un’ultima cosa da fare. La quinta: andarsene. Ma prima voleva togliersi qualche soddisfazione.
La prima soddisfazione che si tolse fu pagare qualcuno perché facesse qualcosa per lui. Markus Volikanus aveva sempre dovuto fare tutto da solo. Invidiava tutti quelli che con il denaro avevano guadagnato anche una posizione sociale e avevano una schiera di adulatori, bramosi d’ascesa o favoritismi, disposti a esaudire ogni loro richiesta. Portaborse e tirapiedi che si facevano in quattro per accontentarlo, non ne aveva mai avuti, così assoldò un tale perché gli andasse a ritirare la giacca in lavanderia. La seconda fu pagare qualcuno perché facesse qualsiasi cosa lui ordinasse. Un ragazzetto, occhio vispo e spensierato, accettò la provocazione: Markus ordinò che ballasse, il ragazzetto ballò; ordinò che saltasse, il ragazzetto saltò; ordinò che s’inginocchiasse, il ragazzetto s’inginocchiò. L’impercettibile senso dell’esistenza e l’ineffabile sostanza dell’essere di Markus Volikanus erano ora spiritualmente più elevati. La terza soddisfazione fu comprare qualcosa che veramente desiderava. Una vita per gli altri era stata la sua, una vita di sacrifici ed ora era giunto il momento di comprarsi qualcosa che fosse solo per sé. Qualcosa che gli piacesse veramente, non più libri mai letti o profumi mai usati, gli stessi e gli stessi di sempre, quelli che per una vita aveva ricevuto nei giorni di festa. Odiava i cerimoniali domestici e i cinici presenti che ne venivano, perciò decise di regalarsi un capriccio. Nulla di sorprendente, vero è, ma Markus non si era mai comprato niente di cui non avesse bisogno. Non aveva mai avuto niente di superfluo, solo il necessario, ed ora era ciò che più vagheggiava. Quella tromba era perfetta, quanto di più appariscente avesse mai visto. Una splendida, sfavillante tromba gialla come l’oro. Non suonava Markus, né ascoltava musica per la verità, ma quell’arnese sublimava i sensi al solo contemplarla. La quarta fu pagare un passante perché si levasse le scarpe che indossava e gliele consegnasse. La quinta sarebbe stata andare in un’agenzia di viaggi, comprare il biglietto aereo e pronunciare le uniche due parole su cui irrimediabilmente si sostenevano tutte le sue speranze: “Solo andata”. Ma prima voleva levarsi qualche sassolino dalle scarpe.
Il primo sassolino che si levò fu andare in banca. Aprì la valigia con il milione, o poco meno, e disse: “Le condizioni che ad oggi mi avete offerto non sono adeguate per depositare qui i miei risparmi. Vorrei estinguere il conto, per favore”. Ma prima di farlo, schiaffo morale, versò una grossa somma nel conto della moglie. “Che lo consideri una liquidazione” bisbigliò. Questo fu il secondo sassolino. Il terzo, andare in quel ristorante di lusso frequentato solo dal fior fiore della società. Aveva giurato che non avrebbe mai messo piede in quel posto, laddove borse firmate e orologi d’oro rappresentavano uno status. Non andò solo per mangiare, questo è ovvio, ma per sbattere in faccia a quel manipolo di presunti signori la cospicua mancia che avrebbe lasciato al cameriere. Trovò l’aragosta deliziosa, detto sia en passant, e la divorò. Poi, subito dopo il ristorante, andò in quell’atelier d’abbigliamento, alta scuola di sartoria, con quei commessi supponenti e tracotanti. Non solo per rifarsi il guardaroba, s’intende, ma per vedere come si genuflettessero di fronte a un’ingente cifra da spendere. Uscì soddisfatto, quello Zegna gli calzava a pennello. L’inestimabile leggerezza del suo spirito dandy mai fu più appagata. E siamo al quarto sassolino. Il quinto fu estinguere il mutuo, pagare l’ultima rata della macchina che già non gli apparteneva più, le bollette arretrate e tutte quelle multe in protesta che non si era mai spiegato. “Non voglio debiti con la vostra società” disse con fare snob e irriverente al Comando dei Vigili Urbani. Saldò anche il debito con il fornaio, con il tabaccaio e con il macellaio. Con il giornalaio no, gli era simpatico e pensò che non voleva umiliarlo, per questo non lo pagò. Il sesto sassolino che si levò fu andare al Cup e cancellarsi dalle liste d’attesa per eseguire il tanto sospirato esame clinico. Era stanco d’aspettare, era stufo di vedere passare avanti amici e parenti di medici, politici, magistrati e vescovi. “Faccio da solo”, disse all’ignaro impiegato di quello sportello, “ho già prenotato una visita privata, ora posso permettermelo. Non ce l’ho con lei, lei è solo un burattino nelle loro mani” e di colpo girò le spalle all’innocente funzionario dello Stato, basito per l’incomprensibile sfogo di quello stravagante sconosciuto. Nel suo cammino di perfezione, pari solo a quello dell’alcide Eracle di Argo, Markos Volikanus decise che solo restava un’ultima fatica, la settima impresa. Ritirare il passaporto in Questura. Si recò, quindi, con impareggiabile solerzia al Commando di Polizia. Il passaporto non era ancora pronto. Sarebbe stato chiedere troppo. Doveva aspettare ancora dodici ore. Troppo veloce per Eracle la Cerva di Cerinea, insormontabile per Markos Volikanus la burocrazia dello Stato. Quel nemico era troppo forte persino per lui e per il suo qualcosa meno d’un milione. Un pensiero, però, lo confortava: fra dodici ore avrebbe lasciato la città. Il suo animo era quanto mai corroborato dall’ebbra sensazione della fuga. Ma prima di andarsene voleva prendere qualche altra iniziativa.
La prima iniziativa che prese fu ubriacarsi nel pub irlandese. La seconda, perdere l’inibizione, quella che per anni aveva mitigato e spesso soffocato i suoi più remoti impulsi e intimi propositi. A Markos Volikanus piaceva filosofeggiare e, come tutti i filosofi, aveva le sue teorie. Sosteneva che se i più recenti video-games avevano come oggetto e scopo del gioco quello di riuscire a delinquere, fare a bastonate, compiere atti vandalici, scippare vecchiette, rapinare negozi, sgominare bande rivali e andare a puttane, una ragione doveva pur esserci. Il nostro inconscio, sostiene il Volikanus, è proteso alla follia, anela il caos e l’anarchia, e considera l’arbitrio legge sovrana che regola l’universo. L’inibizione e l’ipocrisia dettate dall’infallibilità borghese sono gli unici deterrenti per estrinsecare il vagheggiamento umano, simile alla bestia in questo presupposto, e contemplare l’atavica volubilità dell’essere. Quello che gli sfuggiva era se i video-games fossero riflesso dell’animo o civile necessità borghese del diversivo decostruttivo. Cominciò, per coerenza di pensiero, a importunare le donne, devastare il locale e offendere chiunque gli andasse incontro. Fu prontamente allontanato dal locale, con le garbate maniere di un pastore di recente venuta dalle verdi colline del Connemara. Lì fuori s’imbatté in uno strano tizio, d’origine magrebina a giudicare dai tratti somatici, che gli propose d’acquistare alcune sostanze. La terza iniziativa che prese fu quella di drogarsi. Non l’aveva mai fatto, per queste cose non ci era proprio portato, ma ormai solo poche ore lo separavano dalla partenza e quella era la sua ultima notte nella città che tanto odiava per avergli rubato l’animo. Drogarsi significava mancarle di rispetto, oltraggiarla, vilipendere le sue leggi e profanare le sue maledette convenzioni. Significava, in altre parole, fargliela pagare. Stupefatto ebbe la brillante idea di andare a puttane con il suo meno d’un milione. Questa fu la quarta iniziativa. Quella sedicente vergine era proprio uno schianto. Una seducente eterea meretrice messicana, la più bella chiapaneca sulla faccia della terra. Non resisté alla tentazione e l’afferrò per possederla. Lei fece per calmarlo e lo portò via perché si appartassero in una delle camere di quell’elegante bordello. Markos fece quello doveva e voleva fare, il suo sesso emanava l’odore dell’ebrezza e i pori del suo corpo sprigionavano, per la prima volta da che venne al mondo, effluvi di vita e di pienezza. L’ultimo livello della sua ascesi volitiva era raggiunto e si meritò la pace dei sensi. La quinta iniziativa, che non aveva previsto per la verità, fu quella di svegliarsi. La sesta, cercare la puttana, nella molteplice accezione di questo termine, che gli aveva rubato la valigia. Si affrettò a incalzare il proprietario del locale. La chiapaneca lavorava lì solo da pochi giorni e probabilmente non ci avrebbe più messo piede visto il suo comportamento. Markos chiese delucidazioni. Il proprietario spiegò che, incomprensibilmente, se ne era andata, ma prima di andarsene aveva insultato varie persone.
La prima persona che insultò fu il proprietario stesso, per essersi per primo approfittato del suo corpo. La seconda, la moglie per essersi approfittata della sua condizione. La terza persona che insultò fu una collega, per essersi approfittata della sua ingenuità. La quarta, una donna delle pulizie per essersi approfittata della sua fiducia. La quinta, un barman per essersi per secondo approfittato del suo corpo. La sesta, lo chef per essersi per terzo approfittato del suo corpo e via dicendo fino al facchino e a Markos stesso.
Non più ebbro come poche ore prima, pensò che tutto era stato un sogno. Ciò che di certo sembrava realtà era che alle sei del mattino non sapeva dove fosse, che non aveva più il telefonino in tasca, che sua moglie, probabilmente, lo stava cercando e che tra poche ore sarebbe dovuto andare a lavorare. La prima cosa che fece fu convincere se stesso che quella vita gli piaceva.
ok mi compatisci….comunque trovo il racconto ricco di “simboli” familiari che danno alla storia quell’aria vera e al tempo stesso cruda.
sono curioso di un eventuale proseguio.
bravo.