Premio Racconti nella Rete 2012 “Trent’uno… Tremò” di Rita Ciccaglione
Categoria: Premio Racconti nella Rete 2012Alla città incantata di Haku dove le macerie mi condussero ai draghi…
“Sì, tutte queste case coraggiose con giardini fioriti sono venute dall’Oceano Atlantico, dal Pacifico e dall’Indiano. Dalla prima all’ultima, sono state ramponate e trascinate qua, su dal fondo del mare”. H.M.
Trent’uno… Tremò. E forse trema ancora, sempre trema. Ogni volta, come se, un terremoto.
– Al centro di una bussola a cercare gabbiani, e stavolta sono io che mangio un gelato, c’è chi ha voglia di chiacchierare. Il vicolo con una volpe, e dov’è il lupo che l’accompagna? Nel pianoforte che suona nell’aria, accanto ai quadri di Mirò. C’è un drago nei quadri di Mirò che sputa fuoco prima, e poi dispiega le sue ali e mostra la sua coda, che è quella di un pesce. Nella via in cui si fanno le chiavi c’è pesce fritto e un quadro di Mirò su di un auto parcheggiata fatto con una chiave, l’oro tra le ali dei gabbiani. Ma mi son persa a seguire i gabbiani lungo la corrente, fidandomi di loro più che del centro di una bussola, cercando il tè delle renne.
– Non ricordo molto di quella notte. Ricordo solo di aver sognato un polpo viola che mi teneva stretto e di essermi svegliato con una scatola blu tra le mani. Tu, la riconosci?
– Io ricordo una canzone che non conoscevo, ricordo petali di rose. Ricordo l’andar oltre la vita che normalmente ci appartiene. Ricordo una stella cadente che mi ha insegnato a chiamarti per nome e la consapevolezza dell’essere a casa, dalle montagne al mare.
– E mentre fuori accade in realtà, io sogno di esser in una casa bombardata dall’interno, ramponata e scossa.
– Credevo di averti perso in chissà quale tasca di chissà quale giacca. Perché tra le mani mi è rimasta una giacca pur desiderando un cappello, in un letto che non è il mio, nemmeno abbracciando… Perché Nessuno vorrei abbracciare. E invece, ti ho trovato nel mio letto quando non ti stavo cercando, con il tuo volto da giovane, a cercar riparo, un giaciglio come un bambino. E io che il letto lo volevo per uno sconosciuto quando mi hai detto che il letto era il mio ma non sapevi dove andare, le scuse e la vergogna di un bambino. Ti ho accarezzato il volto, la barba che ancora non c’era. Ti ho detto di restare che quello era il tuo posto, io me ne sarei cercata un altro. Poi, ho smesso di cercare.
Prima di trent’uno era la terra, Rione Terra, la Collina della Terra.
E al numero 64 di una via di un seminario una porta. Al numero 64 in quella porta conigli e galli e forse un ippogrifo. I portali, le volte e le chiavi delle volte. Una torre, il mio campanile di Marcellinara, sopra i tetti un orologio. Le gradelle, i miracoli, San Nicola di Bari, San Nicola de’ Greci, San Nicolillo degli Avellinesi, il mio campanile di Marcellinara.
Prima di trent’uno era la terra, Rione Terra, la Collina della Terra.
In una via, con il nome di un re, tagliata in una collina della terra, l’arrotino, la parrucchiera, i colori per gli artisti e le cornici, una donna che disegna modelli di abiti per altre donne e li cuce a misura, la farmacia, le bombole a gas, un fotografo, una lavanderia americana. Le fontane, i cannoli da cui sgorga l’acqua, i tre cannoli da cui l’acqua sgorga.
Prima di trent’uno era la terra, Rione Terra, la Collina della Terra.
La piazza che è il cinema, la piazza che è il teatro di questa umanità. La lana dei cuscini stesa ad asciugare, noi che dall’arte della lana abbiamo ricavato uno stemma con un agnello, pur essendo lupi. Un palazzo in stile liberty. Lo Stretto e il Largo. Il Largo, la Libertà, l’ombrellaio tra il caffè e la tipografia, la fermata dell’autobus dalla stazione. Il Casale, un reticolato, il mestiere più vecchio del mondo, un albergo, la casa degli abiti.
Prima di trent’uno era la terra, Rione Terra, la Collina della Terra.
Il rifugio, una chiesa. Il mercato al Carmine, i gelsi bianchi, le noci fresche, le pannocchie bollite, il pesce, il capitone a Capodanno, l’odore acre della naftalina per tutto il pomeriggio, le chiese che chiudono i battenti. L’osteria e un convento di clausura. Il vicolo della neve, gli zingari, la neve dalla montagna e i sorbetti d’estate, l’uomo del ghiaccio, i carretti del mercato.
Prima di trent’uno era la terra, Rione Terra, la Collina della Terra.
La via di un abate, le case, su entrambi i lati le case, le lenzuola ad asciugare tra le case. Le case di tufo, gli scalini, i portali, la pavimentazione di pietra con liste di cotto per frenare i cavalli sulla pendenza. La via pubblica, la parrocchia e la cupa. Una chiesa, la Madonna della Potenza.
Prima di trent’uno era la terra, Rione Terra, la Collina della Terra.
Una rampa che sale da una fontana, un mattarello per la pasta a mano rimasto in strada, la farina in terra, una donna, la pasta a mano davanti il portale di casa. Le case, su entrambi i lati le case, le lenzuola ad asciugare tra le case.
Prima di trent’uno era la terra, lungo il torrente della Terra, fuori dalla Collina della Terra.
Le gradelle, le tintiere a un passo dal castello, le ische coltivate, le uova fresche, i fichi, il formaggio e la ricotta, i pezzari, i seggiolari, il ponte sul torrente. La vetreria, la lavandaia con la cenere al torrente, la torre d’acqua, l’acqua che si beve con le foglie di castagno. Le case, le case di tufo. Le Fornelle, gli zingari, quelli che si arrangiano ogni giorno, i bassi, i gatti, i gradelle e le galline. Una donna e un cane lupo, una donna dai capelli rossi, una donna che pettina i capelli ad altre donne.
Prima di trent’uno era la terra, lungo il torrente della Terra, fuori dalla Collina della Terra.
Più su, sulla strada il rumore del lavoro dei marmorari, il legno venduto all’ingrosso, una donna che vende le bilance, i ceraiuoli, le stoffe e gli abiti cuciti a misura, la piattara, il ferro, fino alla Puntarola. La Cupa dei muti di fronte alla chiesa, una loggia balconata. Una galleria con il soffitto in legno, il pavimento di una casa. Le case, le case di tufo.
Trent’uno… Tremò. E forse trema ancora, sempre trema. Ogni volta, come se…
– Chiudi gli occhi che conosco, appoggiati e sta qui tra il collo e la spalla come la prora di una nave in un golfo. Tieni gli occhi chiusi e guarda i gabbiani che ti fanno strada, che quando sei arrivata nel loro benvenuto era già la strada. Prendi fiato e respira e sfiata. E apri gli occhi e mi troverai ad aspettarti tra le tue braccia e il rumore di un treno. E ora, andiamo a comprarti questo cappello…
– E i gabbiani mi hanno dato il benvenuto e fatto strada fino al negozio di cappelli. Ed è un rito comprar cappelli, io che non credevo che bisognasse riconoscersi. Certo, sempre dopo un tè delle renne o al cioccolato, in cui mi aspettavo qualcuno mi avesse cercato.
– Ed è come un rito comprar cappelli. Tu ce l’hai nei tuoi occhi il tuo cappello, solo che non l’hai mai visto, né lui ha mai visto te, ancora nessuno specchio nel mezzo. Ma tu, ce l’hai nei tuoi occhi il tuo cappello.
– Dentro i tuoi occhi c’è un bambino che parla al mio posto. C’è bisogno che qualcuno lo stia ad ascoltare. C’è qualcuno che ha voglia di chiacchierare e un gabbiano che mangia un gelato sulla mia strada.
Trent’uno… Tremò. E trema, trema ancora, sempre trema. Ottanta. La Balena Bianca canta. Lasciala cantare. Ogni volta, come se…
Le macerie, la polvere e le pietre. Le case, di tufo le case spazzate via dalla Collina della Terra. La farmacia da contenitore alle macerie. Una torre decapitata, l’orologio nella lavanderia. Qualcuno oggi si sposa, di domenica. Un piatto, gli avanzi del pranzo, gnocchi senza patate e fusilli tirati all’uncinetto, con su un altro piatto a riposare tra le macerie, di domenica.
Nella via del seminario i galli e i conigli son scappati dalla porta e le travi hanno ucciso l’ippogrifo. Dietro ai cannoli da cui sgorga, l’acqua non passa più e non passano nemmeno i passi. Un negozio di orologi da contenitore alle macerie. Le case, di tufo le case bombardate dall’interno. I miracoli sono andati persi, spezzati in due nel marmo.
Ottanta. La Balena Bianca canta. Lasciala cantare. Ogni volta, come se…
Il Largo… Nella via del generale una festa per bambini e le pareti come biscotti. Il legno delle travi e i mobili di legno fino in strada. Quattro piani nella via del generale e una credenza da salotto perfettamente in piedi, alla parete. Sopra una candela e un candelabro e le statuine di ceramica. Come entrare in casa della gente senza salir le scale, senza essere invitati alla festa per bambini.
La testata di un letto e uno scaldabagno cilindrico, lo scaffale di una bottega a pian terreno, fili e tubi, la polvere e le pietre. Lo specchio del bagno e la schiuma da barba su di esso. La Madonna di Raffaello, i cuscini e le coperte.
Ottanta. La Balena Bianca canta. Lasciala cantare. Ogni volta, come se…
La piazza del mercato e i vicoli e le stanze perse per sempre. Al Triggio un auto già rottamata, le lenzuola ancora stese ad asciugare. Il vicolo della neve, il tufo, la polvere e il legno marcio. La via dell’abate l’hanno sbarrata le macerie. Le case, le case di tufo bombardate dall’interno. La rampa ripiegata su se stessa.
Trent’uno… Tremò. E forse trema ancora, sempre trema. Ogni volta, come se… Una Balena Bianca…
– Ultimamente ti chiamo per nome.
– Conoscere un nome non è poca cosa, a chiamarti non ci sarebbe Nessuno e Nessuno ti chiamerebbe.
– Posso chiamarti per nome?
– Io ti chiamo con il tuo, riconosco il tuo nome e i tuoi occhi che ho già visto.
– Il riconoscimento ha a che fare con l’appartenenza.
– Evidentemente ti appartengo, o mi appartieni, in qualche modo.
– Le nostre anime avrebbero molto di cui conversare, credo.
– Ci sono cose e persone che ti appartengono fin da bambino, ti abitano silenziosamente. Abitano dentro di te senza esser state invitate e senza pagare l’affitto. Poi, improvvisamente, appaiono. E portano con sé un nome, solitamente. Hanno bisogno di esser nominate per apparire.
– Tu, è come se apparissi. Quando passo davanti a uno specchio vedo i tuoi occhi, li riconosco. Invece, sono i miei.
– Quelli che riconosco io. Forse è questa l’appartenenza.
Trent’uno… Tremò. E forse trema ancora, sempre trema. Ogni volta, come se…
Dopo trent’uno che ne è stato della terra? In altri rioni a viver la Terra, per lunghi anni in macerie la Terra. La ricostruzione e la Balena Bianca.
La via scavata nella collina della Terra chiusa al traffico e pericolante. Contrafforti con mattoni forati ai palazzi pericolanti, per lunghi anni in macerie. La torre ha riavuto la sua testa e i suoi rintocchi, ma senza tetti. Tra i cannoli, i tre cannoli sgorga l’acqua. Ancora buchi nella via del seminario.
La ricostruzione e la Balena Bianca. Dopo trent’uno che ne è stato della Terra?
Nella piazza il cinema marcisce, non c’è più l’umanità. San Nicola murato vivo, alle sue spalle un teatro nuovo, la borghesia e la Balena Bianca. Lo Stretto e la piazza del mercato, un blocco di cemento gli ha messo fine. Un blocco di marmo e cemento il vicolo della neve che non è lui e il Triggio che ha perso l’arco per far posto alle auto da rottamare.
Dopo trent’uno che ne è stato della Terra? La ricostruzione e la Balena Bianca.
Il convento, senza alcun senso, macerie a colpi di ruspe. Il palazzo di città, il benvenuto ai cittadini. Croce parla loro di storia. Tra le sue stanze, l’ingegnere, l’archivio storico un’omissione. Al posto del mercato, un Mercatone, manie di grandezza e una cattedrale nel deserto urbano, un labirinto buono a giocarci da bambini, un gioco senza alcun senso.
Dopo trent’uno cosa è stato fuori dalla Terra? Per lunghi anni le macerie fuori dalla Terra. La Balena Bianca e la ricostruzione.
La passeggiata al Corso dopo il Largo. I palazzi tagliati, solo il pianterreno dei negozi. I muretti di protezione e le lamiere. La strada sul torrente della Terra, per lunghi anni, ancora oggi dopo trent’uno, le macerie e i buchi. La toponomastica che non si trova, i miracoli che non hanno nome, la loggia balconata a colpi di ruspa, la Cupa dei muti e l’immondizia.
Trent’uno… Tremò. E ancora trema, trema sempre. Ogni volta, come se… La ricostruzione e la Balena Bianca.
– Quella notte un pezzetto di carta velina è finito nella bussola…
– Carta velina c’era nella scatola blu insieme a immagini e parole, insieme a un polpo viola. Tu, la riconosci?
– E i miei occhi ti dicono di sì. I miei occhi che tu riconosci.
– Quando mi son ritrovato con una scatola blu tra le mani avevo il tuo volto davanti ai miei occhi e quando ho letto il tuo volto era ancora davanti ai miei occhi, a pochi centimetri di distanza come ora. E avrei voluto trovarmelo tra le mani.
– E mi alzo dalla sedia in cui sto bevendo in mio caffè, a cui sono ancorata per non tremare ed esser scossa e vengo a prenderti le mani tra le mie a deporle sul mio volto. E te le lascio lì che le mie sul tuo volto sono ad accarezzarti la barba che ora c’è. E i tuoi occhi sono davanti ai miei, uno specchio, il riconoscimento, la riconoscibilità, la riconoscenza.
– Se ne conoscono un po’ di cappelli in una cappelleria, nel rito di comprarne uno. Poi i tuoi occhi si incontrano con il tuo cappello. E non è più dentro i tuoi occhi, ma davanti ai miei, tu e il tuo cappello, e i gabbiani che ti hanno fatto strada e ora i complimenti. Vi siete trovati tu e il tuo cappello. Il riconoscimento, la riconoscibilità, l’appartenenza e la riconoscenza.
Sempre trema. Ogni volta, come se.. E forse un giorno smetterà, io smetterò di tremare.