Premio Racconti nella Rete 2012 “Passiflora” di Gianluca Pignalberi
Categoria: Premio Racconti nella Rete 2012Caldo! Il pensiero sommesso e la sensazione tenue si sono insinuati pervasivamente tra le pieghe del mio cervello e delle mie fibre muscolari. Ora il mio organismo non si accorge di altro che della temperatura, dell’umidità corporea, della sete. Sono a passeggio nei dintorni di Piazza Fiume a Roma; è l’ultima domenica di maggio del 20xx. Ho bisogno di un po’ d’acqua e di ombra. Ho l’acqua; trovo l’ombra a ridosso dei palazzi. Un po’ di tregua dal caldo, incredibile per quella stagione che ricordavo essere la primavera durante la mia infanzia.
Qualche minuto di ristoro fa miracoli e tutti i miei sensi sono di nuovo attenti e pronti a cogliere il piú minuscolo dettaglio.
– … telefono alla segretaria e fisso un appuntamento… – dice un’italiana esile a un cellulare che la divide dal suo interlocutore. Di domenica? Forse la chiamerai domani, vorrei dirle ma evito.
I pochi passanti sono di provenienza varia: filippine che si tengono per mano, nordafricani intenti in discorsi per me incomprensibili ma non per questo meno affascinanti, qualche asiatica che non distinguo… cinese? giapponese? coreana? e di che regione o stato? Non posso neanche guardar loro il taglio degli occhi perché indossano grandi e vistosi occhiali da sole. Quasi non vedo i loro zigomi.
– Signora, mi fa un caffè? – proviene da un bar la voce di una donna che dice di dover tornare al lavoro.
Le reazioni nucleari di fusione di atomi di idrogeno in atomi di elio del sole continuano implacabili la loro opera di illuminazione e riscaldamento. Devo rimanere all’ombra. Mentre girovago mi trovo a svoltare nella strada vicino alla lapide posta per l’assassinio di Massimo D’Antona. Scuoto la testa, impotente di fronte alla barbarie umana, osservata all’epoca da una Villa Albani silente e immota. Rasento il muro esterno del parco mentre mi domando come e se sia possibile visitarlo quando una fuggevole visione periferica sinistra perfora la mia attenzione: il muro di cinta di un palazzo è totalmente rampicato e ridisceso da una pianta i cui fiori sono di una bellezza indicibile, una pianta che vidi per la prima volta l’estate in cui avevo sedici anni. Era il 19xx.
Mi trovavo sulla costa mediterranea spagnola con una corposa combriccola di persone a cui ero aggregato come un comedone è aggregato al viso di un’adolescente in pena d’amore. Mi tenevo ai margini della comitiva e salvaguardavo il mio spazio sociale al meglio che potevo da quei perlopiú nonni poco scolarizzati e goliardicamente prepotenti. Il fatto di aver attraversato mezza Italia, l’intera Francia e un pezzo di Spagna non deponeva a mio favore. Il pomeriggio prima dell’arrivo a destinazione ci fu la decisione di fermarsi per guardare una partita: l’Italia se la vedeva contro un’altra squadra europea a me ignota. Avrebbero trovato un bar in cui vedere la partita?
Ci fermammo in un paesino chiamato San Josè. Il bar, un localetto attempato e molto carino da vedere e da vivere, dava su una strada litoranea costeggiata da una stazioncina ferroviaria. Entrai nel bar con gli altri ma la mia moderata passione per il calcio e la forte avversione per il fumo, specialmente quello eruttato da quelle sigarette di varechina cristallizzata chiamate Ducados, mi consigliarono di uscire all’aperto. Attraversai la strada pressoché deserta e andai vicino alla stazioncina. Il muro di fronte alla strada era tappezzato da una pianta con dei fiori che non avevo mai visti. La loro composizione tridimensionale ricordava le torte multistrato dei matrimoni: una base di petali bianchi a forma di triangolo arrotondato, poi uno strato di petali longilinei e aculeiformi di colore bianco digradante a blu chiaro sulla sommità e a viola scuro alla base, quindi uno strato pentagonale formato da cinque bastoncini terminati da spatoline; infine lo strato sommitale formato da tre stami carnosi vagamente glandiformi. Scoprii anni dopo che era una passiflora, il fiore della passione, denominata cosí per il ricordo evangelico della corona di spine posta sulla testa del Cristo durante la sua Passione.
Ero intento a guardare quei fiori per me inusitati quando sentii qualcosa che si strofinava sulle mia caviglie. Abbassai gli occhi che catturarono e trasmisero al mio cervello l’immagine di un felino portatile: un gatto europeo femmina molto piccolo, forse svezzato da poco. Mentre dal bar giungevano grida di delusione (l’Italia aveva subito un gol) io giocavo col piccolo quadrupede, l’accarezzavo, lo sfidavo col dito tremolante. Ero intento al gioco immerso nel celestino del cielo serotino e nel sole già quasi rosseggiante, prossimo al tramonto sul mare, quando vidi una figurina in calzoncini che si era avvicinata senza emettere rumori. Una ragazza, pressappoco della mia età, si stagliava vicino a me per chinarsi subito dopo a giocare col gatto. I suoi capelli biondi, lunghi e lisci incorniciavano un paio di occhi radiosi e un sorriso schietto, semplice, per niente malizioso. Era molto carina ma ai miei occhi aveva lo stesso difetto che avevo io ai suoi: parlavamo due lingue reciprocamente straniere. Conoscevo tre parole tre di spagnolo e disponevo di un inglese ancora zoppicante, colpa dello studio precedente del francese, ma riconobbi il suo tentativo di presentarsi quando mi diede la mano, sempre sorridendo. Non capii il suo nome, non capii niente, ma il suo sorriso mi induceva a sorridere a mia volta. Tentò di parlarmi del gattino e di tante altre cose ma ero solo frastornato e fissavo la sua bocca intenta ad articolare suoni che si trasformavano in fonemi aggregantisi in parole e quindi in frasi. Cosa mi avrà detto mentre io la guardavo come avrei guardato un extraterrestre molto attraente? Accidenti a me e alla mia ignoranza!
Durante il tentativo frustrante di dialogo udii un altro urlo di disappunto e delusione provenire dal bar: la difesa estrema italiana era stata bucata per la seconda volta. Nonostante la partita non fosse finita, qualcuno fuoriusciva dal bar. Un nonno del gruppo mi vide vicino a una ragazza carina e sorridente e decise di farmi vedere quanto lui fosse figo e quanto io fossi semplice e imbranato. Si avvicinò a noi, fece un paio di gesti alla ragazza, le disse qualcosa in italiano inframmezzato da un paio di parole in spagnolo e si allontanò verso la spiaggia abbracciando la ragazza.
Li guardai attonito e i miei muscoli mimici furono percorsi dalla minuscola quantità di corrente necessaria e sufficiente a sostituire l’espressione sorridente con un’espressione di delusione. Piegai le spalle in avanti e tornai a giocare con il gatto. Se fossi stato Lucio Battisti sarei tornato a giocar con la mente e i suoi tarli. Un tarlo effettivamente c’era nella mia testa, ma non gli diedi peso. Chi ero io per giudicare o prevenire le decisioni altrui, specialmente di una ragazza di cui non sapevo niente?
Dopo un tempo che mi parve infinito, col sole ormai rosso e molto basso sull’orizzonte vidi i due che tornavano, non piú abbracciati. Lui, un fanfarone dedito alle vanterie e alle spacconate, insolitamente taciturno e lei muta e non piú sorridente. Quando mi vide mi corse incontro e mi abbracciò. Mi parve anche di vedere le lacrime spuntare dai suoi occhi mentre cercava di dirmi qualcosa. Io ero ammutolito a mia volta: ero attonito e un po’ spaventato. La voce dell’autista mi richiamò: era ora di ripartire e viaggiare per un paio d’ore. L’indomani saremmo finalmente arrivati a destinazione. Il pullman ripartí mentre i miei occhi allargavano il campo d’inquadratura e la figura esile della ragazza si rimpicciolí fino a squagliarsi nell’ambiente ormai quasi buio.
Ogni volta che vedo una passiflora mi torna in mente l’episodio, il volto ormai senza sembianze della ragazza, la stazioncina, la ferrovia, gli urli incitanti dei tifosi per televisione. Passiflora, per tutti il fiore della passione, per me il fiore della colpa, della mestizia, della codardia. Mi sgomentano le stesse domande che mi pongo da troppi anni: Cos’avrà combinato quel fanfarone? Perché la ragazza mi ha abbracciato? Avrei potuto evitare qualcosa di male? Ho il terrore delle eventuali risposte. Mi sposto di nuovo al sole in attesa che minuscole gocce di sudore intridano la mia camicia e il sistema vasovagale mi urli che devo bere per non svenire.
Originale, per una volta un protagonista non vincente, però ci sono troppi termini aulici, tecnici, per i miei gusti. Azzeccato il titolo
Cara Giorgia, ti ringrazio del commento garbato e puntuale. Il protagonista usa quei termini in contrapposizione a quelli che definisce “nonni poco scolarizzati”. Ci tiene a far vedere che la sua percezione del mondo è più granulare della media 🙂
Ciao Gianluca, ti ringrazio per il tempo dedicatomi, dalle tue parole traspare un animo gentile.
Passiflora ti avvolge, prima ti catapulta in una calda giornata romana, mi sembra di osservare,
di vivere, annusare i luoghi che con perizia descrivi.
Mi immedesimo poi nelle peripezie del protagonista, nel suo rapporto con il mondo e il gentil sesso.
Adorabili e audaci i tecnicismi!
Filippo, grazie di cuore dei commenti sul racconto e su di me. Spero che entrambi siamo come ci descrivi. Io ce l’ho messa tutta pur non essendo, ribadisco, un narratore. È la prima volta che partecipo a questa competizione e ci tenevo a far bene. Sull’esserci riuscito non metterei la mano sul fuoco, ma sapere che un lettore/scrittore ha avuto le mie stesse percezioni sul personaggio e sul racconto mi fa già essere vittorioso indipendentemente dall’esito finale 🙂 Grazie ancora.
Gianluca,
trovo l’atmosfera del tuo godibilissimo racconto estremamente cinematografica (quel caldo appiccicoso di domenica, a zonzo per le strade di Roma, la combriccola di ‘nonni’ al bar con la partita di sottofondo richiamano alla memoria un paio di ‘cosette’ egregie, cinematograficamente parlando).
La capacità di trasportare il lettore ‘dentro’ la scena è importante – essenziale, per un narratore.
Ed è qualcosa che tu sai fare, credi.
Nel leggere il tuo incipit mi è venuto caldo – ho cominciato a provare un’afa opprimente che mi stringeva la gola e mi bagnava la fronte, in questo freddissimo giorno di Giugno infradiciato da un temporale da tregenda.
Potere della suggestione, dicono; potere della narrazione, dico io – trasportarti altrove, in un tempo che non c’è, dove tu non sei tu e la realtà non è la tua… purché ‘vera’.
La tua, quella descrive il tu o racconto, lo è.
Sentita. Vera. Verosimile.
Col finale, poi, mi hai spiazzato.
Il gattino, e soprattutto ‘la ragazzina muta dal sorriso spento’, vittima del gesto infame che s’intuisce nei suoi occhi arrossati dalle lacrime.
Soprattutto, il suo abbraccio – il gesto liberatorio, per come la vedo io, attraverso il quale la giovane affranca il protagonista da ogni colpa.
Non vi è codardia, né mestizia, dove non vi sia colpa.
Solo il perdono.
Delicato e poetico.
Originale. Molto bello.
Si può dare un giudizio, hai detto, ricordi?…. Be’, il mio non può che essere estremamente positivo.
Se questo è il tuo primo racconto, be’… chapeau.
Continua.
Sei sulla strada giusta.
Ah, e chi ti avrebbe mai detto che ‘non saresti un narratore’?…
Se qualcuno l’ha fatto, è un cretino.
Un narratore è un regista: è la voce fuori campo che racconta, che illumina ora un dettaglio, ora l’altro.
Colui che evidenzia ora un personaggio, ora un altro, svelando al lettore come stanno le cose.
Tutte cose che tu fai degnamente.
Quindi, Gianluca … benvenuto nel mondo dei narratori.
Che ti piaccia o no.
In bocca al lupo,
Nikki
Nikki, innanzitutto grazie per il commento lungo e circostanziato. È una gioia leggerne di simili, specie quando ti dicono solo di bene 😀
Il fatto che io non sia un narratore deriva da diverse fonti:
1) io non mi considero tale perché mi sembra sempre di scrivere delle banalità senza troppa fantasia e verosimiglianza. Non è il primo racconto che scrivo ma è sicuramente uno di quelli scritti dopo che mi è “tornata la vena”. Per diversi anni sono stato in incubazione curata con tonnellate di letture da DeLillo a Camilleri, da Pynchon a De Carlo, da Perrotta a Laander (e tantissimi altri). Certo è difficile avvicinarsi a certi mostri. O forse posso farlo ma non mi considero all’altezza;
2) quest’anno diverse faccende personali mi hanno ispirato alcuni racconti (anche uno in cento parole) che ho avuto la faccia tosta di iscrivere a dei concorsi letterari. Credimi se ti dico che un editore con cui ho avuto una forte discussione per motivi non lavorativi ha bollato un mio lavoro come “lagnoso da morire”. Ognuno ha i suoi gusti.
Evito di proseguire l’elenco.
Le tue osservazioni corroborano la mia voglia e l’esigenza di continuare a scrivere e raccontare (dopo anni di articoli di informatica su varie riviste italiane e internazionali), pur capendo che sono abbastanza limitato nell’immedesimazione con diversi personaggi. Migliorerò anche in questo, se ce la faccio. E magari, visto che mi riconosco spesso in uno dei protagonisti di Acqua, luce e gas che lessi anni fa, smetterò di infarcire di avverbi le mie frasi 😀
Faccio parte anch’io del mondo dei narratori? Mi piace! 🙂
Grazie ancora Nikki.
Bel racconto e, secondo me, è un buon inizio per un narratore. Scrivere spesso è una esigenza, uno sfogo, una ricerca interiore. Se poi, quanto si scrive è apprezzato da chi legge, beh, è giusto, anzi giustissimo sentirsene gratificati. Bravo!
Grazie Silvia, il tuo è un commento gentile e incoraggiante 🙂 Spero di continuare a migliorare anche se – hai centrato il punto – scrivo principalmente per fissare su carta alcune impressioni, sensazioni, sfoghi ed esigenze. E ne avrei di cose da migliorare: trame, tecnica, lingua… Intanto tengo le dita incrociate 🙂 (e non puoi sapere quant’è difficile digitare con le dita incrociate 😀 ).
Gianluca,
quando parli di Acqua Luce e Gas immagino ti riferisca alla trilogia di Matt Ruff che racconta classismo, razzismo e catastrofe ecologica in atto in un’ipotetica New York del futuro prossimo – nelle “zone alte” si ergono grattacieli sempre più immensi e un miliardario sta costruendo un edifico che sfiora il cielo come monumento ai sogni dell’umanità.
Anch’io trovo fantastica la metafora di Ruff – se ricordo bene, dalla zona ‘alta’ i liquami vengono dirottati in quella bassa, popolata da individui multicolori, bizzarri e fantastici (coccodrilli che ingoiano i disperati che lavorano, squali bianchi). Attuale, devo dire.
Ricordo un sottomarino verde a pois rosa: brillante!… Senza dubbio una iper-creatività alla Thomas Pyncon (altro che menzioni anche tu) 🙂 ad incorniciare un affresco triste – metaforico, ma piuttosto realistico, temo – del futuro che ci attende.
Camilleri, De Carlo, Laander e Pynchon di cui sopra – ‘mostri’ (nella loro accezione positiva, questa volta) che sarà impossibile avvicinare.
Tuttavia, come ho detto a qualcuno nel passato, ritengo che il lavoro di ogni narratore – di qualunque persona – che metta nel proprio lavoro passione e dignità, meriti il più profondo rispetto. Se poi, come giustamente afferma Silvia, il tuo lavoro è apprezzato da uno lettore, fosse anche uno solo, si può dire, allora, che il tuo percorso di narratore sia compiuto con successo.
Hai messe la scrittura al servizio della storia, raccontando un pezzo – piccolo, grande, in bianco e nero o a colori: non fa alcuna differenza – di vita.
L’esigenza di migliorare, poi, credo accompagni sempre, nella vita, coloro che compiono il proprio lavoro in maniera scrupolosa, con rigore e serietà.
Personalmente, se rileggessi i miei testi un milione di volte, li cambierei un milione di volte più una.
Difficilissimo, per un narratore, ‘accontentarsi’ di quello che scrive.
Temo che quella di migliorarti sia un’esigenza – un bisogno continuo che ti porterà a leggere sempre di più, a buttare giù appunti, note e frasi scoordinate su foglietti volanti, bottiglie dell’acqua minerale, scatole di medicinali e retro delle bollette (parlo per esperienza personale) – che farai una gran fatica a non considerare.
Ti troverai, anzi, temo, a dover soddisfare una necessità che si farà dipendenza, generando una sofferenza che nasce nelle budella e martella nel cervello di giorno, di notte, in viaggio, in vacanza, ovunque ti trovi, in ogni momento della tua esistenza. Uno scomodo – e assieme assai piacevole, devo ammetterlo – compagno di vita della cui presenza non ti libererai mai più, temo.
Ri-benvenuto tra noi, Gianluca 🙂
A presto,
Nikki
PS: Un editore (editore, o editor?… non che faccia molta differenza) che definisca un lavoro – qualunque esso sia e qualunque siano i suoi motivi – ‘lagnoso da morire’ è un imbecille che intende rendere valore oggettivo il proprio personalissimo – opinabile – giudizio. Non è il primo, non sarà l’ultimo in cui ti imbatti, in questo mondo.
Al di là di tutto, c’è modo e modo – anche questo, credo, l’ho già detto – di porre delle critiche. Passerei oltre senza considerare.
PS-2: Perdona la mia ignoranza in botanica – ammetto di essermi fidata, senza verificarle, delle affermazioni di un vecchio prof di biologia che, a suo tempo, accomunò le due piante.
Nikki, se mai qualcuno ne voglia dubitare, hai una conoscenza spaventosa. Sì, mi riferivo proprio a Matt Ruff.
D’accordo con te sulla correzione dei propri testi: li cambierei un giorno sì e l’altro pure.
Per editore mi riferivo esattamente a publisher, che poi incidentalmente lavora anche da editor nella sua piccola casa editrice. Ma temo che la sua reazione sia stata dettata allo scazzo personale e non al racconto in sé (lo spero proprio).
Ma figurati se non si può perdonare la mancanza di conoscenza, specie se in botanica. Certo, se io fossi un’amanita phalloides e tu mi avessi scambiato, mangiandomi, per un’amanita caesarea, non te l’avrei perdonata di certo 🙂
Un caro saluto. Ribadisco che è sempre un piacere scambiare idee, opinioni e conoscenze con te.
Dunque Gianluca, il protagonista è lì che passeggia sotto il sole quando la vista della pianta lo rimanda ad un’esperienza di diversi anni prima. Un’esperienza, forse, di quelle che non ci piace ricordare, che si insinuano di tanto in tanto tra i pensieri del quotidiano per tornare a ferirci ricordandoci quanto siamo stati inadeguati. Ormai è impossibile trovare la ragazza e spiegarle che era diverso da come apparve, che non era complice, che oggi è ancora più diverso, migliore, forse proprio in conseguenza di quanto accaduto. Prima o poi lui se ne farà una ragione, ma in un angolo della sua coscienza questo ricordo latiterà per sempre. Mi è piaciuta l’immagine delle urla di disappunto provenienti dal bar mentre il ragazzo è fuori e si tiene in disparte. Non mi dire però che quando sei accaldato e hai sete pensi al sistema vasovattelapesca! Auguri! Donatella
Ciao Donatella. Ti ringrazio del commento: ognuno dei commenti ricevuti mi fa capire che anche il mio racconto nasconde più cose di quelle a cui avevo pensato io 🙂
Come avevo risposto al commento di Giorgia Bruzzone, il protagonista ha una percezione della realtà più granulare della media: nessuno o quasi pensa ai raggi del sole come il prodotto della fusione nucleare di idrogeno in elio, né ai discorsi come la giustapposizione di fonemi articolati da bocca, lingua, epiglottide e coordinati dal cervello. Quindi, no, nessuno penserebbe che il sistema vasovagale, nelle persone predisposte, ti dice lui che devi bere per riequilibrare la pressione che scende sotto il livello di guardia e ti fa svenire.
Ti ringrazio del tempo che mi hai dedicato 🙂
finalmente ho trovato il tuo racconto! Lo trovo veramente interessante ed accattivante. Ci sarebbero un paio di limature, che mi permetto di dirti poichè sei veramente sulla strada giusta per poter pubblicare una raccolta. Nella rete ci sono molti suggerimenti dedicati a chi si cimenta nella narrativa, e uno di questi è quello di modificare il linguaggio a seconda del personaggio al quale si riferisce, questo l’hai colto in pieno, soltanto che forse ci sarebbe voluto qualche descrizione fisica o di azione, che concretizzasse ed anticipasse questo suo essere granulare. fatto in prima persona è più complicato perchè non puoi fare dettagliate descrizioni del personaggio, visto che parla e pensa solo lui. La sua caratteristica viene fuori soprattutto quando parla di lui ragazzino, che però con dieci anni in meno non potrebbe mai avere lo stesso linguaggio che usa poi da adulto. E’ vero che è un fhash back, ma se si potesse in qualche modo sottolineare la differenza e la sua crescita sarebbe ancora più perfetto.
Bada che queste che ti dico sono solo sottigliezze suggeritemi dal mio vizio di essere perfezionista (ciò non vuole dire che ci riesco). Il racconto è anche bello così come è.
Rita, moltissime grazie. Non solo puoi permetterti di suggerirmi le limature, *devi*.
Vedi, mi capita di essere direttore e editor di un semestrale di tipografia digitale e quindi sono in prima persona coinvolto a suggerire limature o sgrossature agli autori. Però, accidenti, quando si tratta di giudicare il proprio lavoro sono un disastro e non mi accorgo di cose evidenti.
L’uso del linguaggio differenziato mi deriverebbe almeno dai romanzi di Philip Dick (al contrario di DeLillo dove molti personaggi usano gli stessi ritmi, ricercatezza e linguaggio). In questo caso, come hai evidenziato, la complessità lessicale del sedicenne rimane quella dell’adulto proprio in virtù del flashback. Se fosse un film, quel flashback apparirebbe come una sequenza muta e la voce fuori campo del protagonista contemporaneo, al contrario dei normali flashback in cui si rivive l’azione del passato con tanto di dialoghi e tutto.
Il mio racconto è carente di tante cose, sono sicuro e ringrazio te e tutti gli altri lettori che mi aiutate con i vostri suggerimenti. Indipendentemente dall’esito della gara cercherò di limare quanto è nelle mie capacità 🙂