Racconti nella Rete®

24° Premio letterario Racconti nella Rete 2024/2025

Premio Racconti nella Rete 2012 “La candela” di Gabriella Ferrari Curi

Categoria: Premio Racconti nella Rete 2012

Devo proprio raccontarglielo, questo sogno.

Anche se noi non siamo mai stati molto intimi.

E in fondo neanche amici. Del resto io di amici non ne ho. Sono diventato un uomo scorbutico e diffidente. Cinico. Solo da ragazzino, al paese, avevo un sacco di amici. Sa com’è, nei piccoli centri. Eravamo una banda di scatenati, a correre instancabili qui e là. Ma lasciamo stare, perché quello era un altro mondo, una vita diversa in ogni senso. Non voglio melanconie.

Ho altro da pensare, perché questo sogno non mi dà pace, mi perseguita anche adesso, come se ci fossi dentro e devo confidarlo a qualcuno. Subito. Forse per risvegliarmi. Così in questo momento lei vale un altro, caro signore. Non si offenda.

Nel mio sogno c’era una donna, anzi una ragazza. Bella. Bellissima. Algida, non so se capisce quello che intendo. Anche se mi sorrideva dolcemente, con la bocca rossa e morbida, ma come da molto lontano.  Quello che colpiva di lei erano gli straordinari capelli, lisci, lunghi a metà schiena, che la ricoprivano come un manto sfarzoso. Bianco, di un bianco argenteo, molto più luminoso del raso. Strano, avevo pensato immediatamente, così giovane e con quel colore dei capelli. Non che la rendesse vecchia. Formavano solo un contrasto singolare con il viso.

La ragazza era vestita di un leggero abito bianco, una specie di tunica. Si percepiva sotto un corpo né grasso né magro. Un corpo sottile, flessuoso. Emanava un’inaspettata inquietudine che faceva vibrare la stoffa quasi impalpabile di cui era ricoperta. E, incredibili, erano gli occhi, colore verde alabastro, opaco e torbido. Uno sguardo penetrante che sentivi girare dentro la testa.

Mi piaceva, e molto, la trovavo bella. Però non provavo per lei nessun desiderio. Mi scusi, signore, di questa mia brutale sincerità, ma io per abitudine, ogni volta che vedo una donna, anche appena passabile, penso sempre a come sarà a letto. Con questa no. Provavo per lei solo una grande

ammirazione. Non rida adesso, un’ammirazione estatica, non so trovare altra parola.

Aveva una piccola candela bianca in mano. Accesa. Le chiesi: ” Come ti chiami?”  Mormorò con un tono dolce e rammaricato insieme: “Vita o Evita “. Non ho sentito bene.

Perché quando ha parlato ho provato una grande commozione invadermi il petto. La sua voce era identica a quella di Gianna, la mia prima fidanzatina. Si figuri che eravamo ancora al liceo, due ragazzini innamorati e curiosi del mondo. Volevamo mangiarcelo tutto subito. Bruciare le tappe. Io l’amavo molto, Gianna, mi sembrava che il sentimento che provavo per lei fosse così forte e assoluto da durare tutta la vita.  Adesso non voglio nasconderle nulla, signore, anche se mi guarderà con disprezzo. Un giorno Gianna venne da me singhiozzando disperata: ” Aspetto un bambino. Cosa facciamo? ” e io, spaventato, no, terrorizzato, mi sentii rispondere con voce cattiva: “ E’ un problema tuo.”  Avevo appena diciotto anni, la scuola da finire, poi il Centro di sperimentazione e la carriera. Magari all’estero.  E un padre che me le avrebbe suonate ogni giorno con la cinghia, se avesse saputo. Mi avrebbe costretto a fare, in qualche modo, il mio dovere. Il dovere! La parola preferita dalla mia famiglia.  Un concetto antiquato e senza via d’uscita, che mi faceva vomitare.  In un paese piccolo come il nostro, dove tutti sparlano di tutti. E nessuno che si faccia i cazzi suoi.  E poi con quali conseguenze? Così me ne partii per Roma, con la scusa di andare a trovare i nonni. Una settimana. A Gianna non dissi niente. Mia madre, quando tornai, mi disse che era venuta a casa a cercarmi parecchie volte, voleva sapere dove ero andato, come raggiungermi. Sembrava agitata, impaurita. Poi, era la fine dell’anno scolastico, in una raggiante domenica di giugno – con il sole che illuminava la campagna stipata di grano e riluceva sul fiume, che scorreva veloce come un nastro verdastro a dividere i campi – Gianna nel fiume ci si gettò. Non la ritrovarono mai più. Solo mio padre ebbe un sospetto e quando ancora tutto il paese era mobilitato a cercarla, una mattina mi chiese, severo, a bruciapelo “ Non è che hai combinato qualche pasticcio?” “ Io? Cosa vai a pensare.”  Feci l’espressione indignata, ma mi sentivo perduto. Troppo terrorizzato per provare rimorso. Quando passarono i giorni e si capì che la corrente chissà dove l’aveva trascinata, arrivò la vergogna. E anche il sollievo. Ero salvo. La mia vita era salva. Il mio futuro era salvo.

Chiesi alla sconosciuta: ”Come mai quella candela? C’è tanta luce qui.”

“Se spengo la candela, anche il mondo si spegne. Vuoi che provi? “ Soffiò sulla fiamma. Arrivò un buio denso, ottuso,  soffocante. Senza suoni e senza pensieri. Non provai paura. E quando mai avevo avuto paura della notte? Ma questa oscurità era strana, sembrava definitiva e ti soffocava come una colata di  piombo in gola.

La ragazza riaccese la fiammella e mi guardò con l’espressione trionfante, come per dire te lo avevo detto. Mi ricordò mia madre, quando faceva la stessa faccia furba.  Povera madre mia. Lei non ci crederà, caro signore, non so neanche se sia viva o morta. Si è data tanto da fare per me! Io non andavo d’accordo con mio padre, un prepotente che bastava poco per farlo arrabbiare e alzare la voce. Mamma si metteva sempre tra noi due. Rischiando ogni volta sfuriate memorabili, violente. Mi ha sempre appoggiato, anche quando papà voleva facessi l’avvocato, ma io con una durezza strafottente, sfidandolo, gli buttai in faccia, no, mi fa schifo diventare come te, non voglio una vita noiosa che è già subito come la morte. Me ne sono scappato a Roma a fare l’attore. Mia madre, poverina, mi scriveva di nascosto e mi mandava i soldi, perché all’inizio rischiavo veramente di morire di fame.  Incominciai a lavorare un po’. Piccole parti saltuarie che, nella mia sventatezza, mi illudevo sarebbero diventate importanti. Che scemo, vero? Non avevo qualità e non volevo rendermene conto. Poi incontrai Giulia, una troietta viziata, ricca e fatta. Incontrollabile.  Una mattina, da giorni troppo ubriachi per capire, ci siamo sposati. Dopo due mesi di esaltata follia mi sono d’improvviso reso conto, che tra tutti, quello era stato il mio errore più grande.

Mio suocero – lo dovrebbe vedere –  è un piccolo palazzinaro, con gli occhi porcini e greve di modi, più prepotente di mio padre, che magari era educato e onesto. Quando finalmente gli abbiamo dato la lieta notizia, mi ha preso per la giacca e: “ A gran fregnone!” mi ha sibilato, con una voce piena odio ” tu adesso ti metti a lavorare seriamente, entri in ditta, se vuoi i quattrini, l’attico ai Parioli e mantenere mia figlia. Non penserai di aver attaccato il cappello? Ti  fai il culo come me lo sono fatto io, che portavo la carriola a dodici anni. E da mia figlia non divorzi, perché se no ti faccio a pezzi con le mie mani.”  Lui ne è capace, perché ha certi figuri intorno, che fanno accapponare la pelle.

Mamma vide una sola volta Giulia. Quando venne a Roma di nascosto da papà, per conoscere mia moglie. Tre ore dopo la rimisi sul treno. Singhiozzava per la delusione e lo sconforto.

“In che guaio ti sei cacciato, figlio mio?”

“Ha tanti soldi, mamma, non devi più fare sacrifici per mandarmeli.”

”Te li avrei mandati per tutta la vita, piuttosto che vederti in questo disastro.”

Giulia rimase incinta, ma abortì. Mi disse che il feto era malformato.  Successe, poi, altre volte che buttasse i figli nel cesso. Anche di nascosto.  Non sapevo più se erano figli miei o di un altro. Di cento altri, che ormai passava le notti strafatta, in qualsiasi letto. Io praticamente vivevo prigioniero nel lussuoso attico dei Parioli.
Quando papà morì non andai neanche al suo funerale, perché ero troppo nella merda con la ditta di mio suocero, che aveva combinato casini da galera. Io, gran coglione, ero stato costretto a fargli da garante. E quando mamma si ammalò, le dissi vai in una casa per anziani, pago tutto io, ma non posso perdere un solo minuto dietro a questi problemi. Ho troppi guai per la testa. Povera mamma, non la sento da quasi un anno.

Le finisco di raccontare il mio sogno, caro signore. Anche se non c’è molto più da dire. La ragazza mi guardava, invitante. Io, che per molto

meno donne così me le sono sempre scopate, non provavo nessun desiderio.  Ero sorpreso. Mi si è avvicinata, lenta e ieratica.

Devo raccontare più in fretta ora, perché ho l’impressione che il tempo mi stia sfuggendo dietro alle parole.

Non so se per tenermela lontano o per stringerla a me, le ho afferrato le braccia.  Erano morbide, bianche e fredde.  Più si avvicinava, più sentivo una certa agitazione invadermi. La fiamma ha incominciato a tremare mandando forti bagliori sul suo viso. Mi sono guardato attorno. C’erano alberi e fiori e un paesaggio che assomigliava a quello che si vedeva dal campanile della chiesa del mio paese, con le colline leggere a fare da quinta all’orizzonte e il fiume in mezzo ai campi gialli di grano. Era tutto bellissimo. Così che dopo tanti anni ho provato una grande nostalgia e mi sono chiesto come mai non sono ritornato laggiù. Magari facevo meno cazzate. Perché ne ho fatte tante!  Non per cattiveria, perché non sono malvagio, ma per viltà di fronte alla vita, per leggerezza, per mancanza di volontà.

A questo punto voglio confidarle un segreto, al quale  neanche la polizia, con tutte le sue indagini ci è mai arrivata. E neanche quel merdoso burino di mio suocero, che già l’idea, in questa tragedia, mi manda via di testa dal ridere. Ho imbrogliato, umiliato, offeso, corrotto, rubato. E sì, anche ucciso. Perché poi di Giulia mi sono così stufato, e nauseato della vita con lei, uno prigioniero dell’altra, odiandoci, per i figli mancati, per le giornate senza senso, che l’ho guardata morire, in camera da letto una sera che si era fatta una dose tagliata male. Invece di chiamare il medico, mi sono seduto  silenzioso e immobile su una poltrona e sono stato ad aspettare, mentre vomitava sulla moquette e rantolava. Fino alla fine. Le ho messo un lenzuolo addosso per non vedere tutta quella lordura. Nel fetore che c’era, completamente vestito mi sono steso sul letto e mi sono addormentato come un innocente, con lei, poveracrista, per terra che diventava rigida.

Ora, nel mio sogno, guardando il paesaggio della mia infanzia provavo per la prima volta da anni, nostalgia di pulito e di semplicità. E ricordi rappacificati, senza più fantasmi velenosi, che mi cacciano via.

La ragazza mi si avvicinava sempre più.  Sentivo un vento che mi scuoteva come se fossi stato in mezzo a una forte bufera. Anche se gli alberi intorno non si muovevano e il grano era luminoso e fermo. Poi la candela, caro signore, incominciò a vacillare.

E adesso, mentre le sto parlando, sento un lungo brivido che mi attraversa come una lama la spina dorsale e anche il rammarico per quello che vedo intorno e che ho abbandonato. Compreso me stesso e la vita che non sono stato capace di avere.

Guardi anche lei! La ragazza ora ha l’espressione livida. Mi ha messo, possessiva, una mano sulla spalla, mi lancia uno sguardo lungo, appassionato, allusivo. Con un soffio leggero, che mi penetra dentro, spegne la candela.

Il nero vischioso mi avvolge soffocandomi. Non posso più parlare, perché capisco che sono senza voce. Poi nulla.

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