Premio Racconti nella Rete 2012 “Quasi una fantasia” di Filippo Cerri
Categoria: Premio Racconti nella Rete 2012Se giro un po’ la testa ed inclino leggermente il tempo sono di nuovo a ieri, Maria mi dice che mi vuole, io le sorrido e guardo quella lunare palla asettica che incipria una notte come tante, sempre blu scura, sempre nuvolosa, perché da queste parti siamo un po’ tutti annuvolati, e il cielo non può far altro che rispecchiarsi in noi, per non sentirsi troppo distante. Guardo la luna e mi immagino correre a mezz’aria su quei terreni dimenticati, asfittici, senza preoccupazioni, senza vita, trattenendo il respiro, con la consapevolezza che è così che si vive, con la poca aria che ti rimane cercando di fare qualcosa che ti sollevi da terra.
Ma il mio corpo non ne vuole sapere dei miei propositi di ignorare la legge di gravità, e l’unico regolamento che si sente di infrangere è quello stabilito dall’uomo, articolo del codice della strada, di non guidare sotto l’effetto di alcool, ma è quello che sto facendo, in pieno possesso delle mie facoltà mentali, poco meno quelle motorie, e Maria nel sedile accanto canta a squarciagola, a squarcia cuore, canzoni d’amore che andrebbero sussurrate ridendo.
Le case mi scivolano accanto e la mia meta sembra farsi più distante ad ogni metro che guadagno. Poi mi rendo conto che è una falsa prospettiva, io una meta non ce l’ho, e guardandomi accanto capisco di dubitare anche della mia metà. Domani la lascio, penso osservando di sfuggita Maria mentre si sistema i capelli con l’ausilio dello specchio che tiene nella borsa.
Intanto la scarico sotto casa, pochi affetti sparsi mi separano da lei, e in un lampo sono di nuovo a cavalcare l’asfalto serpentino e argentato di cui è fatta la strada, lasciandomi idealmente alle spalle Maria, la città, il mio solito lavoro, ogni possibile preoccupazione derivatami dall’essere sempre e costantemente me stesso.
Parcheggio lontano da casa, che a quest’ora nel miracolo di un posto davanti al portone non ci spero nemmeno. Me la faccio a piedi, così imparo a non essere un miliardario con villa e garageprivato.
Samuel è seduto sul muretto che fronteggia la casa, come tante altre volte, sta sbucciando la sera ingerendo birra in quantità industriale, ma tanto a lui non può fare male. Appena mi vede alza un braccio, come una bandiera in alto mare, lo raggiungo e mi siedo vicino a lui.
La terra continua a girare eppure le cose sembrano molto immobili. La situazione generale pare sempre la stessa, quando non peggiora. Lo stato cosa ha promesso di fare? I politici ne parlano? Il papa ha detto qualcosa a riguardo domenica mattina? Se lo ha fatto, io non ne ho idea, di sicuro dormivo. Samuel guarda in alto.
– Com’è bella la luna stasera eh… – mi dice, prima di ogni altra cosa.
– Già. – rispondo a mezza voce.
– È tonda, perfetta.
– È così che la vediamo.
– Chissà se ci appare così bella perché la sua perfetta rotondità o per i crateri che la deturpano…
– Forse l’insieme delle due cose – rispondo, capendo di che sapori si stanno colorando le nostre parole.
– Non pensi che la bellezza sia perfezione? – insiste. Allora cedo.
– Forse, ma dovrebbe essere in ogni cosa.
– Non lo è?
– No…non in tutto.
– Capisco. Se non è dappertutto vuol dire che la perfezione non c’è, se non c’è perfezione non c’è bellezza.
– Da nessuna parte…
– Da nessuna parte.
– Samuel, Ti sembra mai che qualcuno ci abbia fregato? Che ci sia stato fatto intendere qualcosa, e poi ce l’abbiano fatta dimenticare, del tipo “lascia perdere e vai avanti”?
– Se è così, qualcuno, da qualche parte, starà ridendo di gusto.
– Il meccanismo dell’universo può darsi che sia difettoso, che non sia così funzionale come ci piace pensare
– Può darsi.
– …
– La gente muore di fame…
– Si dà fuoco…
– Si getta da altezze vertiginose…
– Non ce la fa ad andare avanti.
– E a te come vanno le cose?
– Procedono. A te? – gli chiedo, sapendo che non avrò mai risposta.
Camminiamo per una strada anonima, Samuel parla, continua a discutere, ride spesso, mentre io resto ad ascoltarlo. È tanto che non c’è più e vederlo di nuovo questa sera, in cui mi tengo stretto per non lasciarmi andare, mi fa tornare in mente tante vecchie cose. Gli dico di Maria, di come siamo arrivati agli sgoccioli, di come il mio lavoro continui tutto sommato. Non parliamo d’altro.
Non avevamo mai parlato della bellezza, delle cose profonde del mondo, non in questi termini almeno, non a questi livelli.
La città si srotola ai nostri piedi. Samuel mi lancia uno sguardo cristallino, poi svolta l’angolo di una strada. Alla fine di essa si intravede il bagliore soffuso dei lampioni, e Samuel, salutandomi di nuovo con la mano, si allontana da me. Una breve incursione nella nebbia di questa mia notte è tutto quello che può offrirmi, e a me basta.
Potrei tornare a casa a questo punto, o potrei spingermi ancora più in là, a vedere se il plenilunio mi abbia fatto impazzire del tutto, se ci sono solo vaghe suggestioni da portarmi a casa stanotte o se c’è un tema palpabile in fondo a tutta questa storia.
Mentre mi tengo occupato a decidere il da farsi, una figura sbiadita si muove con agilità degna di nota, sguscia sull’asfalto da un’ombra ad un’altra, fino a riposarsi in un angolo, vicino a dei cassonetti della spazzatura che hanno tutta l’aria di essere lì da secoli. È un gatto che, come me, si mantiene irrequieto. Vedo i suoi occhi brillare, che mi guardano, come se avessero tutta l’intenzione di scavarmi dentro. Con passo deciso ma lieve si aggira per i vicoli. Poi qualcosa deve essere accaduto, perché l’animale rizza le orecchie in aria, come se si aspettasse qualcosa. Tutto intorno il silenzio prende le redini della situazione. Rimane così, immobile come fosse impagliato, durante il trascorrere di alcuni attimi si congela, ed io con lui. Il suo sguardo è rivolto verso un non-luogo che io mai e poi mai riuscirei a comprendere. Così come si è fermato torna al movimento, si gira verso di me, di nuovo, e mi lancia un’altra occhiata, questa volta l’ultima, prima di smaterializzarsi in favore della notte.
A questo punto la notte è elettrica, la luna smuove dentro di me una marea di sensazioni, di impressioni e di umori che la realtà difficilmente riesce a spezzare, calandomi in un’attesa irreale, come quel gatto rimango vigile a guardare l’infinito in sospeso.
È meglio lasciarsi fascinare la vista da cose che non esistono che riportare le cose alla loro giusta consistenza?, mi chiedo. In un primo momento resto così, senza bisogno di risposte, al caldo di una domanda retorica. Poi decido di sbilanciarmi e mi rispondo: È meglio se tu pensi che lo sia.
È una sera strana e la mia attitudine malinconica raggiunge vette così alte che il mio respiro si fa più rarefatto, tant’è che ancora una volta le cose mutano, e la luce dei lampioni mi suggerisce un sintomo di felicità. L’aria si tinge di chiaro, il mattino è vicino e anche la luna sembra stia per licenziarsi. Il problema di notti come queste, in cui ripensi a vecchie storie, a storie che non hanno avuto una vera e propria fine e che ti mantengono vivo, è che molto spesso si ostinano a diventar giorno. È l’ora giusta per riconnettermi al presente, oggi è un giorno ancora da sporcare, da vivere, penso ancora a Maria, a Samuel, alla vita randagia di quel gatto. E le cose vanno avanti, anche se a me non sembra.
* “Sonata Quasi Una Fantasia” è la denominazione con cui Beethoven indicava la sua Sonata per pianoforte n.14, detta anche “Sonata Chiaro di Luna”
Molto bello, introspettivo, cattura il lettore e lo coinvolge. Assolutamente di grande qualità stilistica. Uno dei migliori che ho letto. Complimenti!
Bello! davvero ben scritto. Complimenti!