Racconti nella Rete®

24° Premio letterario Racconti nella Rete 2024/2025

Premio Racconti nella Rete 2012 “Il batterista” di Luisa Multinu

Categoria: Premio Racconti nella Rete 2012

Il batterista lo vide per la prima volta in discoteca, quando ancora faceva cocktail per sopravvivere e non si curava affatto dei clienti. Aveva solo voglia di prendere il bicchiere pesante del cocahavana e spaccarlo in testa a qualcuno. CRASH, bel suono.

Lei pensava a sparire, dietro al bancone. Non voleva essere lì, indossare lo sguardo di tutti. In vetrina.

Quella sera poi stava coi piedi strizzati dalle calze a rete dentro a tacchi malfermi, mangiucchiati dalla camminata maldestra. Si sentiva piccola e grassa. Guardava quei  manichini anoressici che la circondavano sfilare nei loro trenta chili. Quanto avrebbe dovuto vomitare in cesso per essere così bella anche lei. Lo avrebbe fatto, domani. Camminava su e giù per il bancone, non poteva ballare su quel commercialotto, lo detestava. TUNZ TUNZ, che suono di merda.

Camminava e non pensava a niente. Fu così che non lo vide arrivare, alzò la testa e lui era già lì. Di fronte a lei. Lo sguardo fisso. Fu in quel momento che lui le entrò dentro, nel silenzio assordante della disco commerciale da quattro soldi. Gli occhi profondi e scuri, lo vide per un attimo. Era tornato, la stava cercando, era Lui. In quel momento lo sentì chiaramente TUMTUMTUMTUTUM. Il rullante, un assolo spaventoso, che suono meraviglioso.

Pensava a quando la prendeva in braccio e la portava ad accarezzare le mucche in montagna, l’erba verde che se la tocchi ti taglia le dita, il vento freddo di montagna nelle sere d’estate e canzoni cantate a squarciagola in macchina mentre si andava in giro la domenica, ma guidando piano, sempre piano.

Suo padre era così, una presenza imponente, l’amico che vuoi avere a diciott’anni.

–          Un cuba libre, grazie-

Quegli occhi erano i suoi.

Se ne andò così com’era apparso, un assolo di Jimi Hendrix in mezzo ad un concerto di Lady Gaga.

Da quella volta lei lo aspettava sempre, ogni sabato sera.

Col passare del tempo la serata in disco era diventata un bisogno vitale, come l’aria che respiri appena esci fuori dall’acqua, dopo una lunga apnea.

Le settimane passavano e lei aspettava solo il sabato sera, con i suoi vestitini e i piedi strizzati in quei tacchi precari andava incontro al suo destino con il bisogno bruciante di vedere solo quegli occhi, che tra mille la guardavano in quel modo. Una sorta di invito ad un duello a cui lei voleva assolutamente partecipare ma da cui, lo sapeva già, ne sarebbe uscita sconfitta.

Ogni volta si caricava pronta allo scontro finale, ad ogni incontro cercava di arrivare sempre un po’ più in là, al limite.

Certi sabati non veniva a guardarla e allora lo sconforto la ributtava nella melma da cui era venuta e lei si faceva piccola piccola e scontrosa, dietro al bancone.

Solo quando scorgeva i suoi occhi sorrideva, ritornava a respirare in superficie, fuori dall’acqua.

Lui arrivava, le parlava, sorrideva, poi spariva. Lei lo guardava andare via, allora si malediceva per non avergli detto che da quando l’aveva visto tutto si era fermato in lei, come quando togli le pile all’orologio della cucina e sta li per giorni sulle otto meno un quarto. Lo vedeva sorridere circondato da altre ragazze, abbracciarle affettuosamente e  allora sentiva l’acqua risalire, su fino al collo, oltrepassare le orecchie e pian piano reimmergelerla completamente.

Durante la settimana pensava anche alle conversazioni che avrebbe potuto fare con lui, lei che gli chiedeva di uscire e lui che tirandosela rispondeva si, si può fare e allora sorrideva nascondendo le guance rosse e la sua espressione da sedicenne sorpresa a sbavare sul poster di DiCaprio in cameretta. Perché questo era, una cotta adolescenziale? No, certo che no. Non ricordava di aver mai provato una simile tachicardia prima.

Poi arrivava il sabato e non diceva niente, restava ammutolita, sorriso da ebete e sguardo da autistica, gli occhi cerchiati da enormi quantità di ombretto forse mascheravano un po’ il suo stato di adorazione, lo sperava. Si chiedeva se lui sentisse il riverbero del suo cuore con tutto quel casino di Rhianna e David Guetta, in fondo era un musicista.

Quando lo guardava però, si rendeva conto che il suo assolo rock non lo aveva manco sentito, si faceva in mille pezzi sulla sua armatura, un suono metallico, poteva quasi percepirlo …TUTUTUTUMTUTUTUTUM allora si sentiva piovere in tante piccole gocce, per finire calpestata sull’asfalto, scivolare sul parabrezza delle auto nel parcheggio.

Lui la guardava con l’espressione di chi non sente niente

–          Vado a farmi un giro, ciao –

–          Ciao –

 

I tom ora li vedeva  per terra, sparsi, li guardava mentre la gente li calpestava noncurante, le scarpe sporche sfondare la pelle bianca, ruvida e ancora pulsante, come il suo cuore.

Ed ecco che tornava di nuovo, le parlava, sorrideva. Non sapeva niente di lui eppure l’amava come si ama la primavera che arriva d’un tratto e fa sbocciare il gelsomino morto nel terrazzo, senza avergli mai dato un goccio d’acqua per tutto l’inverno se ne resta li, dato per spacciato.

Sua madre aveva lasciato solo piante grasse nella vecchia casa, così non le fai morire, diceva, che tu non gli vuoi bene alle piante, non t’importa. Lei avrebbe voluto risponderle che forse, si , si dimenticava delle piante, ma alle persone a quelle ci teneva davvero e che preferiva ricordarsi di annaffiarle ed amarle, l’amore è gratis e non va mai sprecato, non è certo un vuoto a rendere.

Così il gelsomino era fiorito, tutto da solo.

Anche lei avrebbe potuto fiorire, ma la primavera non era mai arrivata, sott’acqua. Si sentiva sempre in carenza di ossigeno laggiù, ma non risaliva lo stesso, mai.

Una notte in cui cadeva la neve a ritmo lento e la folla le urlava nomi di cocktail dai quattro lati del bancone se lo vide lì, il batterista.

Stava dritto davanti a lei e la fissava con quello sguardo sicuro di chi ha già scavalcato il muro da cui gli altri stanno ancora affacciati. I suoi occhi erano neri, pieni di buio e lei li beveva tutti d’un fiato, in modo da sballarsi subito e  cominciava a sentire il brivido dell’adrenalina spalmarsi sulla schiena, il cuore partire in controtempo. Il fulmine era troppo forte, il suo cuore scricchiolava, lo vedeva già rotto in una sorta di chiaroveggenza, lo sentiva spaccarsi già allora CRASH SCCRRRRACH, un suono lacerante.

Lui però era ancora li davanti,  stava aspettando il suo Cuba Libre, allegro e noncurante come al solito, lei rise e diventò rossa, sapeva di essere stata scoperta. Sapeva anche  che lui era un musicista. Era stato suo padre a dirglielo, affacciato dietro a quegli occhi piccoli, che in realtà erano blu, ma lei li vedeva ancora marroni.

Marrone scuro della terra del sud, piena di vento e desolata, terra di poeti e sognatori, dove il profumo del mirto si spandeva nell’aria, come musica. Ma lei non poteva ancora sentire il profumo, sott’acqua.

Anche quella notte lui non parlò, la guardava soltanto.

–          Tutto bene? Un Cuba libre –

Poi spariva, non lo vedeva più. A volte lo scorgeva avvinghiato a qualche ragazza, altre volte se ne andava senza neanche salutare, allora lei riaffondava piano negli abissi da cui era venuta, in silenzio. Nessuno se ne accorgeva.

Certe notti il batterista lo trovava già li, affacciato al bancone che la osservava.

Allora lei pensava a tutte le conversazioni che aveva avuto con lui durante la settimana nella sua testa e poi riusciva a dire – ciao come stai? Cosa bevi? –

–          Un Cuba libre- poi se ne andava.

Non riusciva a sentire la voce di suo padre, ma era sicura che lui fosse li, chiuso dentro a quegli occhi marroni che in realtà erano blu.

Come quando sulla pista da sci, appena scesi dalla seggiovia approfittava della sua distrazione e partiva in picchiata – Dai chi arriva prima vince – urlava già da metà pista e lei si gettava in discesa senza neanche avere infilato le mani nelle maniglie delle racchette, l’unica cosa importante era arrivare per prima. Si lanciava a tutta velocità dietro a quel pazzo, era così che aveva imparato a non avere paura mai, a buttarsi sempre anche a occhi chiusi, sentiva ancora l’urlo da lontano, dai dai muoviti dai!

Voleva sentire ancora quel brivido sulla pelle, buttarsi ad occhi chiusi dietro a un folle e fidarsi, fidarsi ciecamente di lui.

Una notte lei decise di dirglielo che l’amava, magari non proprio usando la parola amore.

Voleva invitarlo ad uscire e  sapeva che avrebbe rovinato tutto.

Lo chiedeva spesso a suo padre nelle notti insonni, fissando il soffitto blu con le stelline fluorescenti appiccicate, ma lui non rispondeva. Però poi si ripeteva che il batterista veniva ogni sabato a guardarla, forse l’amava anche lui.

Quel sabato si vestì con più cura del solito, vestito rosso fiammante come il rossetto che passò ripetutamente sulle labbra prima di arrivare in discoteca. Lo aspettava.

Quella notte il batterista non comparse al suo bancone e neanche le notti successive.

Lei tornava a casa all’alba con i piedi trafitti dal nylon delle calze a rete, lo stomaco che distillava bile e pensava solo ai suoi occhi, non riusciva a prendere sonno persa nel delirio di redbull e domande a cui non avrebbe mai avuto risposta.

Quando qualcuno le chiedeva il numero o le faceva complimenti affacciato al bancone lei neanche lo vedeva, miscelava intrugli e shekerava alcool aspettando solo di vedere quegli occhi comparire tra la folla, nient’altro.

Così, sabato dopo sabato, si convinse che non sarebbe più tornato o, peggio, che l’avrebbe visto appoggiato a qualche altro bancone che non fosse il suo, a guardare un’altra. Pensava a come fosse stata stupida a volergli dire che lo amava, a come era stupida tutta quanta la storia e forse che suo padre non era li, non era mai venuto a cercarla dentro a quegli occhi in quella stupida discoteca.

Così, quando lo vide arrivare un sabato di un qualunque giorno di disperazione in cui sguazzava nella sua solita melma deserta non si agitò più di tanto.

Il cuore non le partì nel solito assolo come le altre volte.

Alzò la testa, per la prima volta sicura di sé e se lo trovò li davanti, il batterista. Lui la guardava, ma stavolta era al di là del muro, come tutti gli altri.

– Come stai? –

–  Bene. Un CubaLibre –

Lo guardò meglio, non riusciva a capire. Strinse di più gli occhi, come per mettere a fuoco.

–          Vado a fumare una sigaretta, ciao –

E se ne andò.

Mentre lo guardava allontanarsi, in un istante, capì. Gli occhi marroni del batterista erano blu, non se n’era mai accorta. Allora non sei qui, papà. Non eri tu dentro a quel blu. BLU. Lo  stesso blu degli abissi dove si stava reimmergendo. In fondo lei si trovava a suo agio a sguazzare in quel blu, in fondo lei voleva proprio ritornarci, in upnea.

 

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8 commenti »

  1. Un lessico fresco, che si fa cogliere all’istante (le onomatopee); trovo azzeccato il paragone del locale notturno col fondale marino. Non mi convince molto il tòpos della ricerca del genitore perduto, mi sembra un po’ forzato. Complessivamente però lo ritengo un testo valido.

    saluti

  2. bellissimo, toccante e profondo!!

  3. Bellissimo veramente bello, emozionante mi piace anche molto lo stile moderno un po’ rude, ma nello stesso tempo dolce emozionante come la prima cotta 🙂
    Bravissima facci emozionare ancora 🙂

  4. Mi ci sono “immersa”… bellissimo!!!! 😀

  5. wow che bello…riesce ad esprimere tante emozioni in poche azioni,mi e’ proprio piaciuto anche il modo in cui e’ scritto…bello bello

  6. Ciao Luisa, ricambio con piacere l’impegno nel leggere il mio di racconto e mi permetto, come al solito, un commento da lettrice. Una chicca i “tacchi malfermi, mangiucchiati dalla camminata maldestra”: un solo dettaglio sufficiente a rendere esaurientemente il personaggio. Il batterista ci è insopportabile, probabilmente perché non è il primo che incontriamo e alla ragazza vorremmo dire: “Lascialo perdere, liberatene!” mentre lei invece ci ricasca… È dunque vero che per noi donne l’uomo ideale è nostro padre? Ritengo di si, almeno nel periodo giovanile della nostra vita. Dopo si comprende che, spogliando il mito e osservando bene il re nella sua nudità, avremmo compiuto scelte più oculate perché noi non siamo nostra madre. Lei però non può ancora saperlo. È così giovane e pagherà lo scotto come moltissime altre alla sua età. Un’osservazione tecnica: un paio di ritorni di troppo di lui al bancone… Auguri sinceri! Donatella

  7. Grazie di cuore Donatella, è proprio quello che volevo trasmettere… auguri anche a te!

  8. La tua scrittura vivace lascia una sensazione di freschezza e di malinconia,come gli amori giovanili mai vissuti.

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