Racconti nella Rete 2009 “Prof, torniamo a Barcellona?” di Simona Marelli
Categoria: Premio Racconti nella Rete 2009
Barcellona in terza media è più un sogno che una possibilità: a un quattordicenne la città evoca danze e serate all’aperto, sangria e movida, piuttosto che arte e cultura. Che si fa, si organizza lo stesso?
“Professoresse”, tuona la dirigente, “ma siete proprio sicure di portare questi ragazzi di terza media in Spagna?” E noi a guardarci negli occhi, cercando di rimanere serie, ma sentendo che, da qualche parte, un innocente sorriso è già nato. Deglutiamo, meglio non mostrarlo ora.
Portare quaranta quattordicenni in una gita di quattro giorni, per di più in Spagna, non è impresa facile, lo sappiamo; sappiamo anche, però, di conoscere i nostri ragazzi e dentro di noi, in fondo, intuiamo che non ci tradiranno.
La prima tappa è a Figueras, il museo di Dalì: che si fa?, lo visitiamo?, i ragazzi lo capiranno? Ci proviamo: Dalì è un’esperienza, non qualcosa da capire.
“Dunque ragazzi”, esordisce una prof, “Dalì è un po’ un pazzo, non conosce la vergogna, e cerca di riprodurre nelle sue opere le associazioni un po’ deliranti che sono anche tipiche dei sogni”.
Silenzio.
“Ok”, continua quella, “vi faccio un esempio: vedete quell’affresco immenso che sembra uno scoglio, ma anche un uomo con una galleria nera che entra nella sua pancia? Che cosa vi provoca?”.
“A me evoca spavento prof” dice uno.
“Già, spavento, cos’altro?”
“Prof, ma è un uomo o una scogliera?”, dice un compagno.
“Ma è tutti e due, non vedi?”, risponde un terzo.
La faccia completamente stupita del secondo ragazzo dice che qualcosa (e non è poco), sta cominciando ad intuire.
“Allora ragazzi”, continua l’insegnante, “Dalì non è mai stato un granché a scuola”.
“Un po’ come me prof?”, la interrompe subito uno.
Perspicace il ragazzo! La docente sorride, meglio continuare. “In gioventù Dalì usciva sempre dai margini, era insofferente a qualsiasi imposizione, era un genio, insomma”.
Il solito ragazzo fa per parlare, la sua bocca sta per aprirsi, la prof se lo sente. Anticipa, gli altri potrebbero insorgere. “No, non proprio come te Davide, ma quasi, forse”. Sospira, è andata.
“Prof”, esordisce Roberto, “a me questo Dalì non piace per niente”.
L’insegnante abbozza un sorriso, “è così Roberto, non si rimane mai indifferenti di fronte ai grandi artisti, o ne resti affascinato o li rifiuti. A volte le loro opere fanno vibrare corde intime che non si pensava neanche di avere, altre volte, invece, possono evocare persino schifo”, termina sorridente lei pensando agli insetti così diffusi nelle opere di Dalì. Sospira compiacente, è pur sempre una prof.
Lui la guarda, “ah”, dice, “allora a me fa schifo!”.
Meglio stare tranquilla, si dice ancora, manca solo mezz’ora per il pranzo.
“Prof”, sbotta Gabriele, “ma perché dentro alla Cadillac piove?”.
Ok, la prof ci riprova: “perché in genere piove fuori dalle macchine, Gabriele, e non dentro”. Altro sguardo allucinato. Beh , meglio Dalì delle pasticche, pensa l’insegnante. “Non hai mai pensato che può esistere anche una verità diversa da quella che vedi e tocchi?” insiste, “non esiste forse anche una verità che senti, non con gli occhi o la ragione, ma con i sensi?”
Lo sguardo sbigottito continua. La docente si lancia, magari ci riesce: “prova a riposizionare lo sguardo Gabriele, non più verso il mondo esterno ma verso l’interno della tua anima”. Lo fissa. Lui guarda la Cadillac. Sì, qualcosa sta intuendo.
Ci ritroviamo sul pullman. Ci siamo tutti.
“Prof”, sentiamo urlare dal fondo “ma qui c’è sempre questo vento?”. Ci guardiamo: il maestrale a forza mille non ci voleva. E se cambiassimo programma? Siamo pur sempre prof, siamo brave a manipolare i programmi. E poi Girona è qua vicino, sicuro che anche lì tira un vento insopportabile. Scambio di sguardi con la nostra guida e si fa: si va a Tossa de Mar.
Dio esiste. Appena scolliniamo e cominciamo a vedere il Mediterraneo là in fondo, il vento comincia a mancare. Si vede anche dagli avambracci del nostro autista: per la prima volta quelle vene, solitamente saltellanti, sono rilassate.
Bene, è deciso, si va al faro a piedi, mezz’oretta massimo, forse meno. Una di noi ci è già stata e sa che il panorama da lassù è da togliere il fiato e la cittadina che si ammira è ancora a impianto medioevale oltre ad essere ben conservata. La collega prende la Routard dallo zaino, la apre e passa la mappa a Matteo, la nostra guida, che rimane un po’ stupito.
“Ma come”, le dice, “ma tu non ci sei già stata qui? per me è la prima volta”.
La prof sospira. Le donne assorbono atmosfere, ricordano sensazioni e soprattutto odori, ma in orientamento geografico sono un po’ scarse. Può uno sguardo comunicare tutto questo? Pare di sì: Matteo è già partito con la Routard in mano.
Ci sediamo vicino al faro, alcuni per terra, altri su qualche roccia, taluni sull’erba, ma tutti, proprio tutti, con lo sguardo perso nel vuoto. Senza parole.
E tutti capiamo perché la Costa Brava si chiama Brava, selvaggia: è cattiva, ma pur sempre bellissima, o forse proprio per quello. Intanto Matteo prende delle foglie e una pigna e si mette a spiegare la macchia mediterranea. Qualcuno lo sta ascoltando: è bravo, e ama la natura. Si sente.
Siamo sdraiate sulla spiaggia. Il sole è quasi caldo e la baia che abbiamo davanti non si lascia abbandonare così in fretta. Chiudiamo gli occhi, finalmente un po’ di relax.
“METAAAAAAAAAAA!”, si sente gridare da dietro.
Ci alziamo di scatto. Circa una decina di ragazzi, i nostri, sono impegnati in un’enorme rissa, lì, in mezzo alla spiaggia. Non si fa in tempo a sentire il cuore che batte, che subito vengono in mente le parole della dirigente. Aveva ragione lei! Ci tuffiamo tutte e quattro in mezzo al mucchio.
“Ma che diavolo state facendo?”, tuona una di noi.
Venti occhi vengono puntati su di lei, “ma stiamo giocando a rugby, prof!”.
“Rugby?!”, urla ancora quella, quasi pronta a menare come loro. Meno male che si riprende in tempo, “niente rugby ragazzi, qui si gioca a calcio!” dice. Poi si volta e si mette ad inspirare tutta l’aria che può. Sorride: in fondo lei è rimasta fulminata all’istante da Sergio Parisse, il meraviglioso capitano della nazionale di rugby, quando ha visto una sua foto intera sul Corriere della Sera. Quest’anno non si è ancora persa una partita del Sei Nazioni.
“Prof”, urla uno dei ragazzi da dietro. L’insegnante si volta lentamente, sforzandosi di mostrare una faccia arrabbiata. “Ma lei non s’è mica presa una cotta per Parisse?”, le dice quello.
Lei si gira e guarda le colleghe: mai parlare liberamente in classe, regola numero uno.
Finalmente l’ultimo giorno. Domani si torna tutti quanti a casa.
Barcellona si fa visitare abbastanza tranquillamente: la Sagrada Familia e il parco Guell affascinano, ma ormai non sorprendono più. Tutta colpa di Dalì. A fare la sua parte ci pensa, però, la Rambla.
“Prof”, urla Christian, “ma qui c’è sempre tutta questa gente?”.
La prof di spagnolo lo guarda, “sì Christian, Barcelona es una ciudad muy movida” dice.
Lui la fissa: “ma muy movida vuol dire quello che abbiamo studiato in classe?”.
La prof sospira: bisognerà pur capire perché la scuola non sembra reale, a volte.
Barcellona Como in pullman non è da consigliare a nessuno, soprattutto con quaranta quattordicenni urlanti, festanti, camminanti, telefonanti, cantanti, abbraccianti. E non dormienti da tre notti, esattamente dal giorno della partenza. Ma forse è meglio non dire neanche questo alla dirigente. Sguardo di intesa tra noi prof: il patto è suggellato.
Sospiriamo, ormai siamo a casa, abbiamo appena lasciato la A9. La prossima volta che qualcuno ci chiederà di organizzare una gita in Spagna scapperemo tutte a gambe levate. Sicuro.
Poco prima di entrare nel parcheggio della scuola, un ragazzo si avvicina a noi insegnanti.
“Prof”, esordisce, “torniamo a Barcellona?”