Premio Racconti nella Rete 2012 “L’incubo” di Diego Bastianelli
Categoria: Premio Racconti nella Rete 2012Aveva nuotato per quasi un’ora senza sosta, con ampie bracciate che affondavano nell’acqua con rabbia incontrollabile. Quando fu esausto si fermò, in mezzo al mare. Non aveva la minima idea di dove si trovasse. Si guardò intorno ansimando ma riusciva a vedere soltanto acqua. Una distesa di blu infinito. Era solo e finalmente indisturbato, nessuno avrebbe potuto raggiungerlo. Guardò in alto, il sole gli ferì gli occhi e lui li chiuse d’istinto, stringendoli più forte possibile. Una lacrima gli scese sulla guancia, una lacrima, non di dolore, ma di liberazione. Per la prima volta in vita sua si sentiva assolutamente libero.
Continuò a guardare verso il cielo con gli occhi serrati e le lacrime che gli inondavano il volto, poi, all’improvviso, bloccò gambe e mani ed inizio ad affondare. Si lasciò andare, dritto verso il fondo. Sentiva la vita sfuggirgli via lentamente. Era una sensazione meravigliosa, che aspettava da sempre. Soltanto un volta arrivato in profondità, con le ultime forze rimaste e i polmoni ormai gonfi d’acqua, aprì gli occhi…
Aprì gli occhi e si sollevò di scatto. La prima cosa che vide fu il poster dei Rolling Stones e capì di trovarsi in camera sua e non in mezzo a chissà quale oceano. Si guardò intorno ancora spaventato. Le lenzuola erano zuppe di sudore e avevano preso la forma esatta del suo corpo. Muovendosi lentamente si mise a sedere sul bordo del letto e, appena appoggiò i piedi a terra, urtò qualcosa. Capì subito di che cosa si trattasse: era il libro che aveva dato il LA al suo incubo. Lo aveva finito di leggere la sera prima, poi, ubriaco di stanchezza e di lettura, aveva buttato il libro a terra e si era lasciato andare al sonno.
Prese il libro in mano e guardò il marinaio disegnato in copertina. Sorrise tra sé, poggiò Martin eden sul comodino accanto al pacchetto di Lucky strike, estrasse una sigaretta e la accese.
Andò in cucina, ancora in mutande, e si preparò un caffè. Non aveva la minima idea di che ora fosse, ma, dall’odore di arrosto, dal rumore di stoviglie, dalle grida dei bambini e dai rimproveri dei genitori che sentiva provenire dal piano di sopra, capì che era l’ora in cui la gente normale pranza. Ogni volta che capitava in situazioni del genere, in cui lui era nettamente fuori fase rispetto al ritmo di vita delle persone che lo circondavano, provava un misto tra orgoglio e disagio. Orgoglio perché si sentiva libero e svincolato da quelle piccole regole sociali del “si pranza a quest’ora! Ci si alza a quest’ora! A Quest’ora si fa il riposino!” e stronzate del genere. Si sentiva come un animale. Faceva quello che gli andava di fare e quando gli andava di farlo. Ma provava anche una strana sensazione di disagio, dovuta a questo essere fuori fase e, quindi, solo.
Si sedette e sorseggiò il caffè con i gomiti appoggiati sul tavolo incrostato di birra e patatine. Guardò il libro di “filologia classica” abbandonato sul piccolo divanetto accanto alla finestra e quasi gli venne un conato di vomito.
Era il senso di colpa a provocargli la nausea. Erano mesi che non dava un esame e settimane che non apriva un libro. Si sentiva come un tappo di sughero trascinato dalla corrente, in più ci si era messa anche lei. Era davvero troppo, come poteva continuare senza… mentre era immerso in pensieri del genere squillò il telefono. Si alzò e, senza fretta, tornò in camera a recuperare il cellulare. Era lei. Sbuffò e rispose
“che vuoi?”
“buongiorno!” disse lei con voce incerta. Lui rimase in silenzio
“sei arrabbiato con me?”
“perché mi hai chiamato?”
“allora sei arrabbiato!”
“Sara, non è questione di essere arrabbiato è che…” sospirò profondamente “cioè, cosa ti aspetti che faccia?”
“quando abbiamo deciso di rimanere amici tu eri d’accordo” disse Sara
“cazzo! Era d’accordo, ma dammi un po’ di tempo! Che mi chiami a fare così spesso? Non capisci che mi fai…” si bloccò di colpo, “lascia stare” aggiunse poi quasi sussurrando.
“volevo solo sapere come stai! scusami”. Riconosceva il tono lagnoso e venato di vittimismo. Conosceva Sara da quasi cinque anni e sapeva benissimo che tra poco avrebbe iniziato a dire cose del tipo “io mi interesso a te, ma evidentemente per te non è importante” e altre infinite variazioni sul tema. Sembrava dimenticarsi il fatto che era stata lei a lasciare lui, sembrava dimenticarsi il fatto che era lei ad avere un nuovo ragazzo, sembrava dimenticare il fatto che era la vita di Matteo ad andare allo sbaraglio, non la sua.
“io sto bene” disse lui mentendo
“mi fa piacere” rispose lei “vorrei che tu fossi felice anche senza di me”
Matteo scosse la testa e sorrise, pensando che non era stato felice né con lei né senza di lei. Però Sara mancava, questa era una verità che non riusciva ad affrontare. Sentiva il vuoto, non perché con lei fosse stato felice, ma perché lei era un tassello importante nel mosaico della sua vita. Caduta lei, tutto il resto stava crollando come un castello di sabbia: gli amici, l’università, il calcetto, la musica, tutto aveva perso di senso.
“e tu come stai?” chiese Matteo, anche se non gli interessava saperlo
“bene, grazie” disse lei “hei Matte, ora ti saluto che è arrivato il mio bus. Sto andando a lezione di letteratura anglo americana, non dovevi frequentarlo anche tu?”
“si”
“ah infatti mi sembrava, allora magari se vieni a lezione ci vediamo là”
“si”
“poi io rimango a studiare in facoltà e se ti va studiamo un po’ insieme”
“si”
“ciao Matte”
Matteo poggiò il telefono sul comodino, si lasciò crollare sul letto e, con le lacrime che gli solcavano il viso, sognò nuovamente di affogare.
bravo, credo che capiti a molti di non essere felici nè con una persona nè senza di lei e di sentirsi orgogliosi ma soli fuori dalle regole sociali