Racconti nella Rete®

24° Premio letterario Racconti nella Rete 2024/2025

Racconti nella Rete 2009 “L’archivista” di Elvezio Ercoli

Categoria: Premio Racconti nella Rete 2009

Di mio padre non ricordo nulla. Mia madre diceva che era tornato dalla guerra così deperito che metteva paura guardarlo. Così diceva mia madre; e mi raccontò anche che in un primo momento mio padre sembrò migliorare, poi improvvisamente peggiorò e ci lasciò, appena un anno dopo la mia nascita.
Ho conosciuto soltanto mia madre. Io e lei vivevamo quasi in simbiosi. Mi ricordo che anche da piccolissimo riuscivo ad intuire ogni pensiero di lei e cercavo in ogni modo di non appesantirle il fardello di sofferenze che portava. Ho sempre saputo di essere malato, ma non ho mai capito cosa avevo. Poi ho perso anche mia madre e qualcuno ha deciso per me. Sono stato portato in un istituto ed ho iniziato a vivere in una grande famiglia di mattarelli. Non mi ci trovavo male. Non avevo conosciuto niente di meglio, niente di diverso. Non ho mai avuto amici. Per questo registravo tutte le persone che incontravo e mi ricordavo tutto. Sembrava strano agli altri che io mi ricordassi tutto. Io non facevo nessuno sforzo a ricordare. Registravo gli altri sperando di rivederli.
Paolo portava spesso gente nuova. Per registrarla, io andavo a cercarlo mentre lui lavorava. Paolo si occupava della manutenzione dell’Istituto e, per controllare gli impianti di condizionamento ed elettrici, si spostava sempre. Con Paolo trovavo spesso qualcuno che non conoscevo. Qualcuno che si lasciava registrare e che mi trattava bene. Ognuno si stupiva quando in base alla data di nascita indovinavo il giorno della settimana in cui era nato. Tutti mi chiedevano come facevo ad indovinare. Veramente io non l’ho mai saputo come faccio ad indovinare. Mi viene spontaneamente.
Un giorno è stato Paolo a cercare me. Era con un suo amico, uno che ancora non conoscevo. Sembrava uno della mia età; e come al solito gli ho chiesto come si chiamava e la sua data di nascita. Quell’amico di Paolo era Marco. Anche lui, come gli altri, rimase molto stupito che io sapessi individuare il giorno della settimana in cui era nato. Quella era una cosa che stupiva proprio tutti.
Dicono che in testa ho un calendario perpetuo e tutti si meravigliano anche del fatto che io ricordi ogni cosa mi venga detta. Anche Marco, come molti altri, provò per gioco la mia memoria, facendomi un’infinità di domande. Allora non era ancora mio amico ed io ancora non sapevo che sarebbe diventato mio amico. Allora io ancora non capivo quell’idea di Marco di farmi lasciare l’Istituto e farmi lavorare. Diceva che lui aveva bisogno di una persona con la mia memoria. Ripeteva in continuazione che non aveva mai incontrato persone con la mia memoria. Diceva che io ero sprecato in quell’Istituto, che io non ero matto come gli altri, che io avevo diritto di vivere una vita diversa, un’altra vita, la vita. Ma io mi ero ormai abituato a quell’Istituto. Io non conoscevo il mondo. Avevo paura del mondo. Io del mondo avevo conosciuto soltanto mia madre. Di lei non avevo paura. Ma poi lei è morta. Gli altri mi hanno sempre preso in giro ed io non sono mai stato in grado di lavorare, di essere autonomo. Per questo motivo quelli del Comune mi hanno portato in quell’Istituto.
Per me quelli fuori di quell’Istituto erano sempre un po’ cattivi. Invece quelli dentro quell’Istituto non erano normali: Io ho capito che ero diverso da quelli che stavano fuori e da quelli che stavano dentro. Quelli che stavano dentro non ragionavano un gran ché, ma non erano cattivi. Invece, quelli che stavano fuori, forse ragionavano, ma erano cattivi. Io non sono mai stato capace di essere cattivo e pensavo che per me sarebbe stato meglio restare dentro, anche se quelli intorno a me erano veramente strani. Anch’io sono strano, di una stranezza particolare. I medici dicono che sono molto intelligente e che ho anche il dono di una memoria prodigiosa, ma dicono anche che non sono maturato a livello emotivo. Dicono sia questa la mia malattia e forse è per quella che non sono cattivo. Forse è per quella che sono spontaneo. Forse è ancora per quella che non ho amici.
Quando per la prima volta ho incontrato Marco, non sapevo che sarebbe diventato un grande amico e non volevo andare a lavorare nel suo ufficio. Poi c’era anche quell’altra cosa, quella che a volte mi capita di sentire, quella che proprio non capisco, quella sensazione di dolore o di gioia, quel qualcosa che riguarda la persona che incontro, un qualcosa che ha a che fare con la sua vita, con la sua verità interiore o col suo destino. C’era quella cosa, qualcosa che non capivo bene, ma che la sentivo fortemente. Stava accadendo come altre volte. Era qualcosa che non riuscivo a vedere, ma sentivo un gran dolore, un gran male. Avrebbe potuto essere un male fisico, morale o forse semplicemente un destino, un dolore che non potevo vedere o capire, ma soltanto sentire. Mi faceva paura, ma subito capii che quell’uomo non poteva essere cattivo. Quale fosse quel dolore non potevo saperlo, però sentivo distintamente che Marco non era malvagio e quel dolore che avvertivo probabilmente significava qualcos’altro. Non avevo la minima idea di cosa potesse essere, ma se Marco non poteva essere cattivo, io non dovevo aver paura.
Marco riusciva ad inventarsi anche l’impossibile, ma non ho mai capito come abbia fatto a farmi assumere. Presto mi sono abituato al mio ruolo ed ho iniziato a muovermi senza paura.
Marco voleva che io fossi sempre più presente ad ogni sua riunione di lavoro. Voleva che io ricordassi tutto. Voleva avere tutto sotto controllo. Quella del controllo era la sua ossessione. Marco non era come me. Lui non era ritardato in niente, neppure da un punto di vista emotivo. Ma anche Marco aveva le sue stranezze. Marco voleva che la sua parte razionale controllasse quella emotiva. Non so cosa gli fosse successo. Se io avessi potuto, avrei vissuto diversamente, ma non ho potuto. Sono così. Marco invece si sforzava di controllare ogni sua emozione. Marco faceva così anche con le donne. Non voleva innamorarsi e frequentava le prostitute. Io se avessi potuto avere una donna, se avessi potuto avere quella che mi piaceva, non la avrei lasciata mai. Forse sono così perché sono spontaneo, forse è così perché non sono normale. I medici l’hanno detto che emotivamente sono un immaturo. Ed anche se io non la capivo bene quella cosa, me ne accorgevo. Mi accorgevo di comportarmi diversamente dagli altri; ed anche le persone che mi incontravano se ne accorgevano. Soprattutto le donne se ne accorgevano. Se ne è accorta anche Giulia, un amica di Marco. Fin dalla prima volta che ci siamo visti, lei ha avuto un atteggiamento di sufficienza verso di me. Si mostrava sempre gentile, ma mi diceva cose terribili. Mi trattava come fossi nulla.
Per molto tempo ho visto nel dottor Marco Forte l’immagine del benefattore, la persona che mi ha fatto uscire dall’Istituto dei matti e mi ha fatto avere un lavoro. A parte l’imbroglio con il quale mi ha fatto assumere, vedevo in lui soltanto ordine morale ed intellettuale. Quella era forma. Allora ancora non eravamo amici. Poi ho imparato a conoscere veramente chi era Marco, le sue contraddizioni e le sue debolezze; e da quando anche lui si è fatto conoscere siamo diventati amici.
Marco frequentava le prostitute. Lo faceva di nascosto. Voleva che la sua immagine esterna non lasciasse trapelare interessi per la sessualità, soprattutto per certo tipo di sessualità. Per Marco il sesso era un vizio da tenere sotto controllo e cercava attentamente di tenersi lontano dall’amore. Col tempo, però, Marco iniziò ad essere meno ossessivo nel nascondere i suoi segreti. Col tempo abbassò le sue difese. Forse l’immagine austera che voleva trasmettere al prossimo non lo interessava più di tanto. E a volte scherzando gli accadeva anche di parlare di quelle sue abitudini. Però, non mi spiegò mai apertamente qual’era il motivo che lo portava a cercare soltanto quel genere di donne. Io, del resto, ero stato da lui addestrato a non fare domande. Per lavoro io dovevo ricordare e dare risposte alle domande di Marco, ma io non dovevo fare domande. Marco mi aveva spiegato che, a causa della mia immaturità emotiva, io non ero in grado di valutare l’opportunità delle domande. Però dicevano anche che io ero naturalmente razionale; e la razionalità, non l’opportunità, mi suggeriva che le domande, soprattutto certe domande, avrebbero generato conflitti nella mente di Marco e tra Marco e me. Ed io che sono emotivamente un immaturo non amo conflitti.
Col tempo Marco divenne non soltanto meno controllato e meno ossessionato a nascondere la sua vita intima, a volte era così auto indulgente da consentirsi che alcune donne lo raggiungessero nel suo ufficio: quando le vedevo non mi era difficile immaginarne il tipo. Credo che anche Stefania, la segretaria, e Francesco, l’altro collega, non potevano non aver intuito quelle strane relazioni di Marco. E mi sembrava davvero strano che Marco venisse a dismettere, quasi senza grosse resistenze, quell’immagine ieratica che aveva faticosamente costruito. Un giorno Marco mi propose di andare con una di quelle sue donne e quando risposi che io volevo una che mi amasse, Marco mi chiese se l’avessi già trovata.
“E’ difficile – dissi – io non sono normale, io sono emotivamente un immaturo, so fare i giochi che sono veramente giochi; e non so giocare con tutto ciò che non è un gioco. Non sono in grado di interessare: sono spontaneo e quelli spontanei non interessano mai.”
“La tua non è una brutta malattia” disse Marco. Ma quando aggiunse che ero una brava persona e che non facevo male a nessuno, allora successe quella cosa, la cosa che i medici avevano assolutamente escluso. Ebbi la mia emozione, un’emozione matura, il senso di sconforto per il male che la mia malattia recava a me. Se soltanto gli altri venivano risparmiati dalla mia malattia, quella malattia non era per se stessa certamente innocua.
Fra tanti nomi di ragazze che telefonavano a Marco, uno divenne pian piano ricorrente. Nadia telefonava sempre più spesso; e Stefania, senza neppure conoscerla, la detestava. Io, invece, ero molto curioso e mi sarebbe piaciuto vederla. Poi, finalmente un giorno è arrivata. Era una bionda di poco più di venti anni ed un corpo perfetto. Era alta, ma non eccessivamente. Era molto bella, ma vestiva semplicemente e non sembrava troppo diversa da tante altre. Stefania quando la vide entrò in uno stato confusionale e, come un automa, la fece accomodare nell’ufficio di Marco; poi tornò alle cartacce che aveva sulla scrivania e a rispondere al telefono, continuando a ripetere che il dottor Forte non era in Ufficio.
Nadia non sembrava diversa dalle altre, ma invece lo era. Conoscendo Marco, io sapevo che lei era una puttana, ma di quelle speciali, però, perché in genere tutte le altre non superavano il terzo incontro. Invece dalle telefonate che sentivo, Nadia si incontrava con Marco già da mesi. Qualcosa stava succedendo, qualcosa stava cambiando. Poi Marco me la presentò e subito notai la sua lingua italiana senza accento, nonostante fosse di Brno, ma dopo pochi attimi, sentii di nuovo quella cosa, quella che a volte mi accade e che ho sentito anche quando per la prima volta ho visto Marco. Con Nadia, però, quel dolore l’ho sentito più forte. Stavo veramente male, quasi non respiravo e dovetti sedermi. “ Hai qualcosa? Hai bisogno di qualcosa?” mi chiesero Marco e Nadia. “Non è niente…” risposi non appena tornai a respirare normalmente.
Il tempo scorreva lentamente e noiosamente ed io non avevo molto di cui occuparmi. Continuavo ad archiviare, ricordavo tutto con facilità, ma non mi interessava niente. Quando non mi veniva data una lettera da consegnare o un fascicolo da archiviare mi sentivo inutile. Io invece avrei voluto impegnarmi, spendere la mia vita, essere degno. Volevo provarci. Intanto volevo anche imparare a scrivere decentemente. Mi proposi di leggere tanto e di iniziare a tenere un diario. Alla fine qualcosa avrei imparato. Avrei scritto quello che vedevo e che sentivo. Mi sarebbe stato di compagnia.
Tornai nuovamente ad osservare le persone. Capii che il cinismo di Marco non era vero perché qualcosa stava cambiando in lui: ormai frequentava soltanto Nadia, anche se lottava per non rimanerne coinvolto. Marco arrivò anche a chiedere a me il perché lui fosse così tormentato. Io naturalmente risposi di non essere esperto in questioni di cuore. Ma Marco insistette.“ Per questo te lo chiedo – disse – perché confido nella lucidità della tua mente.”
“Lascia stare la mia supposta lucidità! – tenni a precisare – quello che ti sta accadendo è semplicemente la vita che si impone; e nessuno può farci niente!”
Credo fosse proprio così, ma molte cose non le capisco, perché non sono capace di interpretare le emozioni. Si. E’ vero. Anch’io posso avere emozioni. Però non le capisco, né sono in grado di controllarle. Avevano ragione i medici quando mi definivano “emotivamente immaturo”. Io sono spontaneo. Senza troppe contraddizioni. E non capivo il desiderio che Marco aveva di fuggire da Nadia e contemporaneamente di rincorrerla.
“E’ un gioco?” ho domandato. Ma Marco non ha risposto.
“Una tortura?”
Silenzio.
“C’è verità?”
Marco è rimasto muto.
“C’è falsità?”
Ancora nessuna risposta.
“Ma cos’è allora questo amore?”
“Non lo so!” ha risposto Marco.
“Durerà?”
“Non lo so!”
“Allora, anche tu non ne sai niente?”
Marco ha annuito senza rispondere.
“Però tu vivi…”
“Veramente non lo so” ha detto Marco, quasi decretando la fine di quella conversazione.
Così stavano le cose. Nessuno di noi due conosceva veramente cos’era l’amore, nessuno di noi due la vita. Ed anche se eravamo completamente diversi ed a nostro modo assolutamente impermeabili al mondo, eravamo diventati due specie di amici. Non avevamo niente in comune, ma ognuno di noi due riconosceva nell’altro qualcosa di noto, un moto dell’essere appena percettibile. Ognuno di noi due era solo in un mondo sconosciuto, come due astronavi nello spazio ignoto che intercettavano appena i loro segnali. Molto poco. Davvero poco. Ma non avevamo altro.
Marco era sempre più contrastato. Da un lato riusciva a controllare la sua inclinazione per Nadia ed avrebbe voluto non cercarla più, dall’altro la cercava ancora e si preoccupava per lei, per la vita di lei.
Ormai tutti si erano accorti che si amavano e l’amore è pericoloso: per gli amanti che si divorano, per i benpensanti che trovano sempre giusto qualcos’altro, per gli sfruttatori di Nadia che non potevano consentirle una vita che appartenesse soltanto a lei.
Marco si ritrovò bucate tutte e quattro le gomme della sua macchina. Marco e Nadia erano già stati già minacciati molte volte; il rischio che correvano era ormai altissimo. Forse era arrivato per loro il momento delle grandi decisioni: per difendersi e per vivere.
Marco confidò che a volte era tentato di sposare Nadia ed affrontare, con tutto il valore della sua vita onesta, l’organizzazione che la sfruttava. Ma era terrorizzato da una decisione del genere. Temeva che un giorno avrebbe potuto pentirsene. Era ossessionato dal pensiero che un giorno, dopo un possibile litigio, lui avrebbe rinfacciato a lei come l’aveva conosciuta. Immaginava la cocente delusione di lei e l’abisso dell’anima in cui anche lui sarebbe precipitato. Marco rimuginava sulle difficoltà di un possibile matrimonio, ma cercava anche di trovare comunque qualcosa che potesse salvare Nadia. Arrivò anche a pensare di organizzare segretamente una fuga di lei in un paese lontano; ed una volta ne progettò tutte le fasi, ma era ancora indeciso.
Marco non era soltanto insoddisfatto dalla sua vita, aveva anche perso ormai quasi ogni interesse per il suo lavoro. A volte si lasciava sfuggire qualcosa, ma cercava di non lamentarsi troppo per non essere ingiusto con me che non avevo avuto poi tanto dalla vita.
Il coinvolgimento sentimentale di Marco e di Nadia cresceva sempre di più e con esso aumentavano anche le minacce che i due ricevevano. Marco finalmente decise.
Era veramente sincero e risoluto quando mi disse: “Non posso rinunciare a lei, e l’unica soluzione è andarcene dove nessuno potrà trovarci, il più lontano possibile da qui, scomparire….”
La vita di Marco cambiava in continuazione. La prima volta che l’avevo visto, sembrava una persona interessata soltanto al lavoro, ora stava rimettendo in discussione ogni cosa.
“Se hai capito quello che devi fare. Fallo! – gli dissi – e non ti preoccupare neppure di me. So che ci pensi. So di non avere ancora la spina dorsale per farcela da solo. Ma ci posso provare. Mi nomineranno un altro curatore. Potrebbe essere Francesco: è onesto e svelto. E poi qualche cosa l’ho imparata in questo tempo. Hai la possibilità di cambiare la tua vita e dargli un senso. Io non esiterei. Nessuno e niente deve impedirtelo.”
E’ arrivato il momento in cui li ho visti partire. Ho iniziato a sentire quel dolore. Non volevo che se ne accorgessero e ho detto loro di aspettare un momento. Misi la scusa che dovevo andare al bagno per non far vedere loro la smorfia che avevo sulla faccia. Il dolore infatti è aumentato e credevo di svenire. Poi è diventato più leggero ed io mi sono sciacquato la faccia e sono tornato dai miei amici.
Nadia mi chiese se stavo bene. Probabilmente si era accorta di qualcosa, ma io ho cercato di rispondere tranquillamente che tutto stava sotto controllo.
“Come ci andrà?” chiese ancora lei, come per verificare di nuovo se mi fossi sentito male, del mio male, del male che ho per gli altri.
“Benissimo!” dissi.
Nadia fece finta di crederci, ma capivo che non era convinta. Rimasi a fissarli mentre entravano in macchina. Ambedue mi guardavano con compassione, quasi si sentissero in colpa. Sembrava abbandonassero un bambino. Ma non avevano nessuna colpa ed io li salutai agitando la mano e sfoggiando il mio più bel sorriso.
Cosa accade ad un bambino quando nasce e viene proiettato in un mondo a lui completamente ignoto che tutti chiamano vita? Cosa accade ad un bambino che non ha ancora ricordi né sogni? Anche dopo, per me nulla è cambiato. Anche ora è così: Cosa accade ad un uomo quando muore e viene proiettato in un mondo che non è vita, dove non albergano ricordi, né sogni? Cosa rimane alla fine quando un uomo non può ricordare, né sognare? E cosa sono io che non ho mai sognato e che appena ricordo i fugaci sogni degli altri? Alla fine l’ho capito. Io vivo soltanto per testimoniare quel sogno, il sogno non mio che ha avuto il coraggio di realizzarsi e, seppure per poco, prendere vita.
Ho continuato a lavorare all’Ufficio “Consorzi di Bonifica”, ma non per molto tempo. Il dirigente che ha sostituito Marco era un tipo serio e forse perbene, ma non come Marco; ed io ero indifeso alle cattiverie che non mancavano mai. Per la mia malattia avevo ancora bisogno di un curatore. Io ho scelto Francesco, perché sentivo che era bravo, ma anche Francesco non poteva difendermi sempre; ed io ero inerme. Io non so confliggere; e chi non sa confliggere è sempre attaccabile. Alla fine sono tornato qui, in questo Istituto che conosco bene. Qui sono tutti un po’ strani, ma non sono cattivi. Ho deciso di non scrivere più. Scrivere mi fa pensare troppo e non voglio pensare. Ora non registro più nessuno, non perché abbia capito che possa essere inopportuno o sconveniente, ma soltanto perché non voglio affezionarmi alle persone che incontro, a qualcuno che poi non rivedrò più. Ho deciso di dipingere. Guardo i colori e li riproduco, non penso. Non voglio più pensare e non voglio più scrivere, però ho voluto scolpire una frase su una pietra levigata. Sulla pietra rimane.
Oggi è venuto Paolo a trovarmi. E’ un giorno speciale e mi accompagna con la macchina ad un posto speciale. Raggiungiamo Genzano e prendiamo la via per Nemi. Paolo si ferma un momento davanti al cimitero, ma io non scendo. E quando Paolo risale proseguiamo la strada verso Nemi. Dopo qualche centinaio di metri, ad una curva vedo il posto. Il panorama è bellissimo. In basso il lago sembra immobile sotto un cielo azzurro senza una nuvola. Paolo dice di fare l’inversione di marcia più in su, davanti all’albergo “Il rifugio”, dove c’è spazio per girare. Torniamo indietro, ma non raggiungiamo il posto che abbiamo visto, perché là non si può parcheggiare. Allora lasciamo la macchina qualche decina di metri prima e proseguiamo a piedi. Ora tutto si vede. C’è una croce con dei fiori. Io non li ho portati. I fiori si guastano, la pietra rimane. Ecco è successo proprio qua. Marco e Nadia fuggivano inseguiti da quelli che prima sfruttavano Nadia, e proprio qua sono andati fuori strada. E’ in questo posto che io voglio venire a trovarli, non al cimitero. E’ in questo luogo che voglio lasciare la mia pietra. Ho scritto scolpendola: “ A Marco e Nadia che hanno sognato di vivere liberi e felici e, seppure per pochissimo tempo, ci sono riusciti”.
Paolo mi riaccompagna all’Istituto dei mattarelli. Sento un grande vuoto. Vorrei essere utile. Vorrei essere degno.

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