Racconti nella Rete®

24° Premio letterario Racconti nella Rete 2024/2025

Racconti nella Rete 2009 “Sperequazione” di Claudileia Lemes Dias

Categoria: Premio Racconti nella Rete 2009

Vivace, troppo vivace. Si chiamava Arnav e, nei suoi sette anni di gloria, aveva già rubato un numero incalcolabile di frutti, focacce calde e pannocchie. Raccontava le sue gesta con un ghigno pieno di orgoglio, come un pappagallo quando pronuncia per la prima volta una parolaccia.

Se trovava un pollo, che starnazzava distrattamente per un vicolo, lo sequestrava, ma solo per una mezzora, ci giocava un po’ e poi lo lasciava andare. Era vegetariano, di padre e di madre.

Piccolo, troppo piccolo per avventurarsi ad imprese per adulti: rubare biciclette,  macchine o intrufolarsi dentro le case ed arraffare qualche prezioso lasciato in dote a qualche povera ragazza.

Scodinzolava dietro ai compagni più grandi, perché lo portassero con loro tra le vie colorate di Delhi.

Aveva imparato a nuotare da solo perché, tra i poveri, essere autodidatta è la regola.

Amava immergersi tra le acque benevole del fiume Yamuna, acque destinate a sparire tra l’indifferenza e la sete di potere degli uomini. Sapeva però che erano le labbra di Shiva a determinare il destino delle cose, era Lei che, sotto forma di raggi solari, baciava ogni giorno quel sinuoso letto inquinato e quasi perennemente in magra. Era certo che, se Shiva avesse voluto, quel fiume si sarebbe rigonfiato nuovamente, come quando i  suoi nonni erano ancora vivi.

Arnav chiedeva l’elemosina davanti al South Extension, il mercato più esclusivo di New Delhi quando conobbe Giovanni:

_ Come ti chiami? – gli chiese, accovacciandosi, per stare alla sua altezza.

_ Arnav.

_ Quanti anni hai?

_ Non lo so… – rispose, distogliendo lo sguardo da lui.

_ Dov’è la mamma?

_ A casa, lavora.

_ E tu, non vai a scuola?

Arnav rimase in silenzio. I turisti gli facevano sempre le stesse imbarazzanti domande, senza rendersi conto che un bambino non è mai padrone del suo destino. Subire quelle domande a sette anni non era piacevole, crescere dovendo raccontare la propria vita  in cambio di pochi spiccioli era insopportabile, purtroppo, era questo il suo karma, come avrebbe detto la madre.

 _ Hai già mangiato? – insistette l’uomo.

_ Sì, ho mangiato!  – rispose pur di liberarsi da quello straniero. Prese dalla tasca una carota di uno strano colore e disse – Ne vuole un pezzo? 

_ Mi sembra deliziosa! Ma, non ho fame! – prese una banconota di un dollaro e gliela consegnò. – Qual è il significato di Arnav?

_ Oceano. – rispose, mettendo velocemente in tasca quella fortuna.

_ Oceano…– ripeté l’uomo, pensieroso.

_ Giovanni! – si sentì gridare tra la confusione del mercato

_ Sì? – rispose l’uomo voltandosi in direzione della voce. – Vengo, vengo… Ti debbo lasciare, piccolo! Che Dio ti benedica.

L’uomo fece un veloce gesto con la mano, toccandosi la fronte, il petto ed infine le spalle e poi si allontanò frettolosamente con altri due che lo aspettavano, vestiti di nero.

 

Lo misero in una cella con dieci adulti. Dormivano a turno, non essendoci spazio per tutti, ogni centimetro della gabbia era stato delimitato, marcato e distribuito equamente tra i detenuti che marcivano lì.

Il lezzo proveniente da quei corpi ammassati e da quel pavimento non ramazzato da secoli era insopportabile, ma le possibilità erano poche: non inspirare e non sentire quel puzzo o abituarsi a quella miscela di urina, sudore e vomito.

Erano più grandi di lui e lo guardavano con indiscutibile interesse, ma forse quelle condizioni miserrime e pietose distolsero le menti da qualsiasi abominevole intenzione.

Gli lasciarono un quarto di metro quadro, naturalmente il più umido e puzzolente, che veniva utilizzato come orinatoio quando il water traboccava.

Arnav si sedette in quel cantuccio, immobile, come una effigie di bronzo, cercando di non pensare alle storie brutte che gli avevano raccontato su quel luogo.

Il giorno in cui fu condannato la madre, trattenendo le lacrime, pronunciò ripetutamente “Om-navah-shivaya[1]”, un mantra che recitava spesso, nei momenti di difficoltà.

_ Om-navah-shivaya – mormorò, tra sé e sé, senza riuscire ad andare oltre.

           

            _ Arnav – disse il sacerdote – Non fare il capriccioso, su!

            _ Per favore, è una parola bellissima! “zozlone” … Ripetila di nuovo.

            _ Zuzzurellone. Però ora basta, torniamo al dettato: my name is Arnav…

            _ Voglio imparare l’italiano! – affermò determinato.

            _ No!   A cosa serve parlare l’italiano? Siamo in India…

            _ L’ altro giorno hai detto la parola “pipistrello”, cosa vuol dire?

            _ Bat. – rispose Giovanni, spazientito.

            _ Odio l’inglese. Voglio parlare come te!

            _ Arnav, per favore, se non impari bene l’inglese…

            _ La, la, la, la… – ricominciò, tappandosi le orecchie.

            “È inutile”, pensò Giovanni, “un giorno mi farà venire un esaurimento nervoso!”. Guardò Arnav con tenerezza e rassegnazione, come ogni padre che sa che nulla può contro la volontà del figlio.  Arnav era in prigione da circa un anno, condannato per furto. Aveva solo dodici anni e divideva la cella con dieci uomini adulti.

            _  Mettiamola così: io ti insegno l’italiano e dopo, tu che fai?

            _  Vado in Italia.

            _ A fare cosa?

            _ Divento come te, aiuto le persone.

            _ Arnav, tu sei nato qui. È importante conoscere l’inglese, ti aiuterà ad avere una vita migliore quando uscirai. L’italiano, per te, è inutile…

            _ Sarebbe l’unica cosa bella di questo posto. Insegnami. – intimò, amorevolmente.

            Arnav vinse. Tre anni lo separavano dalla libertà e se potessi, gli avrebbe passati tutti a studiare l’italiano con la stessa caparbietà che, a volte, rasentava l’ossessione. Aveva una memoria straordinaria e apprendeva con facilità, senza considerare che era incredibilmente disciplinato e, al contrario di quando studiava l’inglese, faceva i compiti senza batter ciglio.

Giovanni gli insegnò ad utilizzare un antiquato registratore, che si trovava nella biblioteca del carcere, ed Arnav lo sfruttò per incidere la sua voce mentre leggeva un testo in italiano. Quando riascoltò la sua incerta pronuncia, scoppiò a piangere, sfogo certamente consono alla sua età:

_ Non ce la farò mai! – singhiozzò.

_ Non è vero, sei bravissimo! – cercò di consolarlo il maestro.

Rimase una settimana senza volerlo vedere, poi tornò umilmente a chiedere altre lezioni. Sembrava rinato, come se una nuova speranza lo avesse stretto tra le braccia. Durante una lezione domenicale, guardò Giovanni di modo strano:

_ Vengo in Italia. – disse, serio.

_ Vado – corresse Giovanni.

_ Vado in Italia. – ripeté, ancora più deciso.

            _ Arnav, l’Italia è bellissima ma non pensare che la vita sia facile… Anche lì c’è povertà, sfruttamento, sperequazione…

            _  Spere… cosa?

            _ Sperequazione. – disse Giovanni – Lasciamo perdere, è un concetto troppo complicato per spiegarlo adesso.

            _  Sperequazione… – ripeté incuriosito – Mi piace questa parola! È la più bella che abbia mai ascoltato!

            Da quel giorno, ogni volta che poteva, Arnav utilizzava la parola “sperequazione”. Indipendentemente dall’argomento, eccola lì, a riempire con gusto una riga intera del suo quaderno, utilizzando ogni spazio vuoto ed intimidendo le altre parole, grazie alla sua ingombrante dimensione.

            Nella mattina del suo quattordicesimo compleanno, confessò a Giovanni di sentirsi uno “sperequato”, per colpa del sistema di caste del suo paese.

            _ L’Italia non po’ essere peggio di questo, non è vero quel che dici. – aggiunse, contrariato.

            Lo stesso giorno evase dal carcere insieme ad altri sei detenuti, lasciando a Giovanni un piccolo regalo, il suo mantra, scritto con una calligrafia così ferma, così decisa, che gli fece venire le lacrime agli occhi. 

           

Quattordici anni di vita.

Quattordici anni in cui Arnav non aveva avuto l’opportunità di leggere i libri sacri, sempre intento a sopravvivere.

Aveva imparato, in una lurida galera, a leggere e scrivere in una lingua che aveva scelto per la bellezza del suono, inconfondibile ed affascinante. Un paese con una lingua così bella non poteva che promettere ricchezza e nuove possibilità .

Nessuno aveva compreso il motivo per cui si era ostinato ad imparare alla perfezione un’ idioma che non avrebbe mai utilizzato. Perché quell’ amore incondizionato e carico di sofferenza nell’imparare a memoria verbi imperfetti, irregolari e quasi impronunciabili per una lingua oramai abituata alla durezza del hindi, rotta solo da quell’ inglese randagio, utilizzato persino dai cani?

 Perché quel mondo di infinite regole, quegli improvvisi cambi di genere trasposti per il plurale e quel dare del “Lei” ad un anziano o sconosciuto, senza dimenticare che “Lei” è anche un pronome femminile?

L’italiano era una lingua così strana che aveva segnato il suo destino. Forse la sua difficoltà era stata creata apposta per farlo desistere dall’ inseguire quel viaggio senza ritorno.

Labbra, petto, latte, madre… sembrava dire ogni cellula del suo corpo, mano a mano che si spegneva come una lucciola che si avvicina all’alba.

Nella sua breve vita, consumata nell’inseguire un derelitto piano di fuga elaborato dagli altri, Arnav non aveva ricevuto né distribuito nemmeno quattordici carezze, non era riuscito a coltivare quattordici amici finti ed almeno uno sincero, non si ricordava di aver fatto quattordici sogni buoni o detto di amare qualcuno.

Ma aldilà del numero quattordici, chissà per quale motivo, congelato come la sua mente, l’unica cosa certa è che aveva solo due braccia per nuotare nella vasca blu e abissale del mondo.

Gli amici fuggiaschi avrebbero dovuto portarlo via mare fino alle coste italiane ma, impauriti dalla sua tosse persistente, lo avevano sputato fuori dalla barca, lasciandolo completamente solo ed abbandonato.

Sentiva ognuno dei suoi neuroni congelarsi, spegnersi, sparire, spaccandosi di freddo, così come i denti che si sgranocchiavano violentemente a forza di sbattersi uni agli altri.

Labbra, petto, latte, madre… si ricordò che aveva sprecato nove mesi della sua vita galleggiando nel grembo della madre e desiderò non aver passato nemmeno un giorno, per avere nove mesi in più di vita fuori dal mare, quel mare caldo di liquido amniotico.

Così pensando, non maledisse questo nuovo mare, freddo come l’indifferenza ma che, chissà per quale motivo, le ricordava il ventre materno.

Persino le estremità del corpo lo stavano abbandonando, partivano, per raggiungere un disegno divino ancora sconosciuto…

Anche se sentiva ogni poro venire penetrato da una fitta acutissima che arrivava crudelmente fino alle ossa, Arnav non ebbe il tempo di sbozzare una smorfia di dolore o una faccia serena, come quelle che si fanno per immortalarsi sopra un documento.

Aprì le braccia nell’ estremo sforzo di rimanere a galla per un secondo, solo un secondo in più di vita e, prima che il suo corpo baciasse le labbra fredde della morte, sposa della vita e amante dei grandi silenzi, prima ancora di mangiarsi la lingua per lo sbattere scoordinato dei denti, recitò quel mantra tutto suo, il mantra che aveva regalato al maestro, chiedendo a Dio di liquefarsi, di fondersi con l’oceano, come se da lui non fosse mai uscito:

 

Io sperequo

Tu sperequi

Egli sperequa

Noi sperequiamo

Voi sperequate

Essi sperequano

Io sper…

equo…


[1] Supplica alla divinità Shiva, invocata per porre fine al egoismo e al senso di separazione; indica anche una caratteristica del Signore che, pur amandoci, a volte ci fa soffrire. La sofferenza, però, non è considerata punizione, ma campanello d’allarme, avvertimento a  indicare che non si sta percorrendo il giusto cammino

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2 commenti »

  1. Complimenti all’autore, è riuscito a raccontare l’ingiustizia la disperazione e l’orrore con una grande poesia. Un racconto che lascia il segno.

  2. la storia dell’umanità, perennemente emigrante, raccontata atraverso la vita e la morte del piccolo Arnav. Una storia epocale ed emozinante. Auguro un grande futuro all’Autrice e al racconto.

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