Premio Racconti nella Rete 2012 “Momento” di Matteo Stelloni
Categoria: Premio Racconti nella Rete 2012Sono nella casa dove ho vissuto fin da piccolo: uno sputo di giardino con un piccolo vialetto di ghiaia che lo trapassa e lo separa. È mattino probabilmente, la mamma ha già sfornato il primo giro dei suoi famosissimi biscotti zucchero ed alchermes. Alchermes? Tradizione popolare e mistero.
Sento i passi di mio padre, con i suoi pochi chili sulle gambe, traversare il corridoio ed avvicinarsi alla porta della camera:
“ Buongiorno! È Natale, oggi.. Avanti, che ti aspettiamo tutti in salotto ”.
Mi avvolgo nella coperta e rifletto: “ Tutti? Tutti chi? ”.
La portata nazionalpopolare della frase del babbo mi angoscia, mi immagino già la ressa, i pacchi e i sorrisi: troppo, per chi si è appena svegliato. Mi copro fin sopra la testa e mi guardo le mani: piccole e lisce. Devo avere all’incirca sette anni perché provo a toccare la sponda finale del letto, ma mi rendo conto di aver uno scarto largo quanto almeno un ipotetico stretto della manica.
Stretto nella manica, la sinistra, ho un orologio: colorato e lucente segna le ore nove. Allora mi alzo, piede sinistro e piede destro dentro le pantofole: le pantofole sono un cane. O meglio ne hanno la forma del muso. Divertenti le canine calzature, proprio non le ricordavo. Vado verso il bagno, devo far rumore, perché dal salotto si leva una voce benevola:
“ Buongiorno piccolino!”.
“ Dev’essere la nonna.” Sospiro.
Piccolino.. sono anni che ormai non sento quel nome, sono anni che ormai non sento quella voce. Apro la porta del bagno, i miei fedelissimi “segugi” mi portano dritti all’armadietto dove troverò dentifricio e spazzolino. Colorati, entrambi. Lo spazzolino è sostenuto da due zampette anfibie in vera plastica anni ’90: tutte queste parti animalesche mi strappano un sorriso e lo vedo, nello specchio. Arrivo a malapena a scorgermi il mento: il volto piccolo, gli occhietti abbottonati, i capelli..
Che bella sensazione.. I capelli. Tanti, color castano, sono tutti spettinati: morbidi. Soffici, come il tempo non ti fa ricordare. Mi tocco il viso: niente barba, mi abbraccio e mi stringo, come fossi mio figlio. Passate le nostalgiche visioni e gli abbracci di un me che sarò al me che ero, mi trovo sulla porta del salotto: Babbo, Mamma, Nonna e Sorella. Hanno tutti l’età che più non ricordavo, l’età migliore per quel che i miei occhi possono ricordare.
“ Zanzara!” dice sorridendo mio padre “ Cosa fai li sulla porta? Vieni qua, che stanotte è passato Babbo Natale!”.
Babbo Natale. Dov’era finito? Dentro quale caminetto si fosse incastrato non mi era dato saperlo, ma oggi nei miei sette anni ne sentivo parlare, di nuovo. Da nuovo. Una strana rinascita improvvisa, come quei fiori che sotto la neve trovano la forza di nascere e uscir fuori: puri e rigogliosi.
Faccio il primo passo, ed eccolo. Non Babbo Natale, lui era solo di passaggio, ma l’albero. Troneggiava nel centro della stanza dentro il suo vaso rivestito con cura in una carta rossa increspata. Le palline: tutte diverse. Le luci: tutte di colori e ritmi diversi. L’albero prima dell’avvento delle convenzioni mi viene da pensare: follia figurativa figlia della genuina genialità del nostro essere bambini. Mi avvicino come farebbe il miglior fedele verso un’immagine sacra: con discreta circospezione. Arrivo a toccarne le punte: è vivo, è vivo e profuma, di quell’odore che anni di plastica e praticità non mi han fatto più sentire. Ma la poesia svanisce o meglio, si trasforma quando.. “ Sbam!”. Mi volto e sento la schiena friggere, così ho pensato: friggere. Mia sorella ride: 13 anni direi, capelli lunghi riccioli fin sotto le spalle ne inquadrano gli occhi, aperti e grandi come il cielo.
“Buongiorno!” dice.
Cordiale direi. Cordiale a suo modo riflettendoci. Quel modo imbarazzato di rapportarsi: sincero. Fatto di botte e dispetti che domani chissà in quale scatola riporrò.
“Vieni?” mi tende la mano paffuta e me la poggia su un pacco.
Una scatola alta quanto un grattacielo, mi arriva fino al petto. È la prospettiva che non avevo, ma che adesso rende tutto gigantesco e mi inebria. Mi ubriaca senza sapere ancora cosa possa essere l’ubriachezza, mi fa tremare e mi muove le piccole mani su quella carta in modo deciso ma un po’ maldestro, fino a svelarne il contenuto: una nave. Mi volto, istantaneamente, ed ecco che i loro volti si fanno una fotografia: mia madre sorride bellissima, mio padre mi guarda con gli occhi attenti, mia nonna strizza l’occhio. Mia sorella per quel che riesco a capire, mi abbraccia.
Un momento. Un momento per riscoprire tutto quello che era, non solo il Natale, non solo il bambino. Quello che era quel momento. Momento: usato in letteratura a significare importanza, gravità. Nessuna gravità, ma molta importanza: per quel bambino di sette anni.
Suona la sveglia: le sette e trenta di un giorno qualsiasi in un anno qualsiasi. Mi alzo dal letto e corro verso il bagno, dopo solo mezz’ora mi attende l’ufficio. Mi lavo i denti in fretta, corro verso la sala da pranzo dove frettolosamente agguanto un biscotto: lo divoro. Accendo la tv, ascolto il meteo ed il telegiornale mentre in quattro e quattro otto, riesco a mettere nell’ordine: calzini, pantaloni, camicia, giacca. Spengo il ricevitore e chiavi in mano mi trovo alla porta, spingo la maniglia:
“Le scarpe!”. Grido verso me stesso.
Torno in camera, mi siedo sul letto. Prendo la prima scarpa e la calzo, poi la seconda, ma scivola. La raccolgo e nel voltarla, sotto di lei, nel cuoio: una nave.
Un momento: importante. Quel natale, quei sorrisi, quella foto, qual calore, quel tempo: un momento. Ora la vita, in un momento: gravità.
Salve,
sono rimasto colpito dalla tecnica moderna della scrittura