Premio Racconti nella Rete 2012 “Uomini senza guerra” di Marco Cappuccini
Categoria: Premio Racconti nella Rete 2012Rimaniamo per qualche secondo immobili, in attesa del via libera. Un uomo dal casco blu è appiattito sul fianco di un carro blindato e quando i cingoli del veicolo frantumano il marciapiedi, vedo distintamente i suoi occhi.
Cupi e vuoti, smascherano l’impossibilità di dar sfogo alla stanchezza, quell’uomo preferirebbe sparire sotto quel casco. Ci urla di muoverci e di tenere la testa bassa, lo urla solo a noi perché gli altri sanno benissimo che cosa fare, lo hanno fatto altre volte, lo fanno più volte al giorno, ogni giorno, da molti mesi. Mi schiaccio contro l’acciaio del blindato e lo sento partire con piccoli scatti. Argina l’inferno. Sempre che lo si possa fare. Io non sono di lì. Io non c’entro niente con tutto quel male, tutto quell’odio, quella pazzia. Inizio a contare i passi. Quando attraversi una strada non pensi a quanto sia larga la carreggiata. Dietro quel blindato io sto contando i passi, guardando avidamente il muro dietro cui mi nasconderò. Il casco blu mi fa cenno di andare, mentre una donna curva sgattaiola rasente al muro con in mano una busta di plastica da cui esce un ciuffo d’insalata. È andata a fare la spesa. Insalata col rischio di morire, col rischio di una pallottola che ti trapassa il cranio lasciandoti carne morta sull’asfalto. Ancora di più capisco di non essere di lì. Nella mia casa, col mio giardino ed il mio cane, l’insalata diventa trascurabile, dopo mesi di assedio continuo non lo è più. Con la vergogna di quel pensiero percorro il tratto che mi separa dal muro, poggio le spalle sentendo l’umido dell’intonaco e chiudo gli occhi per un attimo. La mia collega mi strattona facendo segno di andare. La macchina fotografica mi brucia tra le mani, cerco con l’obiettivo i piedi della signora di prima e trovo la ferita aperta di un palazzo dietro cui qualcosa si muove. Vita quotidiana dentro la guerra, qualche scatto e vado avanti. Percorro pochi passi e una deflagrazione più forte delle altre mi blocca le gambe. C’è un attimo irreale subito dopo lo scoppio di un ordigno, un secondo in cui tutto sembra fermarsi per darti modo di guardare se hai ancora tutti gli arti, se anche questa volta il problema riguarda qualcun altro. L’orologio riparte e si sentono le urla, gli strepitii, le grida sovrumane dei colpiti che solo adesso sentono il dolore lancinante, i fiotti di sangue colorargli gli indumenti e l’asfalto che li sostiene. Ci siamo. Questa volta siamo a due passi. L’artigliere ha centrato una via trafficata. Tutto è diverso da quella che ci hanno spacciato per realtà. Non ci sono uomini che prendono la mira, da queste colline bombardano a caso, senza criterio, con il solo obiettivo di uccidere e creare panico. Vedo la mia collega assottigliarsi contro il muro di cinta di un giardino. Ci hanno fatto una piccola formazione prima di venire qui, ci hanno detto che le bombe che piovono dal cielo hanno solitamente intervalli regolari, dopo ogni esplosione è necessario attendere del tempo prima di accorrere, potrebbe essere una sequenza. Io non riesco a contare il tempo, io non riesco a pensare, se non fosse un movimento incondizionato smetterei di respirare. La mia collega sta guardando l’orologio mentre tutta la città sembra piangere simultaneamente e poi quelle grida che spaccano il cervello e ti straziano, ti devastano, vorresti non sentirle ma dopo ogni attimo crescono e diventano sempre più feroci, unendosi ad altre ed altre ancora. Vomito. Rovescio a terra bile, succhi gastrici. Mi sento prendere per la giacca. E’ lei. Mi pulisco le labbra mentre lo stomaco brucia e la bocca mi restituisce il sapore intenso della paura e della disperazione. Una piccola corsa e davanti ai miei occhi appare un girone dantesco. A pochi metri un uomo ne sta trascinando un altro a cui manca una gamba. Non è come nei film, in cui l’arto parte di netto e l’uomo bestemmia e chiede perché. L’uomo urla con quanta voce ha in corpo. Non c’è armonia nel tono della sua voce, non ci sono parole distinguibili nei primi minuti, raggiunge picchi di incredibile intensità. La gamba non è staccata dal corpo, non è qualcosa ormai fuori di lui, ci sono brandelli che la legano alla coscia, muscoli intrisi di sangue, pezzi di ossa che sfregano per terra. Il rosso del sangue schizza pompato dall’adrenalina, dal dolore, da un cuore che moltiplica i propri battiti. Porto la macchina all’occhio e premo ripetutamente prendendo tutto, fermando tutto, senza pensare a quello che sto prendendo, a quello che sto fermando. Riabbasso l’obiettivo e capisco ancora, per l’ennesima volta, di non essere di lì, capisco di non avere neanche gli istinti in comune con questa gente. Vedo uomini che tamponano feriti e trascinano al riparo carcasse in fin di vita quando io sento di non essere in grado di soffiarmi il naso. Sono uomini e donne. Se lo sono loro come posso esserlo io. La mia collega filma con una piccola telecamera un bambino che piange poggiato su un pezzo di carne di un banco di macelleria. La madre immagino sia riuscita a lasciarlo lì mentre una scheggia di ferro di chissà quanti centimetri le trapassava un’anca costringendola a terra, ai piedi di una colonna. Mi volto verso la strada per ottenere una tregua dal sangue, dal terrore, dalla disperazione e vedo un auto passarmi davanti al massimo della velocità. È l’unico modo di attraversare la città. Si sentono in sequenza i colpi dei cecchini che sembrano rispondersi a distanza di pochi secondi, ormai ascoltando i boati riesco a capire a quale altezza del viale la vettura è giunta. Può servire. Mi rendo conto di aver appreso qualcosa che può servire. Che solo qui può servire e solo adesso può servire. Arrivano barelle improvvisate e il piccolo slargo diventa un formicaio impazzito e frenetico, pullulante di uomini e donne che strillano, si muovono, fanno cose. Una voce chiama il mio nome ma rimango inebetito, ora sento distintamente anche il nome della mia collega e voltandomi vedo un uomo dalla faccia conosciuta che mi intima di seguirlo. La mia collega mi passa davanti e inizio a correre seguendoli, con la voglia di andare lontano, con la voglia di pensare a qualcosa di futile, con la voglia di correre solo per correre. Arriviamo in un piccolo parcheggio, qui tutto è più calmo, nessuno parla. C’è un blindato dei caschi blu, un fotografo sta controllando del materiale seduto su un marciapiede, l’aria è immobile, il cielo è bianco, denso, un militare sta parlando ad una radiolina in una lingua difficile da comprendere, forse olandese. Saliamo in macchina e ho ancora voglia di vomitare. Ho il respiro affannato, le gambe mi bruciano, mi sento come sotto anestesia, vedo le mani tremanti sostenere la macchina fotografica ed ho voglia di piangere, lo farei a dirotto, lo farei anche adesso se non avessi accanto lei e continuo a sentire quelle grida, a vedere quei volti storpiati dal dolore, a sentire le bombe che piovono su questa città ormai fantasma. Ci sono palazzi sventrati, senza facciata, in cui famiglie continuano a vivere, in cui uomini e donne mangiano, si muovono, dormono sull’orlo del baratro, magari al quarto o quinto piano, ormai insensibili allo sguardo dei passanti, alla mercé dei divertimenti d’un cecchino. Tre giorni fa hanno ritrovato una ragazza su un marciapiedi, i suoi familiari non la vedevano da mesi. È incinta. È stata stuprata tutti i giorni per quaranta giorni da una banda di venti uomini. L’hanno chiamata cagna musulmana accampando neanche troppo convinte argomentazioni per giustificare i loro gesti. Non riesce a dormire per più di un paio d’ore consecutivamente e il suo unico pensiero è liberarsi la pancia da quell’essere che, sebbene senza colpa, rappresenta il male assoluto.
Arriviamo al nostro albergo e senza pensare mi spoglio. Sento la necessità di liberarmi d’ogni cosa, ho bisogno di sentire il mio corpo libero. La stanza è fredda, rimango nudo, accovacciato sul letto fisso i miei vestiti per terra, sormontati dalla macchina fotografica. Il freddo pungente mi fa tremare ma non voglio, non posso muovere un muscolo, ho bisogno di quella realtà che solo la natura riesce a dare attraverso il freddo, il caldo, il dolore. Il mio viso è rigato da una lacrima, la sento che si insinua tra il naso e la ganascia, corteggia il labbro per morire all’angolo della bocca. Non dobbiamo accertare ogni verità. Alcune le devi supporre, altre puoi intuirle, ce ne sono alcune che devi combattere e respingere con tutte le forze e quando arriverà il momento in cui saranno lì di fronte ai tuoi occhi in tutta la loro sbalorditiva e abbagliante chiarezza, anche allora dovrai fare di tutto per rifiutarne una parte, fosse solo per continuare a vivere, fosse solo per concederti un’esistenza felice. Ho visto la crudezza della morte e sentito l’orribile grido della sofferenza. Ho conosciuto l’irripetibile violenza del tradimento, ho visto il buio ineliminabile di chi ha perso la dignità per sempre, ho avuto la certezza degli omicidi, delle delazioni, degli eccidi, degli stupri, delle mutilazioni e ora che sono qui, nudo sul letto, comprendo la natura della verità che non posso accettare. Guardo fuori dalla finestra, vedo dei monti, ma non sono quelli del Kazakistan, lì fuori non c’è il deserto dei Gobi o quello della Tanzania. Il verde di quegli alberi non è quello irraggiungibile delle foreste tropicali e le gocce d’acqua che si infrangono leggere su questi vetri non sono portate dai monsoni. Quei monti sono i miei monti, quel verde è il mio verde, quella pioggia è la stessa che mi bagna nelle mattine d’autunno mentre faccio footing. Sono a 450 chilometri dall’Italia, tra un romano e un milanese la distanza è maggiore. Questo non riesco ad accettarlo, non posso farlo diventare verità. Facendolo considererei un’eventualità che la mia mente non può concepire. Il mostro deve essere diverso da me.
Appena riprendo un minimo di freddezza capisco che la frase che mi ripeto continuamente, io non sono di lì, è sbagliata. Dovrei dire io non ho vissuto la guerra, io sono un uomo senza guerra. Io non devo sapere che i pezzi dei cadaveri senza nome non possono essere messi nei cassonetti perché si rischia che i cani li disperdano per la città, io non devo sapere che un uomo in mezzo alla strada con un foro in una gamba non deve essere aiutato perché oramai i cecchini lo usano come esca, io non devo sapere che è necessario guardarsi dai vecchi amici perché sono quelli che conoscono le tue origini. Io sono un uomo senza guerra. Un uomo che può ritornare a ogni ricordo senza impallidire, che usa gli psicofarmaci per un po’ di stress, che bestemmia perché gli hanno rigato la macchina e mangia ciò che ha voglia quando ha voglia. Sono un uomo senza guerra perché decido dove vivere perché nessuno può requisirmi ciò che ho comprato col sudore, sono un uomo senza guerra perché quando saluto mia madre o mia sorella non devo preoccuparmi o maledirmi per averle lasciate sole.
Le mie mani cancellano la scia di sale sul volto per scivolare sui fossi oculari concedendomi il buio. Inizio a strofinarle sul viso con sempre maggior forza, con l’urgenza di chi ha bisogno di sentirsi vivo e reale, imprimere e nello stesso tempo cancellare, imprimere e nello stesso tempo cancellare. Inizio a sentir dolore senza riuscire a fermarmi, sento il naso piegarsi e non ho tregua, la barba graffiarmi e non ho tregua, vorrei urlare, vorrei cavarmi gli occhi colpevoli d’aver visto, torturare la bocca capace di riferire, strappare via la pelle per non assomigliare ad un uomo. Poi il respiro si blocca, la gola vibra e sobbalza, le mani si bloccano e inizio a piangere, un pianto infinito, una richiesta d’aiuto, la ricerca di una redenzione per i peccati commessi e per quelli solo immaginati, una giaculatoria indecifrabile che mi sfinisce.
Sono tornato a casa poco dopo, a quattrocentocinquanta chilometri da lì per l’appunto. Ho ritrovato la mia casa, il mio giardino, il mio cane. Ho smesso di fare footing, corro solo se necessario. Non sono più tornato in Jugoslavia e da quei giorni ne ho parlato e sentito parlare poco. Tempo fa ho letto distrattamente di un meccanismo cerebrale studiato da Freud chiamato rimozione. Tale meccanismo permette alla gente di eliminare i ricordi più duri, i pensieri più raccapriccianti, quelli che non permetterebbero di sopravvivere. Forse siamo tutti nati per essere uomini senza guerra.